di Salvatore Martinez
ROMA, giovedì, 5 aprile 2012 (ZENIT.org) – La croce non deve essere presentata ai credenti e ai non credenti solo nel suo aspetto di sofferenza o anche di via per la quale seguire il Cristo, ma anche nel suo aspetto glorioso, come motivo di vanto e non di pianto.
La storia del Cristianesimo, in special modo attraverso la storia dell’arte, racconta di due modi fondamentali di raffigurare la croce e Gesù crocifisso. Uno cosiddetto antico e uno moderno. Tutti e due insieme mettono in luce il mistero della Croce.
Il modo moderno ha privilegiato il racconto drammatico, straziante della croce, nella sua cruda realtà, nel momento in cui il Cristo è all’apice della sua passione. La croce è così simbolo del male, della sofferenza, della morte ed evidenzia le sue “cause”, cioè l’odio, la cattiveria, l’ingiustizia.
Invece, il modo antico della croce metteva in luce non le cause, ma gli effetti, ciò che essa produce: riconciliazione, pace, gloria, vita eterna.
Noi vogliamo guardare alla glorificazione di Gesù sulla croce, riscoprire la croce gloriosa nell’ora in cui il Figlio è glorificato.
Gesù non fece mai mistero che la sua missione terrena avrebbe avuto un tragico epilogo, un termine ultimo nel gesto cruento e infame della croce: «Gesù cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risuscitare il terzo giorno» (Mt 16, 21).
L’«ora» della glorificazione di Gesù è anche la nostra.
All’appuntamento con Gesù nessuno dei suoi discepoli deve poter mancare. È l’ora della salvezza! L’ora della morte gloriosa di Gesù sulla croce diviene l’ora della nostra salvezza.
Lo ricorda san Paolo: «La nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti» (Rm 13, 11).
Nel nostro tempo, come in ogni secolo, molti continuano a rifiutare la salvezza di Gesù perché non accettano la sofferenza.
Non si può meritare la salvezza senza sofferenza, senza rimanere uniti a Gesù nelle prove che ci affliggono.
Solo così la luce, Cristo, redime i nostri mali e «trasforma davanti a noi le tenebre in luce» (Is 42, 16).
Dice, infatti, il Signore: «Al tempo della misericordia ti ho ascoltato, nel giorno della salvezza ti ho aiutato» (Is 49, 8a).
Chi si adagia sulla croce di Gesù si unisce alla sua sofferenza. Non è un disgraziato, un maledetto, un rinnegato come vorrebbe il mondo. È, piuttosto, un salvato!
La croce non è il segno che Dio rinnega i suoi figli. La croce non è la diminuzione del suo amore. La croce non è privazione della promessa di Gesù di una gioia piena sulla terra.
La croce ci fa vedere chiaramente “chi” siamo e “cosa” possiamo diventare, se lasciamo morire in noi tutto ciò che non glorifica il Padre.
Chi non sa stare dinanzi alla propria croce non potrà neanche portarla, perché nessun cristiano può definirsi tale e pensare di non «portare la propria croce e seguirlo» (cf Mt 16, 24).
Ma chi non sa stare ai piedi della croce dei fratelli, non è neanche degno di Gesù. «Camminate nella carità, nel modo che anche Cristo vi ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5, 2).
Non può essere eliminata, la croce; può essere glorificata, perché ci procura, in Gesù, la nostra glorificazione. Anche noi, come Gesù, in Gesù, siamo chiamati ad essere “gloria di Dio”.
Lo attesta san Paolo nel prologo della Lettera agli Efesini: «In lui siamo stati fatti […] a essere lode della sua gloria» (Ef 1, 11-12).
Gesù, proprio prima della sua morte e risurrezione, così si rivolse al Padre: «Padre, voglio che quelli che mi hai dato contemplino la mia gloria» (Gv 17, 24).
È questo uno degli ultimi desideri di Gesù, prima del suo appuntamento con la croce.
Non c’è desiderio più vivo in Dio: «Che tutti gli uomini giungano alla conoscenza della salvezza» (cf 1 Tm 2, 4).
Per ogni approfondimento si consiglia la lettura del libro di Salvatore Martinez : “Ridire la Fede ridare la speranza, rifare la carità” Edizioni RnS 2011