di Ermanno Pavesi
Segretario Generale della Fédération Internationale Associations de Médecins Catholiques (FIAMC)
ROMA, martedì, 13 marzo 2012 (ZENIT.org) – Aborto post-natale: perché un bambino dovrebbe vivere? è il titolo dell’articolo di due ricercatori italiani, Alberto Giubilini e Francesca Minerva, pubblicato anticipatamente online il 23 febbraio 2012 dalla rivista Journal of Medical Ethics (1).
Gli Autori rilevano che condizioni che consentono in determinati casi un’interruzione di gravidanza a volte compaiono solo dopo il parto, e sostengono che “quando dopo la nascita si verificano le stesse circostanze che giustificano l’aborto prima della nascita, dovrebbe essere consentito quello che noi chiamiamo aborto post-natale”. E proprio perché si tratterebbe in un certo qual modo del prolungamento dell’indicazione per l’aborto ben oltre la nascita, gli Autori parlano di aborto post-natale piuttosto che non di infanticidio, anche se ammettono che si tratta di un uso improprio del termine. Gli Autori non vedono ragioni di carattere etico per non estendere l’indicazione per l’aborto anche al neonato o all’infante, anzi ritengono di poter formulare argomenti razionali a favore del diritto all’infanticidio.
Prima di tutto, il solo fatto di essere un uomo non sarebbe di per sé una ragione sufficiente per godere del diritto alla vita. Il caso degli embrioni soprannumerari là dove è consentita la ricerca sulle cellule staminali, quello degli embrioni là dove l’aborto è legalizzato e quello di criminali là dove la pena capitale è legale mostrano che vi sono dei precedenti di legalizzazione dell’eliminazione di un essere umano. È sorprendente che il diritto all’infanticidio venga giustificato eticamente riferendosi a pratiche, che, anche se sono legali in alcuni paesi, non sono indiscusse dal punto di vista etico. Stupisce in modo particolare che gli Autori, ambedue membri del comitato direttivo di un’associazione italiana di bioetica, la Consulta di Bioetica, considerino la pratica della pena di morte come un argomento razionale per giustificare eticamente anche l’uccisione di innocenti!
Nel testo si possono riconoscere due tipi di “aborto post-natale”. Un tipo riguarda infermità del neonato che, se diagnosticate in gravidanza, ne avrebbero consentito l’interruzione. Questo tipo di “aborto post-natale” dovrebbe riguardare soprattutto neonati.
Ma viene ipotizzato pure un “aborto post-natale” che potrebbe avvenire anche in età molto più avanzata. Il diritto alla vita, infatti, dovrebbe essere riconosciuto solo a “persone”, e l’essere umano diventerebbe persona solo a un certo grado del proprio sviluppo, cioè dopo aver acquisito la capacità di attribuire alla propria esistenza qualche valore fondamentale. Fino a tale momento sarebbe solo potenzialmente una persona, e, non avendo ancora un progetto di vita, non subirebbe danno dall’essere privato della propria esistenza: “Nonostante sia difficile determinare esattamente quando un soggetto inizia o cessa di essere una “persona”, la condizione necessaria perché un soggetto abbia il diritto a X è che sia danneggiato dalla decisione di privarlo di X”. Gli Autori fanno un esempio molto chiaro: “Se tu chiedessi a uno di noi se saremmo stati danneggiati nel caso i nostri genitori avessero deciso di ucciderci quando eravamo feti o neonati, la nostra risposta sarebbe ‘no’, perché avrebbero danneggiato qualcuno che non esiste (quel‘noi’ cui hai posto la domanda), cioè nessuno. E se nessuno è stato danneggiato, allora non vi è stato danno”. L’infante non avrebbe diritto alla vita, in questo né più né meno dell’embrione o del feto, la sua capacità di soffrire e di provare piacere comporterebbe però il diritto a non soffrire, dal che di potrebbe arguire il solo diritto a una morte indolore.
Il neonato non ha ancora un progetto per la propria vita, ma può rappresentare una minaccia per i progetti dei genitori, di fratelli e sorelle, e in generale della società. Motivi sociali ed economici sarebbero di per sé sufficienti per un “aborto post-natale” anche di un bambino perfettamente sano.
Gli Autori pongono delle riserve nei confronti dell’adozione, anche se ammettono che ogni caso dovrebbe essere esaminato individualmente. In caso di adozione la madre potrebbe avere ripensamenti, prendere in considerazione la possibilità del ricongiungimento, e quindi essere tormentata dal dilemma se accettare la decisione presa o intraprendere dei passi per riavere il bambino. L’infanticidio, invece, è irreversibile e il lutto conseguente potrebbe essere più sopportabile dei conflitti interiori in caso d’adozione.
Gli Autori non pretendono di stabilire con precisione a quale età il bambino diventerebbe persona, poiché ciò dipenderebbe dal livello di sviluppo mentale raggiunto, e sarebbero quindi neurologi e psicologi a doverlo stabilire. Si tratterebbe comunque di un’età piuttosto avanzata, che va ben oltre la fase neonatale.
Ai genitori dovrebbe essere riconosciuto il diritto all’uccisione del neonato e addirittura del bambino, nei casi in cui il neurologo o lo psicologo ritengano che non abbia ancora raggiunto uno sviluppo tale da considerarlo persona. Questo significa che la vita di un essere umano, che fa parte a pieno titolo del consorzio umano, che, per esempio, è registrato e considerato come un cittadino dal suo comune di residenza, e quindi dalla società civile, dovrebbe essere in balia della volontà dei genitori e del giudizio di neurologi e psicologi che lo giudicano sulla base di definizioni di persona più o meno arbitrarie.
Al proposito è necessario ricordare il preambolo del Patto internazionale sui diritti civili e politici dell’ONU: «Gli Stati parti del presente Patto, considerato che, in conformità ai principi enunciati nello Statuto delle Nazioni Unite, il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali e inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo» (2).
Alla fine della seconda guerra mondiale e dopo i crimini del nazionalsocialismo, compiuti anche applicando leggi dello stato, sembrava necessario difendere ciascun uomo da possibili prevaricazioni formulando alcuni principi fondamentali. Viene riconosciuto che ciascun individuo umano possiede una propria dignità ed è portatore di diritti in quanto essere umano e membro della famiglia umana. Dignità e diritti non gli vengono concessi da chicchessia e, per questo, dignità e diritti sono inalienabili.
Tesi come quelle esposte da Giubilini e Minerva stravolgono i principi del Patto internazionale sui diritti civili e politici dell’ONU: sostituiscono all’inalienabilità dei diritti la discrezionalità di genitori, di familiari, della società e di tecnici.
Sconcerta poi il fatto che la concezione dell’uomo come persona, che dovrebbe servire a sottolinearne la dignità indipendentemente da condizioni di sorta, venga al contrario utilizzata per discriminare esseri umani e per privarli dei diritti fondamentali.
Su un punto si può concordare con gli Autori: i limiti temporali posti all’interruzione di gravidanza sono arbitrari, non esiste, infatti, un salto qualitativo nello stato ontologico dell’individuo umano dopo il suo concepimento. Ci si può augurare che la riflessione su questo punto possa aiutare a riconsiderare la questione dell’aborto, facendolo apparire come un pre-infanticidio.
Gli Autori dell’articolo hanno ricevuto minacce di morte. Pur non condividendone le tesi si deve manifestare la propria solidarietà per tali minacce. È intollerabile che qualcuno pretenda di ergersi a difensore della vita, minacciando altri di morte.
1) Alberto Giubilini, Francesca Minerva, After-birth
abortion: why should the baby live?, J Med Ethics (2012).