AQUILEIA, giovedì, 19 aprile 2012 (ZENIT.org) - Riportiamo di seguito l’omelia che il cardinale Angelo Bagnasco, Arcivescovo Metropolita di Genova e Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha svolto a Aquileia, domenica 15 aprile, a conclusione del secondo convegno ecclesiale delle Chiese del Triveneto.

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Cari Confratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,

Autorità,

Cari Fratelli e Sorelle nel Signore,

Sono lieto di essere con voi per celebrare la conclusione di un significativo cammino pastorale delle Diocesi  del Triveneto. Le comunità cristiane che, con i loro Pastori, si interrogano su come annunciare il Vangelo all’uomo contemporaneo, sono motivo di gioia e di fiducia, poiché manifestano la passione di annunciare Gesù, consapevoli che “è l’amore di Cristo che colma i nostri cuori e ci spinge ad evangelizzare”, come ricorda il Santo Padre Benedetto XVI (Porta fidei, 7).

Fin dall’inizio del suo ministero petrino, egli ha richiamato l’attenzione sulla fede che si presenta oggi come il problema più urgente: la fede non di chi non crede, ma di chi crede. Una fede a volte tiepida e stanca, poco consapevole, non è in grado di riscaldare il mondo moderno che, dopo tante illusioni, spera di ritrovare il cielo e di scoprire che non è disabitato.

Sono molti i deserti che assediano il cuore degli uomini, forse anche il nostro: ma – così mi sembra – il deserto più grande e temuto è la paura di essere soli, orfani, gettati nel caso di un universo vuoto e freddo; spinti a ritirarsi dentro ad una cinta che rassicuri ma che non ripara dalle intemperie. Dove sto andando? - l’uomo si chiede -, che cosa mi attende dopo il muro del tempo? Che senso hanno le gioie che stringo come l’acqua tra le mani, le fatiche che affronto, il dolore mio e di tanti, specialmente di chi è innocente? Perché tanto grande e diffuso è l’istinto del dominio? Dove ho fondato l’edificio dei miei giorni? Illusioni o realtà, sabbia o solida roccia?

Cari Amici, parliamo dell’uomo moderno, ci interroghiamo su come è fatto per comunicare con lui, per offrire la lieta notizia di Gesù; cerchiamo le vie di accesso al suo cuore. Ed giusto! Ma, non dimentichiamo: Sant’Agostino ci insegna che l’uomo, nel fondo di se stesso, è sempre uguale nel suo anelito alla felicità e alla vita. Le situazioni mutano, e con esse subentrano sollecitazioni nuove che dobbiamo conoscere, e che poco o tanto conosciamo perché viviamo nel tempo, ma il cuore umano resta ferito, segnato da un’inguaribile nostalgia di cielo, di bene, di verità, di gioia.

E’ vero che la polvere è un grande nemico: su tutto si deposita e si accumula, rende opaco lo sguardo e attenua le voci dell’anima, ma l’uomo resta uguale a se stesso, come una freccia posta verso il cielo. Ed è in questo costitutivo e provvidenziale paradosso che Dio aspetta le sue creature. Le attende come un padre i suoi figli riottosi e dimentichi, forse ingrati e ribelli. Ma li attende, e la sua attesa non è inoperosa, ma ci precede sempre; arriva prima dei suoi stessi messaggeri, tanto da farci commuovere quando scopriamo che Lui, il Signore, aveva già posto i suoi semi di inquietudine e di ricerca.

Ma come possiamo corrispondere meglio alle attese del mondo? Attese di trascendenza, di qualcosa che rompa il cerchio soffocante del materialismo e liberi lo spirito, perché possa librarsi verso l’alto e così meglio vivere il tempo? Sicuramente le vostre riflessioni vi hanno portato a delle indicazioni pertinenti, vi hanno confermato in cammini pastorali antichi, e incoraggiato verso strade nuove. La fantasia dello Spirito, che il Risorto ha inviato alla sua Chiesa, ispira la passione per le anime. Il Vangelo appena ascoltato, però, arricchisce il vostro convenire ecclesiale e sospinge verso alcuni lidi mai esauriti o scontati.

I discepoli sono riuniti, il Risorto entra a porte chiuse augurando la pace, ed essi gioiscono al vedere il Signore. Le porte chiuse evocano un certo timore dei discepoli che ancora non sanno di Gesù; ciò che sembra unirli è la paura del mondo esterno e la comune esperienza della delusione e della tristezza.

Ma Gesù risorto irrompe, e apre non solo il luogo del raduno, ma i loro cuori, e con l’augurio della pace placa il turbinio dei sentimenti e dei discorsi: l’augurio pacifica i loro animi perché  non è solo un auspicio ma un dono. E così nasce la gioia, non quella traditrice che consegue al successo, ma quella che è generata dal vedere Gesù, che nasce dalla sua presenza, dall’accorgersi che Lui è lì con loro e che li abbraccia con il suo sguardo. Ecco la prima risposta che ci viene dal Vangelo: il mondo ha bisogno di vedere attraverso la comunità cristiana unita e gioiosa il volto del Risorto, il cielo.

Ma le nostre comunità sanno vedere il Signore, sanno aiutarsi a vederlo nei solchi dei cuori, nella vita della gente, nella storia? Oppure sono dei luoghi chiusi per timidezza, per rispetto umano, per poca convinzione? La gioia cristiana è tanto più vera quanto più si trova in mezzo alle difficoltà, più vera perché riposa solo nella presenza del Signore e non sulla nostra efficienza.

Allora cresce “un più convinto impegno ecclesiale – come scrive il Papa – a favore di una nuova evangelizzazione per riscoprire la gioia nel credere e ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede” (ib). Quell’aggettivo “nuova”, non  può riferirsi innanzitutto ad una rinnovata comunità cristiana, capace di vedere il Risorto e quindi di vivere e di comunicare la gioia?

Ma il Vangelo mette in rilievo un altro elemento che va ad approfondire quell’aggettivo che da anni  circola sulle nostre labbra. Tommaso, assente durante la prima apparizione, non si fida della parola dei suoi compagni. Gesù, paziente, ritorna e dolcemente lo rimprovera: un monito che sale dai secoli fino a noi. La comunità dei discepoli deve essere una comunità di fiducia e di affidamento: “Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”.

E’ dunque una comunità solida quella che il Signore vuole, una comunità centrata su di Lui, ma dove i rapporti reciproci sono fluidi e affidabili, le diffidenze e i primaziati sono dissolti anche se rinascono ogni giorno in un dinamismo umano che viene vinto dalla grazia rovente dello Spirito. Una comunità dove la fede degli uni sostiene l’incredulità di altri, e così la preghiera e l’amore.

Infine, non possiamo tacere del dono dello Spirito per il perdono dei peccati: è l’amore misericordioso di Dio che si fa perdono e grazia. In questa seconda domenica di Pasqua, dedicata alla divina misericordia, ci viene ricordato che abbiamo bisogno del perdono come della luce. Ma anche che il mondo vuole incontrare uno sguardo di misericordia e di perdono per sentirsi riabilitato ai suoi stessi occhi, per poter riconoscere la sua presunzione di voler fare a meno di Dio.

L’uomo, ogni uomo ha bisogno di sentirsi rigenerato per guardare al domani con fiducia, per  ricominciare la vita. Tanta violenza nasce dal non sapersi perdonati, fissati nei propri errori, e quindi senza futuro, come se il tempo dovesse essere un continuo ritorno del male e della vergogna. Ma così non è, e il mondo deve sapere che dove c’è Dio c’è futuro. Deve sapere che la gioia è possibile, e devono leggerla sul volto dei cristiani, sul nostro volto. “Solo credendo (…) la fede cresce e si rafforza”, dice Benedetto XVI rifacendosi a Sant’Agostino: “i credenti si fortificano credendo” (ib).

Cari Confratelli, cari fratelli e sorelle!

Nella sera che avanza, in questo splendido cenacolo, anche noi facciamo l’esperienza dei primi discepoli: anche qui il Risorto è entrato con la sua parola che pacifica i  cuori e ci chiama a conversione; anche noi, guardando a Lui, ci affidiamo gli uni agli altri perché la nostra fede cresca, la comunione si rafforzi, la gioia cristiana sia rinnovata e contagi le no stre terre, i borghi, le città e i mari.

E cammini veloce sulle ali libere della verità di Dio che è amore. In questa preghiera, mentre celebriamo Cristo, luce che non tramonta, vogliamo abbracciare il Santo Padre Benedetto XVI con i suoi 85 anni di vita. A lui guardiamo con gratitudine e affetto grandi, con docilità di mente e di vita. Vogliamo seguirlo – lui il Vicario di Gesù – mentre con serenità e forza ci conduce in un cammino di interiore riforma, prima forma di ogni evangelizzazione. Lo raggiungiamo sulle ali della preghiera perché il Signore, che lo ha scelto, lo sostenga con la forza dolce e gentile del suo Spirito.