di padre Angelo del Favero*
ROMA, giovedì, 16 agosto 2012 (ZENIT.org) – Pv 9,1-6
“La sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola. Ha mandato le sue ancelle a proclamare sui punti più alti della città: “Chi è inesperto venga qui!”. A chi è privo di senno ella dice: “Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l’inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell’intelligenza”.
Gv 6,51-58
“In quel tempo Gesù disse alla folla: “Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. Gesù disse loro: “In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me, vivrà per me”.
Se noi sacerdoti fossimo nel numero dei discepoli che ascoltarono per la prima volta queste parole dure di Gesù, probabilmente non rimarremmo scandalizzati, pronti come siamo a spiegare che nell’Eucaristia “Gesù non è presente come un pezzo di carne, non lo è nell’ambito del misurabile e del quantitativo. Gesù, infatti, è risorto. Noi non mastichiamo la carne come farebbero dei cannibali.(…)” (J. Ratzinger, Il Dio vicino, p. 86-87).
A chi ci chiede infatti cosa significa ‘fare la Comunione’, diamo volentieri questa risposta: “Non si tratta mai di un processo corporeo, come quando mangio un pezzo di pane. Ricevere Cristo significa andare verso di Lui, adorarlo” (id., p. 92). E per dare l’idea del giusto atteggiamento da tenere nell’accostarci all’Eucaristia, siamo ammirati nei riferire “quel che ci viene raccontato dei monaci di Cluny intorno all’anno Mille: quando si accostavano alla Comunione, si toglievano le calzature. Sapevano che qui c’è il roveto ardente, che qui è presente il mistero davanti al quale Mosè era caduto in ginocchio sulla sabbia. Le forme cambiano, ma ciò che deve rimanere è lo spirito di adorazione” (id., p. 85).
Questa premessa ci orienta a capire in che senso, oggi, è diventato “duro” per noi stessi sacerdoti il discorso con cui Gesù scandalizzò i suoi ascoltatori nella sinagoga di Cafarnao: “Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: “Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?” (Gv 6,60).
Partiamo dalla prima Lettura.
E’ qui descritto il banchetto imbandito da “Donna Sapienza” sullo sfondo di un edificio perfetto, simbolo di ogni luogo consacrato dove si celebra la santa Messa: “La Sapienza si è costruita la sua casa, ha intagliato le sue sette colonne. Ha ucciso il suo bestiame, ha preparato il suo vino e ha imbandito la sua tavola” (Pv 9,1s).
L’invito a mangiare è qui proposta di adesione all’insegnamento sapienziale, necessario agli inesperti per vivere secondo Dio, ma rimanda alla mensa dell’altare cristiano.
La carne e il vino imbanditi, perciò, sono simbolo non solo dell’Eucaristia, ma anche della fame e della sete con le quali normalmente ci si siede a tavola con appetito. Quando è l’ora del pasto, salvo casi patologici particolari, non c’è e non ci deve essere inappetenza né anoressia.
Torniamo alle parole di Gesù: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” (Gv 6,54-56).
Parlo ora come sacerdote: se la fede certa che abbiamo nelle divine parole della Consacrazione mentre ci fa comprendere il loro stupefacente significato impedisce anche di riceverne scandalo, non di meno l’indurimento in chi ci ascolta pronunciarle accade spesso come conseguenza del nostro modo di celebrare l’Eucaristia.
Troppo spesso la nostra Messa è affrettata e distratta: un’indegna sequenza di gesti meccanici tanto lontana dal trasmettere il senso del Mistero quanto capace solo di generare scandalo e disagio, oppure indifferenza e noia nei fedeli presenti.
Manca in noi ciò che raccomandava J. Ratzinger: lo spirito di adorazione. I nostri cuori sacerdotali sono spesso induriti, così che il Corpo e il Sangue di Cristo nelle nostre mani vengono trattati come se non fossero Lui in persona, ma semplice pane e vino non consacrati.
Siamo noi a non avere né fame né sete di Cristo, e quindi non viviamo la santa Messa con la gioia dell’esperienza di un incontro reale con il Signore Gesù, vivo in mezzo a noi. Mancando il desiderio di Dio, anche per noi sacerdoti è come sedersi a tavola senza appetito: impossibile gustare e vedere come è buono il Signore (Salmo 33/34)!
“Abbandonate l’inesperienza e vivrete”, grida oggi la Sapienza ai ministri dell’altare, come a dire: imparate ad amare la Messa, ad amare l’altare, a gioire per il privilegio di celebrare “in persona Christi”.
Impariamo ad amare Gesù Eucaristia mettendoci alla scuola di Colei che è la Madre del sacerdote, Colei che meritò di dare la sua carne e il suo sangue al Sommo Sacerdote per la purezza del suo cuore immacolato e la forza del suo amore a Lui.
Noi sacerdoti sappiamo bene che l’Eucaristia è veramente la persona di Gesù, Gesù concepito in Maria e nato da Maria. Questa profonda comunione d’appartenenza e d’amore tra Lui e Lei, deve caratterizzare anche la nostra personale relazione con la Madonna, Madre di Gesù e madre nostra.
Solo così celebreremo con quello spirito di adorazione con cui Maria accudiva il Bambino nelle sua mani sante e venerabili, e la Vita di Gesù trasformerà i nostri cuori assieme ai cuori dei fedeli.
——–
* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.