di Salvatore Martinez
ROMA, lunedì, 2 aprile 2012 (ZENIT.org).- La nostra esistenza umana include, sempre, una duplice condizione: la conoscenza del patire e, al contempo, un inesauribile anelito di felicità. La Scrittura definisce Gesù «l’uomo dei dolori che ben conosce il patire» (Is 53,3).
È dal soffrire di Cristo che deriva l’arte della compassione cristiana, una meravigliosa scuola di umanità che ha impegnato i cristiani di ogni tempo, senza la quale l’accanimento del male renderebbe insopportabile la vita, condannando l’uomo a una mortale solitudine.
Niente più che la sofferenza appartiene al mistero dell’uomo, perché la sofferenza è la via che più di altre “svela pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” (Gaudium et spes, n. 22).
Scriveva G. Bernanos in La gioia: “Chi cerca la verità dell’uomo deve farsi padrone del suo dolore”.
Impresa assai difficile, perché alla scuola della sofferenza l’uomo è e sempre rimarrà un apprendista. Eppure nessuno conosce veramente se stesso, né saprà mai, fino in fondo, farsi prossimo, finché non ha sofferto.
Niente, più del dolore, umanizza e sviluppa le facoltà dello spirito, risveglia l’uomo dal sonno spirituale in cui spesso si confina.
Per questo, già nell’antichità greca, si diceva: «Pathémata – mathémata», cioè: “I dolori sono insegnamenti” (in Epitimio alla favola di Esopo Il cane e il cuoco).
E ancora: “La saggezza si conquista attraverso la sofferenza” (Eschilo, nella tragedia Agamennone).
È errato pensare che la malattia sia solo espressione dell’imperfezione dell’uomo; essa è, invece, la sua migliore forma di perfezionamento.
Nella sofferenza l’esistere e il resistere dell’uomo
C’è, poi, una permanente memoria del vivere nel dolore che soffriamo o a cui assistiamo. Una memoria che è fatta di storie, di sogni infranti, di ricordi collettivi, di piaceri, di paure, di persone care, di miserie, di immagini, di incontri. Nella sofferenza c’è tutta la grammatica dell’ars vivendi, quella drammatica e attraente liturgia di cui ogni uomo è, in fondo, al contempo, sacerdote, altare e offerta.
È un luogo sacro la sofferenza; di quelli che bisognerebbe calpestare a piedi scalzi, con timore e stupore. Un luogo sacro che, finanche separato da noi, a tutti chiede ospitalità, dinanzi al quale nessuno può dirsi inospitale.
La sofferenza denota il nostro senso di attaccamento alla vita, il bisogno dell’altro, l’insopprimibile anelito di felicità che è nell’uomo ed è già anticipo di eternità.
Certo, nessuno, vedendo una malattia la preferisce o la desidera; ma non per questo può ignorarla, giudicarla o rigettarla come una maledizione da cui tenersi lontano.
Chi elude la propria responsabilità dinanzi al male, proprio o altrui, è il vero inguaribile malato.
La malattia è il volto contratto della faccia del mondo. Come le rughe, che avanzano con gli anni e alterano la fisionomia di un volto, così la faccia del mondo è continuamente sfregiata dalle trame del male che si muove nella storia.
Parafrasando un’espressione di André Frossard, che è anche il titolo di un suo celebre libro, dopo la conversione al Cristianesimo – Dio esiste, io l’ho incontrato – noi vogliamo affermare: «Il male esiste, noi lo incontriamo ogni giorno».
Scandalo è il male, ma ancora più scandalosa è una vita incurante dei mali che portano l’uomo, l’umanità a soffrire senza speranza, a soffrire nella sola prospettiva della morte.
Per ogni approfondimento si consiglia la lettura del libro di Salvatore Martinez: Ridire la Fede ridare la speranza, rifare la carità, Edizioni RnS 2011