di Luca Marcolivio
ROMA, sabato, 10 marzo 2012 (ZENIT.org) – Un nuovo contributo di approfondimenti e di studi sul tema delle radici cristiane dell’Europa è stato fornito dal convegno Chiesa ed Europa dall’età tardo antica all’epoca contemporanea, tenutosi all’Università Europea di Roma, lo scorso 29 febbraio.
L’evento si è tenuto nell’ambito della Settimana della Storia, ciclo di convegni promosso dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e dalla Pastorale Universitaria di Roma, e ospitato a turno dalle Università La Sapienza, Tor Vergata, Gregoriana, LUMSSA ed Europea, dal 27 febbraio all’8 marzo scorso.
Nel corso della tavola rotonda alla UER sono emersi aspetti relativamente poco noti, come quello dell’integrazione tra i popoli nell’età tardo-antica e proto-cristiana. Come spiegato dal prof. Umberto Roberto, docente di Storia Romana alla UER, grazie alla conversione al cristianesimo, le culture locali e periferiche dell’Impero Romano “trovano sovente la possibilità di esprimere la propria identità”.
Durante l’epoca che va dal IV al VI secolo, infatti, i vescovi svolsero “un fondamentale ruolo di mediazione tra culture che, in un’epoca di contrapposizione spesso violenta, rappresenta un importante tentativo di favorire processi di integrazione tra popolazioni diverse”.
Se da un lato la vecchia struttura politica legata all’Impero era in totale disfacimento, la Chiesa darà il suo contributo a cementare “un nuovo assetto politico e culturale”, temperando anche “i contrasti tra popolazioni delle antiche province romane e popolazioni barbariche”, ha aggiunto il prof. Roberto.
La relazione del prof. Marko Troglic, preside della facoltà di filosofia all’Università di Spalato, ha avuto ad oggetto la Chiesa nell’Europa centro-orientale, dal Congresso di Vienna (1814-15) al Congresso di Varsavia (1955).
La tesi di fondo del prof. Troglic è che in tutto il periodo storico analizzato, abbondano gli esempi di pastori e fedeli eroici che, in particolare durante le dittature comuniste, hanno lottato in difesa della cristianità e dell’identità profonda dei loro popoli.
Il ruolo della Santa Sede nelle varie fasi dell’integrazione europea, è stato invece oggetto della relazione del prof. Massimiliano Valente, docente di storia contemporanea alla UER.
Durante il pontificato di Pio XII la linea è quella che si può definire “di osservazione e di accompagnamento”, circa la nascita, il consolidamento e lo sviluppo delle istituzioni comunitarie.
Negli anni successivi, con Giovanni XXIII e, soprattutto, con Paolo VI, osserviamo una “svolta presenzialista”, seguita da una particolare attenzione al fenomeno comunitario con Giovanni Paolo II.
L’attuale pontificato di Benedetto XVI si caratterizza per un “dialogo più diretto e partecipativo”, avviato nel 2006 con lo stabilimento di una Delegazione della Commissione Europea presso la Santa Sede, e culminato con previsione nell’art. 17 del Trattato di Lisbona, della partecipazione della Chiesa a “decisioni dove sono in gioco specifici interessi che toccano interessi religiosi dei cittadini comunitari”.
Un tema controverso e assai dibattuto è relativo alla condotta del Vaticano negli anni della guerra fredda. Ne ha parlato il prof. Matteo Luigi Napolitano, docente di Storia delle Relazioni Internazionali all’ Università “Guglielmo Marconi” di Roma, evidenziando varie fasi distinte, identificabili, in linea di massima, con ciascun pontificato.
Sotto Pio XII, si assiste all’inasprimento del conflitto ideologico dei due blocchi: alla nascita della NATO e del Patto di Varsavia, corrisponderà un simmetrico bipolarismo in campo economico con la nascita, al di qua della cortina di ferro, della Comunità Economica Europea.
Giovanni XXIII, regnando negli anni di punta del conflitto (elevazione del Muro di Berlino, crisi del missili cubani), “crede che parlarsi da posizioni differenti sia possibile ma teme i comunisti non meno del suo predecessore”.
Ostpolitik è la parola chiave del pontificato di Paolo VI, improntato al difficile cammino di un dialogo pieno di ostacoli e di “fiammate nel confronto bilaterale”. Dall’altro lato, eventi tragici come la guerra dei Sei Giorni, metteranno in moto “una profonda e sofferta riflessione su Gerusalemme e i Luoghi Santi”.
Parla da sola, infine, l’esperienza del beato Giovanni Paolo II: la fine della guerra fredda, il crollo del muro di Berlino e la fine dell’Unione Sovietica, secondo il prof. Napolitano, hanno “le loro chiavi di lettura in due locuzioni altamente evocative: il «non abbiate paura» e Solidarność”.
C’è poi l’aspetto della diplomazia pontificia nei confronti degli stati europei, la cui storia ha conosciuto notevoli alti e bassi, raggiungendo il massimo livello di “gelo”, durante la persecuzione napoleonica, come ha evidenziato nella sua relazione il prof. Johan Ickx, responsabile dell’Archivio Storico della Segreteria di Stato e docente di Archivistica alla UER.
Altri momenti di rottura delle attività diplomatiche, ha sottolineato il prof. Ickx, sono coincisi con l’Unità d’Italia e il Kulturkampf del II Reich.
Rimanendo in tema di integrazione europea, monsignor Bernard Ardura, Presidente del Pontificio Comitato di Scienze Storiche, ha tratteggiato la figura di Robert Schuman, uno dei padri fondatori dell’Unione Europea, con Adenauer e De Gasperi.
Alsaziano, quindi cresciuto in ambito geografico-culturale “di frontiera”, Schuman è, in qualche modo, il simbolo della riconciliazione tra Francia e Germania che, di fatto porterà ai Trattati di Roma del 1957.
A lungo parlamentare e ministro – per un breve periodo, nel 1947, anche primo ministro – Schuman, fu però, soprattutto un modello di cattolico impegnato in politica, ed è a lui che si deve la Dichiarazione del 9 maggio 1950, che sintetizza la sua “personalità spirituale” e che “giustifica il rimando alle radici cristiane dell’Europa.
Un ultimo spunto di riflessione è stato offerto dall’ambasciatore Yves Gazzo, Capo Delegazione della Commissione Europea presso la Santa Sede (2009-2011), in merito al ruolo delle confessioni religiose, ai sensi dell’art. 17 del Trattato di Lisbona.
La religione, ha spiegato l’ambasciatore Gazzo (assente giustificato al convegno) nella sua relazione, non solo svolge un importante ruolo in ambito diplomatico ma, più specificamente, “ha il potere di portare la pace e la riconciliazione”.
In contrapposizione alla concezione secondo la quale “la modernizzazione porterà la fine delle religioni o la loro marginalizzazione”, l’art. 17 del trattato di Lisbona “prevede un dialogo sulla politica, non sulla religione”, sulla scorta delle sfide attuali, per le quali la religione può apportare contributi fondamentali in ambiti come “i cambiamenti climatici, la lotta al terrorismo, il buon governo e la promozione della democrazia”.