di Robert Cheaib
ROMA, Sabato 16 marzo 2012 (ZENIT.org).- «Perché in Chiesa di giovani se ne vedono sempre meno e spariscono anno dopo anno i gruppi parrocchiali giovanili? Perché i ragazzi si dileguano dagli oratori appena diventano giovani?» Già queste domande iniziali rivelano il timbro e l’indubbio interesse del libro di Armando Matteo, La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede, edito da Rubbettino. L’autore, in una lettura acuta e con uno stile incantevole, guarda il disincanto della gioventù che perde con una velocità vertiginosa il contatto con il grande codice di senso della Bibbia e del cristianesimo.
L’autore denuncia l’atteggiamento contraddittorio della nostra società che parla di continuo dei giovani e dei loro problemi continuando però ad accumulare privilegi nelle mani degli adulti «persi nei loro riti e nei loro miti, ben saldi ai loro posti di potere, incapaci ormai non solo di prendersi cura del mondo giovanile ma più semplicemente di guardarlo in faccia». Questa sordità, alla quale la Chiesa non è immune, genera nella gioventù una corrispondente sordità, una situazione di «assenza di antenne» per ciò che la Chiesa è e compie. L’incomprensione e l’emarginazione consegna i giovani – secondo Galimberti – al temibile «ospite inquietante» del nichilismo.
Nel primo capitolo l’autore dipinge con attenzione ed equilibrio il profilo della prima generazione incredula la quale non si pone contro la Chiesa o la fede, ma – con puerile disinteresse, per usare un’immagine nietzscheana – si disinteressa altamente ed egregiamente di quanto la Chiesa possa offrire. È una generazione che va al di là dell’antiteismo o l’anticlericalismo per accomodarsi in uno spazio senza Dio (ateo nel senso strettamente etimologico del termine) arredato dal una coscienza accuratamente e pacificamente secolarizzata.
L’apatia e l’analfabetismo religioso delle giovani generazioni si deve a vari motivi tra cui «l’anello mancante» della trasmissione della fede in famiglia. Il deficit domestico della comunicazione della fede non può più essere colmato dalla società postmoderna che ha assunto nuovi codici di lettura dell’esistenza umana lontani – e ostili – alla lettura credente. Matteo analizza questi nuovi codici passando al vaglio «momenti» significativi di mutamento della percezione sociale e dell’autopercezione antropologica, come Darwin, Marx, Freud, Henry Ford, Picasso, Kafka, i totalitarismi, Auschwitz, il ’68, il crollo del muro di Berlino…
Il secondo capitolo dedica l’attenzione a una lettura autocritica della realtà ecclesiale, specie quella italiana. L’autore denuncia la scarsa recezione nell’ambito parrocchiale dell’interesse «macro» della Chiesa verso i giovani. Le giornate mondiali della gioventù, le agorà dei giovani e i documenti episcopali dedicati ai giovani trovano scarso seguito nelle micro-realtà delle parrocchie. Le chiese si presentano più come «un luogo specializzato per il mondo dell’infanzia», ma poco attrezzato per camminare assieme ai ragazzi quando diventano giovani. Il sacramentalismo assoluto della proposta di fede fa un doppio torto: sfigura, da un lato, l’immagine della Chiesa riducendola a una sorta di «stazione di servizio dello spirito» alla quale si ricorre per avere il sacro a facile-prezzo; dall’altro lato, rende la realtà ecclesiale insignificante al di fuori del periodo delle vaccinazioni sacramentali.
Dopo l’analisi della situazione ecclesiale e la diagnosi dell’affinità/avversione tra giovani e chiesa, Matteo si dedica ad analizzare il conflittuale rapporto tra giovani e adulti. Un rapporto segnato da paradossali tentativi di osmosi, dove la generazione adulta vuole accaparrarsi l’elisir della giovinezza e realizzare il sogno del forever young, ma allo stesso tempo nutre una serpeggiante invidia verso le giovani generazioni. Un’invidia che si concretizza nell’ostinato tentativo di tenere i giovani in uno stato di «minorità», minando continuamente le loro possibilità di inserimento e realizzazione sociale e politica.
Dato che il rapporto intergenerazionale è la cartina di tornasole della salute di una collettività, diventa urgente e inderogabile l’impegno per instaurare una rinnovata alleanza tra giovani e adulti. In questo contesto, l’autore invita questi ultimi a una coraggiosa conversione, quella di «smettere di fissare come Narciso la nostra bellezza di plastica per scorgere il volto ferito dei nostri giovani, lasciandoci afferrare da un sussulto di amore per essi».
Il quarto capitolo del libro del teologo calabrese costituisce la proposta operativa e stilistica per affrontare l’emergenza «giovani». L’autore prende spunto dalla «duplice giovinezza della fede cristiana». La fede cristiana è relativamente una fede giovane sulla scena mondiale; d’altro canto, essa è un’esperienza giovane, in quanto ha saputo sempre declinarsi come lievito in varie forme di presenza storica. Matteo è convinto che la prima generazione incredula ha qualcosa da comunicare e da insegnare alla comunità credente. D’altronde, nel confronto con le varie urgenze, la Chiesa è uscita sempre più sensibile e più saggia.
All’attuale generazione di giovani, la Chiesa è chiamata a imparare nuovi modi per iniziare alla compagnia di Gesù. Essa deve fissare e insegnare a guardare il volto di quel Gesù «che non sbaglia mai colpo nello stigmatizzare ciò che appesantisce e abbruttisce l’esperienza umana e nell’indicare ciò che invece la alleggerisce e la destina alla sua originaria bellezza».
L’appello è quello di riscoprire e far scoprire ai giovani in modo rinnovato «la grammatica delle fede» che si declina come un genitivo dell’amore di Dio (l’amore con cui Dio ci ama, e che è nostra risposta in secondo luogo) e del prossimo; la fede che è una scuola di libertà, proprio quella libertà che i giovani postmoderni, colpiti da una «generale fragilità nell’esecuzione» non riescono ad esercitare appieno.
La proposta dell’autore, in sintesi, è quella di una riscoperta dell’essenziale e della gerarchia delle priorità del messaggio cristiano, una riscoperta suggerita dalla simpatica immagine del «mettersi a dieta» per una stagione: la stagione attuale che si presenta comunque come un tempo propizio, un kairos, per annunciare il Vangelo. L’attuale kairos invita i cristiani a un cambio di vedute, al passaggio da un modello cronologico scandito dai riti a un modello kairologico costellato da iniziative personalizzate (e personalizzabili), affinché ogni persona – ogni giovane – possa sentirsi familiare e contemporaneo del volto di Dio.
In conclusione, il libro di don Armando Matteo è un affresco realista che si fa proposta e prospettiva non nell’ingenuità utopistica ma attingendo all’immanente genio del cristianesimo, sempre da riscoprire. L’opera è impreziosita da un accostamento multidisciplinare che evita le letture facili e spicciole. Il prospettivismo giostrato con maestria dall’autore permette ai lettori di percepire la complessità e la polivalenza del quadro che accomuna i giovani e la fede. Matteo, infatti, è assistente nazionale della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) e la sua esperienza lo mette in una situazione privilegiata per guardare il panorama giovanile con le sue gioie e speranze, tristezze e angosce. Il suo libro è un intelligente vademecum per imparare a raccogliere e interpretare il grido di speranza dei giovani.
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