ROMA, venerdì, 9 marzo 2012 (ZENIT.org) – L’Indonesia è un arcipelago di circa 13.000 isole. Etnicamente la sua popolazione è molto varia, con più di 300 tribù differenti. La popolazione è divisa anche tra cacciatori e raccoglitori rurali e l’élite moderna urbana. La religione dominante è l’islam: dei 245 milioni di abitanti più di 200 milioni sono di fede musulmana.
In collaborazione con Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), Mark Riedemann ha intervistato per Where God Weeps (Dove Dio Piange) monsignor Dominikus Saku, vescovo della diocesi indonesiana di Atambua, nella parte occidentale dell’isola di Timor.
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Eccellenza, Lei è nato in un villaggio nel distretto di Tunbaba, non molto lontano dalla diocesi in cui è ora. E’ cresciuto in una famiglia cattolica?
Mons. Saku: Sì, sono cresciuto in una famiglia cattolica. I miei genitori e tutta la mia famiglia sono cattolici; anche mio nonno il cui nome era Agustinus e mia nonna Sophia, ad entrambi sono molto affezionato.
Essendo cresciuto in una famiglia cattolica, quando ha avuto la sua prima esperienza di Dio?
Mons. Saku: Ho avuto la mia prima esperienza di Dio quando ero molto, molto giovane. Normalmente andavamo nelle case delle famiglie cattoliche durante i mesi del Rosario, maggio e ottobre, per pregare e cantare. Ed una volta al mese il sacerdote veniva nel villaggio per celebrare la Messa e ho avuto la fortuna di essere presente in queste occasioni. Mi immaginavo i messaggi anche se non riuscivo a capirli, ma sentivo la loro bellezza e il senso.
Lei è entrato nel Seminario all’età di 17 anni. Chi o che cosa è stato determinante nella sua decisione di diventare sacerdote?
Mons. Saku: I miei insegnanti della scuola elementare ci istruirono riguardo alle vocazioni. Nella scuola media, il parroco mi ha insegnato e guidato nella mia decisione. Ho pregato e riflettuto su questo e infine sono entrato in seminario. Il parroco mi ha incoraggiato a dirlo ai miei genitori e alla famiglia, che forse avrebbero sostenuto la decisione di entrare in seminario. Lo dissi a mio padre e lui rispose che se lo volevo fare mi avrebbe sostenuto.
… E poi, più tardi ha fatto un dono, una promessa?
Mons. Saku: Sì. Quando ho completato i miei studi nel seminario minore, volevo andare al seminario maggiore ma avevamo delle difficoltà finanziarie. Le nostre vacche non erano state vendute ed abbiamo dovuto affrontare alcuni problemi economici. Sono andato con mio padre a casa del vescovo per chiedere aiuto. Abbiamo venduto alcune delle nostre mucche per i miei studi e il vescovo ci ha prestato anche un po’ di denaro, che mio padre ha ripagato. Mio padre, in seguito, mi disse che aveva promesso al vescovo che io sarei stato un bel regalo alla Chiesa e che non sarebbe tornato sulla sua promessa.
Suo padre ha visto la sua ordinazione?
Mons. Saku: No, è morto solo pochi mesi prima della mia ordinazione … ma ha dato suo figlio come dono alla Chiesa.
Qual è il suo motto episcopale e perché ha scelto questo particolare motto?
Mons. Saku: Ho parlato con i miei amici e riflettuto sulla situazione pastorale della diocesi, nel mio cuore e nella mia mente, ho cercato di mantenere la mia preoccupazione per l’unità della Chiesa e come realizzare questo compito. Il motto del mio vescovo precedente era “Maranatha”, che significa “Vieni, Signore”. Ho provato a continuare questo nello spirito di amicizia, unità, amore e provvidenza di Dio e infine mi sono reso conto che un motto appropriato era in linea con discepolato e ho scelto il motto: “Voi siete miei amici” – “Amici mei estis”.
Ho qui un comunicato dalla Banca Mondiale, in cui si afferma che oltre 100 milioni di indonesiani sopravvivono con meno di 2 dollari al giorno e che questa povertà diffusa sta mettendo a rischio l’istruzione dei bambini. Cosa ci può raccontare sulla sfida della povertà sull’isola di Timor e come sta lavorando la Chiesa in questa situazione?
Mons. Saku: Il governo di Jakarta cerca di aiutare la popolazione, erogando sussidi soprattutto nel campo dell’istruzione. La Chiesa cattolica gestisce molte scuole elementari, licei ed università. Ci mancano le risorse economiche, ma cerchiamo di fornire un’istruzione di qualità. Funziona, ma affrontiamo alcuni problemi. Quando si ricevono sovvenzioni statali, si rischia l’indipendenza nella gestione delle nostre scuole. Siamo a rischio quindi, di perdere la nostra fede.
Perché ci sarebbe un rischio per la fede?
Mons. Saku: Gli insegnanti sono pagati dal governo e il problema è: sono qualificati per instillare i principi cristiani negli studenti? Questa è una grande preoccupazione per noi.
Non sono cristiani?
Mons. Saku: Lo sono, ma come Lei sa l’influenza dell’economia può alterare i principi.
L’Indonesia è per l’88% musulmana, la sua diocesi è per il 95% cattolica, una diocesi cattolica molto forte. Come si spiega?
Mons. Saku: Nel 1913 Timor fu divisa in due parti. La parte occidentale era sotto gli olandesi che erano prevalentemente protestanti. La parte orientale, dal Centro Nord all’Est era sotto i portoghesi, che erano cattolici e così noi siamo cattolici.
Circondato, per modo di dire, da una popolazione musulmana molto forte, non sarà facile continuare a mantenere la fede?
Mons. Saku: Fortunatamente, l’influenza musulmana non è molto forte a Timor. Siamo stati sotto gli olandesi e i portoghesi per 350 anni e l’influenza musulmana qui non è così forte come nelle altre parti dell’Indonesia. In senso pastorale, noi come diocesi cerchiamo di gestire un ambiente scolastico, familiare e sociale basato sulla fede.
Eventi internazionali come la guerra in Afghanistan o la notizia di americani che bruciano il Corano hanno avuto un impatto negativo sui cristiani locali?
Mons. Saku: Noi diciamo alla gente di non interpretare questi eventi nell’ottica dei “Cristiani contro i Musulmani”. Quando Israele ha fatto la guerra contro la Palestina, i musulmani lo hanno interpretato così. Noi proviamo ad illuminare il loro modo di pensare e di non farlo interpretare come “Cristiani contro i Musulmani”, ma come una guerra tra due nazioni. Noi, cristiani, non vogliamo fare la guerra contro gli altri e stiamo suggerendo questa azione alla nostra gente, cioè di come fare amicizia con gli altri e vivere in armonia con gli altri, come menzionato nella Bibbia.
I vescovi cattolici stanno cercando di ripristinare e costruire un clima di riconciliazione e di fiducia. Ci spieghi meglio.
Mons. Saku: Il presidente della Conferenza episcopale indonesiana ha scritto una lettera al presidente dell’Indonesia sottolineando la libertà di religione. I vescovi hanno lanciato, quindi, un appello al presidente di mantenere l’unità, perché il pluralismo fa parte della vita in Indonesia.
E’ l’unità nella diversità, il “Pancasila” (i cinque pilastri o precetti, che sono alla base della nascita dell’Indonesia, ndr)?
Mons. Saku: Sì, il “Pancasila”. L’unità di tutti gli elementi dell’Indonesia. Il “Pancasila” è dopo tutto la base fondamentale della Costituzione dell’Indonesia e il motto dell’Indonesia è: “Bhinneka Ika Tunggal” (Unità nella diversità, ndr), che significa: “Siamo multiformi, ma siamo uniti come indonesiani” e questo dovrebbe essere il principio secondo il quale il Paese viene governato.
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Questa intervista è stata condotta da Mark Riedemann per Where God Weeps, un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network, in collaborazione con l’organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che Soffre.
In rete:
Aiuto al
la Chiesa che soffre: www.acn-intl.org
Aiuto alla Chiesa che soffre Italia: www.acs-italia.glauco.it
Where God Wheeps: www.wheregodweeps.org
[Traduzione dall’inglese a cura di Paul De Maeyer]