di Suor M. Caterina Gatti icms
ROMA, giovedì, 8 marzo 2012 (ZENIT.org).- Oggi viviamo in una società dove una certa cultura cerca di staccarsi da Dio, di cancellare tutti quei valori che sono la vita, l’amore, l’impegno, la fedeltà, l’attenzione verso l’altro e che la donna ha sempre trasmesso nella famiglia proprio perché insiti nella sua femminilità.
Si cerca di far credere alla donna che la propria realizzazione sia al di fuori dell’ambito familiare, in altri campi, proponendole tutto ciò come una conquista, una liberazione, una meta di sicura felicità.
Secondo questa ‘visione’ la “vocazione alla famiglia”, l’occuparsi cioè prevalentemente del marito e dei figli, sembra essere ormai cosa d’altri tempi, quasi impensabile e ritenuta addirittura frustrante da moltissime donne.
Eppure la famiglia è la cellula della società, è in essa che nascono e crescono i futuri cittadini e quindi non si può pensare di delegare il compito di far crescere e di educare i figli solo alla scuola, alle istituzioni, alla parrocchia.
Questo è stato sottolineato anche dalla Chiesa: la donna deve essere presente attivamente e anche con fermezza nella famiglia […] perché è qui, innanzitutto, che si plasma il volto di un popolo, è qui che i suoi membri acquisiscono gli insegnamenti fondamentali. Essi imparano ad amare in quanto sono amati gratuitamente, imparano il rispetto di ogni altra persona in quanto sono rispettati, imparano a conoscere il volto di Dio in quanto ne ricevono la prima rivelazione da un padre e da una madre pieni di attenzione (Lettera dei vescovi sulla collaborazione dell’uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo).
L’importanza e il peso dell’attività lavorativa delle donne all’interno del nucleo familiare deve essere riconosciuta e valorizzata. Giovanni Paolo II scriveva che la “fatica” della donna che dà alla luce un figlio e poi lo nutre, lo cura, si occupa della sua crescita ed educazione – e questo in particolar modo nei primi anni di vita – è talmente grande da non temere il confronto con nessun lavoro professionale (cfr. Lettera alle famiglie).
Questo pensiero purtroppo è molto lontano da quello che prevale oggi. Un certo , femminismo ha cercato di rendere la donna sempre più simile all’uomo, mettendola in competizione nelle fabbriche, negli uffici, in politica, nelle istituzioni, “snaturandola” e facendole trascurare i figli.
Ammesso che i figli ci siano, poiché molto spesso la donna di carriera “sceglie” di non avere bambini, che spesso sono considerati come un impedimento a svolgere al meglio il proprio lavoro o come un onere in più. Oppure ad un certo punto, quando ormai la giovinezza ha da tempo lasciato posto ad un’età più matura, si vuole a tutti i costi un figlio. Sì, quel figlio che per tanti anni ha cercato di evitare ora lo vuole a tutti i costi, quasi “a comando”, senza rendersi conto che è invece un grande dono di Dio, da chiedere e da custodire. E da accogliere quando Dio vuole concederlo.
E’ bene che la donna lavori, contribuendo così al sostentamento della famiglia e allo sviluppo della società. La Chiesa apprezza che essa abbia accesso a posti di responsabilità in modo da promuovere il bene comune e trovare soluzioni innovative ai vari problemi socio-economici.
Il male è che l’attività esterna assorba a tal punto il suo tempo e le sue energie, tanto fisiche che psichiche, da renderla quasi incapace di corrispondere pienamente alla vocazione di moglie e di mamma e di assolvere adeguatamente tutti quei compiti ad essa correlati.
Edith Stein, conosciuta anche come Santa Teresa Benedetta della Croce, scriveva che molte donne sono quasi schiacciate sotto il doppio peso della professione e dagli obblighi familiari. Sempre in azione, di fretta, sempre nervose, irritate. Da dove potranno tirar fuori la serenità e l’allegria interiore per poter offrire a tutti il sostegno, l’appoggio, la direzione?
E la conseguenza a tutto ciò sono i piccoli litigi di ogni giorno, le discussioni col marito e i figli che spesso rompono quella tranquillità, pace e armonia che dovrebbero regnare tra le quattro mura domestiche. È un errore pensare che si possano apportare dei miglioramenti alla società senza prima amare, essere attenti e sapersi sacrificare per coloro che vivono accanto a noi. In questo caso la donna non può sentirsi realizzata né felice, pur avendo magari un ottimo impiego di lavoro.
Ecco perché la Chiesa insiste affinché la legislazione e l’organizzazione del lavoro non penalizzino le esigenze connesse alla missione della donna nella famiglia. E questo è un problema non solamente e non tanto giuridico o economico, ma prima di tutto si tratta di un modo di pensare errato, è un problema di cultura.
Occorre infatti valorizzare in modo corretto innanzitutto a livello di mentalità il lavoro svolto dalla donna in famiglia. Se così non è, la donna che dedica in casa il suo tempo sarà sempre penalizzata dal punto di vista economico e considerata in un certo senso inferiore a quella che invece ha un impiego esterno.
E’ necessario quindi un “cambio di pensiero” per favorire quelle donne che desiderano svolgere altri lavori, poiché la legislazione provvederebbe ad agevolarle con orari più accessibili e compatibili, la vita familiare. Verrebbero ridotte le situazioni di stress e favorite le possibilità di svolgere il ruolo primario di moglie e di madre. Ruolo che davvero è insostituibile. Non si può credere di assolvere a questo compito dando ai figli soldi, regali e tutto quello che chiedono, perché arriverà un giorno in cui diranno che per loro non è stato fatto nulla.
Spesso i giovani d’oggi si sentono vuoti, soli, perché, pur avendo “tutto”, manca loro quella certezza di essere amati, la percezione di essere davvero al centro delle attenzioni dei genitori, in particolare della mamma, perchè il posto di una madre non lo può prendere nessuno.
Crescerà maturo e senza complessi quel bambino che ha conosciuto il calore delle braccia della mamma. Nessuno psicologo può sostituire il lavoro del cuore di una mamma che batte su quello del suo bimbo.