di Salvatore Martinez
ROMA, giovedì, 22 marzo 2012 (ZENIT.org) – Per comprendere la preziosità del dono dello Spirito la fede cristiana deve avere la sua sorgente nella Croce. Questa è la base di una vera, sana, autentica antropologia cristiana.
Sulla Croce c’è la massima gloria del Cristo, non la sua infamia o il suo fallimento vergognoso. Se entriamo, mediante lo Spirito, nel mistero del suo arrendersi fino alla morte per amore nostro, ci sentiremo meno abbandonati quando non troveremo giustificazioni alle nostre sofferenze, quando il dolore della Croce sembrerà diventare insopportabile.
Il martirio del cuore
Si può partecipare al sacrificio di Cristo, come insegnano i Padri della Chiesa, aut effectu, aut affectu, cioè di fatto o con il cuore. Nel Novecento oltre quaranta milioni di cristiani hanno conosciuto effettivamente (effectu) il martirio, sacrificando le loro vite per rimanere fedeli a Gesù (1). A noi, forse, non è chiesta la stessa prova estrema di oblazione, ma l’offerta del nostro cuore (affectu) – cioè il martirio del cuore – certamente sì.
Il martirio del cuore è la capacità, concessaci dallo Spirito santo, di far morire dentro di noi ogni soprassalto della vita vecchia fatta di ribellioni a Dio e di infedeltà.
Del resto la Scrittura ci ricorda che il primo combattimento spirituale non è «fuori di noi» (Gv 17,12-19; 1Gv 2,15-17), «sopra di noi» (Ef 6,10-12), bensì «dentro di noi» (Mc 7,14-23).
Solo chi vive costantemente la guerra del cuore potrà sentire quei “delicati profumi” – così i mistici sono soliti definirli – che come incenso salgono a Dio da una vita purificata dallo Spirito.
I Padri del deserto non mancavano di suggerire con insistenza questo prezioso martirio interiore, fonte di vigilanza e causa di discernimento. Ascoltiamo la voce di Sant’Antonio abate:
“Chi si ritira nel deserto per custodire la quiete con Dio è liberato da tre guerre: quella dell’udire, quella del parlare e quella del vedere. Gliene rimane una sola: quella del cuore” (2).
Gesù un giorno definì il suo cuore «mite e umile» (Mt 11,29). La mitezza e l’umiltà sono le due “fornaci dello Spirito”, che inceneriscono nel nostro cuore tutto ciò che lo corrompe.
Nel linguaggio biblico, il cuore è la persona stessa. Gesù ha dato la massima prova di coerenza, di fedeltà, di autenticità salendo personalmente sulla Croce.
Il mite e l’umile di cuore è colui che non cede al male, che rifiuta la violenza, le maniere forti, la maldicenza per farsi giustizia.
È “l’arrendevole volontario”, cioè colui che per amore accetta l’ingiustizia, pur avendo forza sufficiente per contrastare ogni sorta di nemico.
Gesù è mite e umile di cuore consegnandosi agli uomini non per paura o per convenienza, ma perché ama e sa che solo «amando sino alla fine quelli che erano nel mondo» (cfr. Gv 13,1) avrebbe sfamato (con il suo corpo) e dissetato (con il suo Sangue) il bisogno d’amore degli uomini.
Gesù non ha detto imparate da me “che sono forte e invincibile nel fare miracoli”: egli è il servo dell’amore del Padre, che disarma, per sempre – con la sua morte disarmante – la mano degli uomini. Chi ama non s’impone!
Sant’Agostino afferma che «essere mite significa saper vivere libero dalle inquietudini comuni agli uomini che si lasciano turbare dai mali di questo mondo» (3).
La seconda inquietudine è quella causata dalla paura di fronte ai disagi spirituali propri della vita di ogni giorno. La mitezza è un frutto della presenza dello Spirito in noi senza il quale l’insorgere dei mali della vita passata diviene insopportabile.
Dalla via crucis alla via lucis
San Giovanni Maria Vianney ben ci aiuta ad accettare il significato di questo martirio del cuore.
“La Croce è il libro più sapiente che si possa leggere. Coloro che non conoscono questo libro sono ignoranti, anche se conoscono tutti gli altri libri. Quanto più si è alla sua scuola, tanto più si vuole rimanervi. La paura della Croce è la nostra grande Croce; tutto va bene se portiamo bene la nostra Croce: fuggire la Croce è volerne essere oppresso; accettarla è non sentirne l’amarezza. Chi ama Dio è felice di poter soffrire per amore di colui che ha accettato di soffrire per noi” (4).
Mai dimenticare che la via dello Spirito, per l’uomo, è inequivocabilmente segnata dalla Croce: è una via Crucis. Con la risurrezione di Cristo, i cristiani comprendono e credono che solo la Croce può significare la salvezza dell’uomo.
“Nulla vive senza morire” affermava il mistico Angelo Silesio (5). Alla luce della risurrezione di Gesù, il «prendere ogni giorno la Croce» (cfr. Lc 9,23) è già l’alba del nostro mattino di Pasqua. Noi uomini non siamo in grado di far luce sull’abisso della sofferenza umana e della Croce: la fede, sì, può farlo.
Dopo la risurrezione del Cristo crocifisso ogni patimento umano può essere condotto alla salvezza; ogni dolore può riposare sicuro nelle mani di Dio; ogni croce per quanto terribile è solo “una scheggia” della Croce del Cristo.
Se l’uomo resta impenetrabile alla luce pasquale, sprofonda nella solitudine con il proprio dolore: nessuna parola, nessun conforto umano, nessuna medicina potranno salvarlo da questo abisso.
Solo la fede in Gesù ci dà la grazia di vedere come ogni giorno la via crucis si fa via lucis, cioè la via lungo la quale lo Spirito di Dio ci fa camminare, assicurandoci pace e gioia, i doni che nessun tormento potrà mai spegnere, perché divini.
Note
1) Si deve a Giovanni Paolo II, in vista del Giubileo del 2000, il recupero della memoria dei cristiani martirizzati nel XX secolo. Sull’argomento: Andrea Riccardi (storico del cristianesimo moderno e iniziatore della Comunità di S. Egidio), Il secolo del Martirio. I cristiani nel Novecento, Ed. Mondatori, Milano 2000; Antonio Socci (giornalista e scrittore apologetico), I nuovi perseguitati. Indagine sulla intolleranza anticristiana nel nuovo secolo del martirio, Ed. Piemme, Casale Monferrato 2002.
2) In Lettera, 10. Detto anche “il Grande”, nato in Egitto, visse oltre cento anni (+356). Paragonato agli apostoli per la fama che lo circondava, è considerato il principale padre del deserto della storia, l’iniziatore del monachesimo eremitico.
3) In Esposizione sui Salmi, 90,1.
4) In Gérard Rossé (a cura), Scritti scelti, Ed. Città Nuova, Roma 1988, pag. 79. Più noto come il Curato d’Ars (+ 1859), patrono dei preti del mondo cattolico, fulgido esempio di preghiera e di carità nella vita sacerdotale.
5) In Il Pellegrino cherubino I, 33. Vissuto nel XVII sec. Johannes Scheffler prese il nome di Angelo della Slesia a 29 anni, convertendosi dal luteranesimo al cattolicesimo. Scrisse brevi componimenti poetici di genere aforismatico.
[Per ogni approfondimento vedere il libro di Salvatore Martinez C’è una speranza che non delude. il tempo dello Spirito, Ed. Rinnovamento nello Spirito]