di Giorgio Mion
docente di Economia aziendale all’Università di Verona
ROMA, giovedì, 19 aprile 2012 (ZENIT.org) – Il n° 5 del 2011 della rivista “Concilium” è stato dedicato al tema “Economia e religione”; tra i diversi contributi, desta particolare interesse quello di Johan Verstraeten, docente ordinario di etica presso l’Università Cattolica di Lovanio. Il suo contributo – dal titolo Ripensare l’economia: una questione di amore o di giustizia? ha un approccio critico ai contenuti del Compendio della DSC e, in parte, della Caritas in Veritate, sulla base della presunta “sterzata” del pensiero sociale cristiano verso posizioni che non tengono nel giusto conto il concetto di “giustizia”.
Su tale contributo già si sono manifestate alcune posizioni critiche: ad esempio, quella del prof. Stefano Ceccanti – docente di diritto pubblico all’Università “La Sapienza” di Roma e senatore del partito Democratico – e di Liberté politique.
Proveremo a dare una lettura critica alla proposta/protesta di Verstraeten, cogliendone alcuni spunti di indubbio interesse, concordando, ma non sovrapponendoci alle due critiche già anticipate; infatti, ci pare che nell’articolo apparso su Concilium si pongano due questioni metodologiche importanti, che hanno – a nostro giudizio – conseguenze non indifferenti sui contenuti specifici dell’articolo:
1) La DSC deve porsi come “etica particolare”, in una posizione prevalentemente “pastorale” ovvero è legittimata ad intervenire in uno spazio pubblico più ampio, superando il rischio del particolarismo?
2) La DSC deve avere uno statuto epistemologico di tipo normativo o ad essa si richiede anche uno sforzo positivo di lettura della realtà sociale?
Per quanto riguarda il primo quesito, ci pare di essere in linea con il pensiero di Verstraeten: c’è un “bisogno” di partecipazione del pensiero sociale cristiano al dibattito pubblico; c’è un palese gap di funzionamento dei sistemi economici, che non riescono a risolvere alcune questioni globali fondamentali (la fame, la differenza nord/sud, ecc.).
Dunque, la DSC non può porsi come mera “disciplina delle buone intenzioni”, ma può incidere sui sistemi socioeconomico, parlando al mondo con argomenti forti e convincenti.
In merito alla seconda domanda, invece, ci poniamo in aperto contrasto con l’impostazione che ci pare di intravedere nell’articolo di Verstraeten: egli, infatti, critica il Compendio e, almeno parzialmente, la Caritas in Veritate in quanto non tengono in giusto conto la giustizia nella sua posizione di virtù fondamentale, che dev’essere preminente nella strutturazione delle istituzioni economiche, sociali e politiche, preferendo ad essa il tema dell’amore.
L’Autore ritiene che quest’ultimo vada nella direzione di ridurre le questioni in campo alle relazioni intersoggettive, anziché a quelle istituzionali, ritenute più importanti ai fini del ripensamento dell’economia.
In questo approccio, ci pare che vi sia un certo “dogmatismo”, testimoniato anche dal continuo riferimento al documento del Sinodo generale dei Vescovi del 1971 (La giustizia nel mondo), che sarebbe stato trascurato nella redazione del Compendio e, di fatto, anche nella Caritas in Veritate; si tratta, infatti, di una posizione che noi definiremmo di tipo “normativo”, che disegna sistemi ideali fondati sulla giustizia ritenuta in economia “meno vaga” del concetto di utilità sociale [a parere di chi scrive, invece, categoria logica molto più specifica del dibattito economico!], non tenendo sufficientemente conto dell’analisi fattuale.
Di contro, il maggior pregio della Caritas in Veritate ci pare essere quello di partire da un’analisi concreta della realtà e dei sistemi economici, individuando il nesso causale tra insufficienza relazionale delle persone ed ingiustizia dei sistemi. In altri termini, la proposta di CV è quella di partire laddove il gap è maggiore, ovverosia sul piano delle interrelazioni soggettive e delle motivazioni intrinseche: nessuna riforma istituzionale, infatti, può essere efficace senza tale substrato relazionale.
Su questo, dunque, ci sentiamo di dissentire fortemente con l’analisi di Verstraeten: non è il meccanismo tecnico – e istituzionale – che rende il sistema giusto, ma la possibilità che esso si innesti a regolare relazioni giuste, fondate sull’amore. Che senso avrebbero, infatti, istituzioni nuove con regole apparentemente ispirate alla giustizia se esse si inseriscono in un contesto dove la persona è intrinsecamente utilitarista?
In linea metodologica pienamente coerente con il Concilio Vaticano II, dunque, ci pare che la CV si proponga di guardare all’uomo integrale, così come esso è, nei diversi contesti in cui opera: uno sguardo d’amore, ma nella verità.
Ciò non toglie che Verstraeten colga, comunque, lucidamente una parte del problema, ovverosia l’insufficienza delle istituzioni attuali a regolare i sistemi globali; tuttavia, tale critica rischia di essere sterile (in termini normativi) ed ideologica (in termini positivi), se non si radica su un’analisi più attenta delle ragioni profonde della loro stessa ingiustizia.
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