ROMA, giovedì, 19 aprile 2012 (ZENIT.org) – Riportiamo di seguito l’intervento di monsignor Enrico dal Covolo, rettore della Pontificia Università Lateranense, nel corso del convegno internazionale “Costantino il grande. Alle radici dell’Europa”, svoltosi ieri 18 aprile nello stesso Ateneo.
Il convegno è promosso dal Pontificio Comitato di Scienze Storiche, con il patrocinio dell’Archivio Segreto Vaticano, della Biblioteca Apostolica Vaticana, del Consiglio Nazionale delle Ricerche, della Biblioteca Ambrosiana, del Consiglio Regionale del Lazio, della Delegazione dell’Unione Europea presso la Santa Sede e della Pontificia Università Lateranense.
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La prolusione del Convegno prende il suo avvio dagli imperatori Severi (193-235), visti come “i precursori” della cosiddetta “svolta costantiniana”.
Più ampiamente, si mostra che le radici della svolta vanno cercate assai indietro nel tempo, e che – di conseguenza – l’alleanza tra impero romano e religione cristiana, sancita da Costantino, non possiede quel “carattere rivoluzionario esplosivo”, che certa manualistica ancor oggi le attribuisce.
A tale scopo, si affronta il tema dell’ideologia religiosa imperiale e dei conseguenti “incontri-scontri” tra pagani e cristiani.
In verità – come ci si propone di dimostrare nei due paragrafi conclusivi – la svolta costantiniana ubbidiva alla politica religiosa della tradizione classica, soprattutto romana: la protezione della divinità, e il culto senza impedimenti che la propiziava, erano considerati indispensabili per la stabilità delle istituzioni civili.
Gli interventi legislativi in materia religiosa – da Costantino a Teodosio –, mentre gradualmente riconoscevano ai cristiani la piena libertà di culto e, all’inverso, limitavano l’esercizio della religione pagana, si collocavano paradossalmente sulla linea della tradizione romana, una volta decisa, dopo Galerio, l’inopportunità della persecuzione contro i cristiani.
Di fatto, occorreva sostituire il culto pagano con il culto cristiano, pur lasciando intatto il sistema del raccordo tra politica e religione, unica garanzia di sopravvivenza per l’impero nella tradizione greco-romana.
1. Gli imperatori Severi, precursori di Costantino?
Il titolo di questo paragrafo introduttivo evoca il testo della comunicazione offerta nel 1986 da Robert Turcan ai membri dell’Associazione “Guillaume Budé” di Lione.
Turcan esordiva con questa domanda: “Héliogabale précurseur de Constantin?”; per concludere, dopo attenta disamina, che Elagabalo non fu monoteista, come non fu – propriamente parlando – “un precursore di Costantino”.
Tuttavia il privilegio da lui accordato al Sol Invictus, il grande Baal di Emesa di cui egli stesso era il sacerdote circonciso, prefigurava in qualche modo l’“imperatore-vescovo”, cioè – a dire di Turcan – quel “cesaropapismo” che avrebbe gravato pesantemente sull’impero cristiano.
Un anno prima, nella “tavola rotonda di inaugurazione dell’anno accademico 1985-1986 presso l’Istituto Patristico Augustinianum, Raffaele Farina – oggi Cardinale Bibliotecario e Archivista di Santa Romana Chiesa: uno dei più importanti studiosi dell’imperatore Costantino e delle prima teologia politica del cristianesimo – osservava che “le radici della cosiddetta ‘epoca costantiniana’ sono da ricercarsi più indietro nel tempo”, e che, di conseguenza, l’alleanza tra impero romano e religione cristiana realizzata da Costantino“non possiede quel carattere esplosivo rivoluzionario che le viene attribuito”.
Oggi, a venticinque anni di distanza, occorre riconoscere la validità delle intuizioni – diversificate, e tra loro indipendenti – di Turcan e di Farina.
Lo storico delle origini cristiane, come lo studioso della letteratura cristiana antica, devono ritenere ormai che la cosiddetta “svolta costantiniana”, con le sue enormi conseguenze, fu anticipata di oltre un secolo dalla politica religiosa di Commodo e dei Severi.
Come è noto, tra la fine del II e i primi decenni del III secolo l’impero denuncia le crepe di una crisi profonda. E’ celebre la radicalizzazione di Santo Mazzarino: a suo parere, “non esiste epoca, in tutta la storia della nostra cultura, la quale sia così densa di assurdità, pressoché paradossali, come questa sconvolta epoca di Commodo e dei Severi”.
Sul versante politico-istituzionale, la crisi viene ritardata appunto dall’avvento della dinastia severiana (193-235), vistosamente impegnata nel consolidamento e nella propaganda religiosa della monarchia; mentre l’adesione ormai palese al cristianesimo dell’entourage di corte e delle clarissimae famiglie senatorie prefigura l’atto definitivo della conquista dell’impero da parte della Chiesa.
Allo stesso tempo, i molteplici contatti fra le due istituzioni si riflettono anche nella consonanza tra l’ideologia religiosa della corte imperiale e l’egemonia monarchiana nella Chiesa di Roma.
E’ pur vero che l’“apertura” dei Severi al cristianesimo si rivolgeva più che altro a una minoranza intellettuale, che amava definire la propria fede con il termine filosofia, piuttosto che con quelli di religione o di teologia. Costantino, invece, aveva ormai visto nei cristiani una minoranza sociale ben organizzata, capace di vantaggiose, e addirittura necessarie alternative rispetto alla tradizione religiosa precedente.
2. L’ideologia religiosa imperiale
Come si vede, bisogna approfondire anzitutto il concetto di religio, per cogliere il punto di vista degli imperatori – prima e dopo i Severi – nei confronti della religione cristiana.
Dobbiamo riconoscere tuttavia che il ricorso all’etimo di religio non è decisivo per la nostra analisi. Si tratta in effetti di un’etimologia controversa. Secondo alcuni, il vocabolo va connesso con religere/relegere (“raccogliere di nuovo”, “rileggere”); secondo altri, si riallaccia invece a religare (“riunire”, “legare”, “riannodare”).
Ma è un fatto che, a prescindere dalla questione dell’etimo, il modo di intendere la religione nel mondo romano si accorda di più con l’orientazione semantica di religere/relegere che con quella di religare.
“Ricominciare una scelta già fatta (retractare, dice Cicerone), rivedere la decisione che ne risulta, tale è il senso proprio di religio. Indica una disposizione interiore, e non una proprietà oggettiva di certe cose, o un insieme di fede e di pratiche”: così afferma É. Benvéniste nel suo Vocabolario delle istituzioni indoeuropee. A suo dire, “religio è un’esitazione che trattiene, uno scrupolo, e non un sentimento che dirige verso un’azione, o che incita a praticare il culto”.
Così nell’età classica religio indica anzitutto un atteggiamento fatto di scrupoloso rispetto verso le istituzioni, ed è questo il senso che mantiene lungo il tragitto della latinità. In rapporto all’identità del cittadino, impegnato per la sua stessa sopravvivenza a conservare la polis, la religio è ciò che dà forza alle istituzioni civili, e ne garantisce la durata.
Dentro queste prospettive, la nozione di religio rimane sempre connessa con la diligentia e con la scrupolosa osservanza del culto.
Nella medesima direzione, Virgilio (+ 19 a.C.) giunge a identificare religio con rito, e ad “oggettivarne” – almeno per qualche aspetto – la soggettività originaria. Quando, nel secondo libro dell’Eneide, Priamo chiede a Sinone quae religio sottenda la costruzione del cavallo, egli si riferisce evidentemente a una pra
tica cultuale.
La risposta di Sinone – secondo cui il cavallo sarebbe stato di così ampie dimensioni per impedirne il passaggio entro porte nemiche neu populum antiqua sub religione tueri (possit) –ribadisce il medesimo significato, nel senso che il culto, una volta acquisito dalla città nemica, avrebbe recato con sé la protezione del dio dedicatario.
D’altra parte, Virgilio usa il termine religio anche nel senso di “timore reverenziale”: tuttavia rimane da stabilire se ciò dipenda o meno da una sua “ricostruzione antiquaria”. Il problema da risolvere – e non è questione di poco conto – è se sussista nella memoria storica dei romani uno “strato primitivo” permanente legato al “timore reverenziale”, ovvero se questo uso debba riferirsi a una rielaborazione poetica (“antiquaria”, appunto) di Virgilio stesso.
3. Incontri e scontri tra pagani e cristiani
La domanda che ci poniamo a questo punto è quella affacciata, ancora di recente, da Giorgio Filoramo: “Ci fu un contributo cristiano al costituirsi di una tradizione interpretativa della religione?”.
A questa domanda egli stesso risponde: “La risposta sembrerebbe negativa. I polemisti cristiani, da Arnobio a Lattanzio, da Eusebio ad Agostino, nel loro confronto con gli dèi pagani utilizzarono senza alcuna novità l’armamentario ideologico che secoli di critica filosofica alle tradizioni mitico-religiose”, da Senofane e da Democrito in poi, “avevano elaborato”.
Sul versante della critica filosofica, dunque, l’“incontro” tra cristiani e pagani appare sicuramente attestato.
Ma “se una qualche novità si vuole trovare” – ed è questa l’area dello “scontro” –, essa, prosegue Filoramo, “va individuata nella diversa prospettiva con cui gli autori cristiani guardarono, per altro sulla scia dell’apologetica giudaico-ellenistica, al mondo delle tradizioni religiose. Per un verso, infatti, il confronto con l’idolatria pose il problema di individuare la ‘vera’ religione, di contro a quelle religiones che si rivelavano invenzione umana o, peggio, creazione diabolica; per un altro, un’incipiente teologia naturale, innestata su un modo nuovo di concepire e strutturare la storia, doveva fornire quel quadro generale di storia sacra, al cui interno per secoli si sarebbe collocata l’interpretazione della religione e delle religioni”.
Partiamo da questo secondo elemento dello “scontro”.
L’alfiere delle relative argomentazioni è Tertulliano (+ dopo il 220), il primo autore della letteratura cristiana in lingua latina. Il suo ragionamento è semplice, mentre coniuga la natura delle cose con il primo articolo della fede cristiana: “Quello che noi adoriamo”, egli confessa, “è il Dio unico, che trasse dal nulla questa gigantesca mole”. Nessun altro, in verità, lo ha aiutato nel suo immane lavoro di Creatore.
“Se dunque”, prosegue poco più oltre l’Africano, “i vostri dèi non esistono, è altrettanto vero che la vostra religio non esiste; e se non vi è religio, perché non vi sono gli dèi, neppure noi possiamo essere ritenuti colpevoli di lesa religione (lesae religionis). Al contrario, ricadrà tale rimprovero su di voi, che adorate la menzogna, non solo negligendo la vera religio del vero Dio (veram religionem veri Dei non modo negligendo), ma per di più combattendola, cadendo in tal modo in un delitto di autentica irreligiosità (crimen verae irreligiositatis)”.
Da parte sua Minucio Felice, contemporaneo di Tertulliano, ne completa il “colpo di mano” semantico applicando il sintagma vera religio alla realtà cristiana, mentre superstitio e impietas giungono a definire la religio romana e le altre religiones.
Torniamo così al primo argomento dello “scontro”, cioè al dibattito sulla vera religio.
A questo riguardo uno dei testi più interessanti della letteratura cristiana antica è il famoso scritto indirizzato A Diogneto verso la fine del II secolo. I cristiani, scrive l’anonimo autore, “sono avversati dai giudei come un altro popolo, e dai greci sono perseguitati, e coloro che li odiano non sanno dire la causa del loro odio”.
E’ qui accennata la celebre tripartizione religiosa, per cui i cristiani figurano come un tertium genus rispetto ai giudei e ai greci (si noti che nelle fonti patristiche parallele questi ultimi sono intercambiabili con i romani). La “terza stirpe” si caratterizza come tale proprio per il suo “discorso” (logos)assolutamente nuovo nei confronti della religione.
“Su dunque”, così esordisce il secondo capitolo dell’apologia, apostrofando vivacemente il pagano chiamato alla conversione; “purìficati da tutti i pregiudizi che ti imprigionano lo spirito, spogliati dalla consuetudine acquisita che trae in inganno, diventa un uomo nuovo, quasi appena nato, così come nuovo (tu stesso l’hai riconosciuto) è il discorso (logos) che ti appresti ad ascoltare, e osserva – non solo con gli occhi, ma anche con l’intelligenza – quale sia la sostanza o quale la forma di quelli che continuate a chiamare e a ritenere dèi”.
Un’eco di simili espressioni si trova negli Stromati di Clemente Alessandrino (+ 215 ca., che cita a sua volta le Predicazioni apocrife di Pietro): “Le cose dei greci e dei giudei”, vi si legge nel sesto libro, “sono ormai vecchie (palaiá); noi cristiani, invece, adoriamo Dio in modo nuovo (kainôs), come una terza stirpe”.
Ecco dunque la tipologia fondamentale dello “scontro”. I cristiani con il loro logos religioso assolutamente nuovo sfidano i pagani a valutare la consistenza dei miti tradizionali. Di fatto, per quanto la critica filosofica ne avesse ormai smantellato la credibilità, i romani vi restavano abbarbicati per consuetudine, nel timore che l’abbandono della religione tradizionale dovesse coincidere con il caos delle istituzioni.
Contestualmente i cristiani investono il termine religio di una valenza nuova. Nel linguaggio cristiano, infatti, la voce religio rinvia a contenuti oggettivi che originariamente le erano estranei, se davvero – come abbiamo visto all’inizio – religio presso i paganiindicava prima di tutto una disposizione soggettiva, uno “scrupoloso rispetto verso le istituzioni”, piuttosto che un insieme di credenze oggettive.
Tuttavia, come abbiamo già accennato, non è il termine religio quello privilegiato dai nostri Padri per definire il loro logos radicalmente nuovo nei confronti della religione. Neppure theologhía – termine eccessivamente compromesso con la triplice teologia descritta da Varrone e dai suoi epigoni – era in grado di appagarli.
Rimaneva piuttosto la voce philosophía, che rappresentava pur sempre l’area dell’“incontro” tra paganesimo, giudaismo e cristianesimo sul piano della critica alla religione tradizionale e ai suoi falsi miti.
“La nostra filosofia…”: così in effetti definisce la nuova religione il vescovo di Sardi, Melitone, nell’Apologia da lui indirizzata a Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, verosimilmente nei medesimi anni in cui l’anonimo autore dell’A Diogneto assimilava il cristiano al filosofo (inteso platonicamente come “re nel cuore della città”), e per questa via poteva affermare che i cristiani, pur ubbidendo alle leggi, “con la loro vita superano le leggi”.
In tal modo – precisamente optando per la filosofia e rinnegando la falsa religio, identificata con irreligiositas e superstitio –i cristiani intendevano rassicurare i romani del loro lealismo verso le istituzioni civili, e si difendevano – ritorcendola contro i pagani – dalle accuse di “ateismo” e di “emp
ietà”.
4. La svolta costantiniana
E’ su questo ampio sfondo storico-religioso che va collocata la cosiddetta “svolta costantiniana”, ai fini di una sua corretta interpretazione.
Come recita l’aggettivo stesso, protagonista indiscusso ne è Costantino il Grande. Egli è, nello stesso tempo, il depositario coerente della tradizione storico-religiosa fin qui rivisitata.
Come già Diocleziano e Galerio, e come tutti gli imperatori prima di loro, egli vedeva nella religione l’unica garanzia di prosperità dell’impero e della sua unità. Costantino però – a differenza dei suoi predecessori – si rese conto lucidamente che, per diversi motivi, la religio tradizionale non era più in grado di assolvere il suo compito, e che occorreva “sostituire” gli dei dell’Olimpo con il Deus Christianorum, senza intaccare per questo il nodo saldo che univa tra loro religione e politica.
In tale prospettiva si comprende quello che abbiamo anticipato fin dall’inizio: cioè che la “svolta costantiniana” è nella realtà assai meno rivoluzionaria di quanto molto spesso si voglia credere; e si capisce anche il grave equivoco con cui la nuova religione veniva accolta e riconosciuta fra le istituzioni dell’impero.
Da Costantino, infatti, essa fu compresa anzitutto come un’etica: per lui, Gesù Cristo non era tanto il Logos, quanto piuttosto il Nomos, e la religione dei cristiani aveva essenzialmente lo scopo di propiziare, mediante un culto esatto, il favore della Divinità, senza la quale era impossibile la sopravvivenza e la prosperità dell’impero. La novità era che – mentre prima il giusto culto della divinità sembrava esigere necessariamente la repressione della religione cristiana, non integrabile nel culto tradizionale – ora invece la Divinità da cui si attendeva protezione, l’unica capace di garantire l’unità e la durata dell’impero, era quella dei cristiani.
La “svolta” fondamentale – che inaugura i nuovi rapporti tra la Chiesa e l’impero – è segnata dalla conversione dell’imperatore nel 312 e dalla pubblicazione del cosiddetto editto di Milano del 313.
Così all’inizio del IV secolo si verifica una delle rivoluzioni più importanti che la Chiesa abbia mai conosciuto: ignorata e perseguitata nel periodo precedente, quasi all’improvviso essa acquista completa libertà, fino a godere privilegi sempre più ampi sotto la “cura” e la “sollecitudine previdente” di Costantino e dei suoi successori.
Stando a Eusebio di Cesarea, suo entusiasta biografo, Costantino definiva se stesso episkopos ton ektos, cioè “vescovo di quelli di fuori”, “vescovo al di fuori della gerarchia”. Santo Mazzarino ha tradotto Eusebio in modo singolare, ma certo efficace, definendo Costantino “vescovo dei laici”.
Da parte mia, ritengo più vicino alla realtà ciò che lo stesso Mazzarino annota nel medesimo contesto.
Eliminato Licinio dopo la battaglia di Crisopoli del 18 settembre 324, l’imperatore diventa l’unico Augusto. Così Costantino attuava la monarchia politica universale; e un anno dopo, nel 325, in occasione del concilio di Nicea – da lui stesso convocato e presieduto – partecipava alla definizione del concetto cattolico di monarchia, nel quadro del dogma trinitario. Come sulla terra si realizzava l’unità assoluta di governo – la monarchia costantinianadell’oikoumene –, così nel cielo trionfava la monarchia divina, l’unico vero Dio dei cristiani.
In maniera coerente, Costantino favorì in tutti i modi l’episcopato, adottando misure di protezione, elargendo privilegi e donazioni, e facendo edificare basiliche in molte città dell’impero. Per lo stesso motivo egli intervenne attivamente nelle dispute teologiche che laceravano le comunità cristiane, segnatamente nella controversia ariana e nella crisi donatista.
In tutti questi casi la politica religiosa di Costantino inaugurava quell’atteggiamento, che sarebbe diventato caratteristico dell’imperatore cristiano: una politica religiosa ispirata alla ricerca non tanto dell’ortodossia, quanto piuttosto di formule conciliative, sulle quali l’imperatore imponeva concordia e unità. Proprio per questo motivo l’imperatore cristiano giunse a perseguitare i cristiani, facendosi protettore potente di non poche eresie.
E’ questa politica religiosa che dà il suo vero contenuto alla formula sopra citata di episkopos ton ektos. Di fatto l’imperatore – soprattutto nell’Oriente bizantino, dove assai più a lungo si mantenne il sistema politico-religioso inaugurato da Costantino –non smise mai di sentirsi coerente depositario di quella tradizione, che da sempre aveva riconosciuto all’Augusto la funzione di mediatore tra il divino e l’umano.
5. L’editto di Tessalonica
Ma il vero “capovolgimento” dei rapporti tra la Chiesa e l’impero fu sancito dall’editto Cunctos populos dell’imperatore Teodosio (379-395), pubblicato a Tessalonica il 27 febbraio 380. Come è noto, tale editto prescriveva a tutti i sudditi dell’impero di “perseverare nella religione trasmessa dall’apostolo Pietro ai Romani”, “professata dal pontefice Damaso, e da Pietro, vescovo di Alessandria”.
In realtà anche l’editto di Tessalonica – come già la “svolta costantiniana” – obbediva puntualmente alla logica che la repressione religiosa aveva sempre assunto nella tradizione romana, non solo durante l’impero cristiano, ma anche e soprattutto durante l’impero pagano e la repubblica: il culto da reprimere era assimilato, a seconda dei casi, al sacrilegio, all’empietà, alla magia o all’ateismo. La repressione non si dichiarava mai diretta contro la religione, ma contro una perversione della religione, contro una sua profanazione colpevole e pericolosa per la respublica. La politica religiosa dell’impero, infatti, voleva garantirsi in ogni caso la protezione della divinità, presentando ad essa la sottomissione di un culto senza impedimenti.
Gli interventi legislativi – dall’editto di Galerio a quello di Teodosio –, mentre gradualmente riconoscevano ai cristiani la piena libertà religiosa e, all’inverso, limitavano l’esercizio del culto pagano, si mantenevano sempre, paradossalmente, sulla linea della tradizione romana, una volta decisa, dopo Galerio, l’inopportunità della persecuzione contro i cristiani. Di fatto, la sostituzione degli dèi dell’Olimpo con il Deus Christianorum, definitivamente sancita dall’imperatore Teodosio, non intendeva minimamente scalfire il sistema tradizionale del raccordo tra religione e politica – sistema sul quale poggiava la stabilità della polis nell’antica Grecia e della respublica a Roma –.
In definitiva, il passaggio dell’impero al cristianesimo abolì i riti pagani, ma non la mentalità che questi riti esprimevano.
Sono evidenti le ambiguità di questo processo di sostituzione, come pure gli ampi spazi di ingerenza ecclesiale che l’imperatore si riservava, sempre attento da parte sua – giova ripeterlo – alla concordia religiosa e all’unità dei sudditi per la salvezza dell’impero, molto di più che all’ortodossia della fede.
Non si devono dimenticare tuttavia le enormi possibilità che la svolta costantiniana assicurava alla Chiesa. Essa poteva finalmente definire le sue strutture interne – a partire dai vari gradi gerarchici e dalla formazione dei sacri ministri –, e organizzare vantaggiosamente la propria azione missionaria.
In definitiva, il sacerdozio dell’imperatore cristiano, inaugurato dalla “svolta costantiniana”, fondava nella teologia politica il modello teocratico “eusebiano-bizantino” del rapporto tra sacerdotium e imperium.