Il mistero cristiano segreto di felicità

La storia di Montserrat Grases malata eppur felice

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di Antonio Gaspari

ROMA, sabato, 3 marzo 2012 (ZENIT.org).- Come si fa ad essere felici pur sapendo che un tumore osseo ti toglierà la vita? Come fanno i cristiani a sopportare il male e mantenere la speranza? Come si riesce a dare un senso alla sofferenza e accettare serenamente la malattia?

A queste ed altre domande risponde la storia di Montserrat Grases, una ragazza che seppe sopportare con senso cristiano un grave tumore osseo che la portò a spegnersi all’età di 17 anni, dopo un anno di dolorosa malattia.

Nel libro “Sono così felice” scritto da monsignor Flavio Cappucci ed edito da Ares, si racconta la storia di Montserrat era una ragazza sportiva, molto attiva, sempre impegnata; le sue preferenze andavano dalla pallacanestro, alla sardana – ballo tipico della Catalogna –, al teatro (tutti ricordano la maestria con cui, nel corso dell’ultima estate in vacanza, recitò la parte di una simpatica vecchietta). 

Era nata a Barcellona il 10 luglio 1941, seconda di nove figli di Manuel Grases Codina e di Manuela García Camporro. Cresciuta in una famiglia numerosa, era di carattere aperto, portato all’amicizia e di piacevole compagnia. 

La sua vicenda è singolare ed eroica. Visse con spirito cristiano la malattia che, seppur debilitandola gravemente, non le impedì di continuare a contagiare le amiche con la vitalità e la gioia che Dio le concedeva. Faceva parte dell’Opus Dei come numeraria.

Nel 1962 è stata aperta la causa di beatificazione e prosegue tuttora nelle varie fasi dell’istruttoria.

Dalle testimonianze raccolte nel libro emerge il ritratto di una ragazza capace di prendersi cura e di entrare in contatto con gli altri. La sua allegria ha aiutato molti giovani a vedere in lei un modello di gioiosa offerta di sé nella vita ordinaria. Una giovane piena di vita, sempre pronta a prendere l’iniziativa non per volontà di protagonismo, ma perché gli altri contavano molto per lei.

Per capire dove Monserrat trovava le energie per vivere con gioia anche la malattia, ZENIT ha intervistato monsignor Flavio Cappucci, postulatore dell’Opus Dei, autore di questa autobiografia.

Chi era Montserrat Grases e perché è in corso la causa di beatificazione?

‘Montse’, come veniva chiamata, era un’adolescente di Barcellona, seconda di nove figli, i cui genitori erano entrambi fedeli soprannumerari dell’Opus Dei. A sedici anni e mezzo decise a sua volta di donare la propria vita interamente al Signore ed espresse il desiderio di far parte dell’Opera. Quasi subito incominciarono a presentarsi i primi sintomi della malattia – un sarcoma di Ewing – che nel giro di pochi mesi l’avrebbe portata alla morte. La sera in cui i genitori le comunicarono la notizia e la gravità della prognosi, Montse non fece alcun commento e si limitò a ritirarsi in camera sua. La madre, preoccupata, andò a dormire nel letto di Montse allo scopo di consolarla in qualche modo, ma, dopo cinque minuti, si accorse che la figlia si era addormentata: con semplicità, senza drammi, aveva detto sì alla volontà di Dio. L’indomani, la direttrice del centro dell’Opus Dei dove Montse si recava a ricevere la propria formazione, le spiegò che non c’era contraddizione fra la chiamata all’Opus Dei e questa nuova chiamata indirizzatale dal Signore. Ora era la malattia che lei doveva santificare: accettandola, vedendola come occasione di incontro con Dio, trasformandola in mezzo di apostolato. E Montse fu esemplare proprio in questo. Di qui, dalla serenità che si respirava accanto a lei, dalla gioia che riusciva a diffondere attorno a sé, nacque quella fama di santità che costituisce il motivo per cui fu aperta la sua causa di canonizzazione.

Come fa Montserrat Grases a essere malata ed essere felice e gioiosa?

Perché vede la malattia non dal punto di vista delle proprie sofferenze, ma dal punto di vista di Dio. Il fondamento dello spirito dell’Opus Dei è la coscienza della nostra filiazione divina in Cristo. La paternità di Dio è la prima verità che dobbiamo mantenere sempre ben ferma. Dio è Padre anche quando permette o ci manda il dolore; dunque agisce sempre per il nostro bene. Guidati da queste semplici coordinate si riesce a vedere nella malattia un’espressione misteriosa ma reale dell’amore di Dio per noi.

Come si spiega il mistero cristiano che riesce a dare senso alla sofferenza?

Quello che ho appena detto può aiutare in questo, purché non lo si interpreti come una spiegazione filosofica, astratta. Occorre integrarlo con la fede in Cristo che per primo ha trasformato il dolore in arma di vittoria contro il male. Occorre unirsi alla Croce di Cristo, nella consapevolezza che Egli ci chiama a collaborare con Lui nella redenzione del mondo. Quindi il dolore diventa veicolo della fiducia di Cristo in noi: ci chiede se siamo disposti ad aiutarlo mettendo nelle sue mani la nostra vita.

In che modo la vicenda di Montserrat si intreccia con la storia e l’identità dell’Opus Dei?

Se guardiamo all’Opus Dei come a uno strumento suscitato da Dio per diffondere l’ideale della santità in mezzo al mondo, allora la sua storia è la storia di ognuno di coloro che, entrando nella sua orbita, scoprono le tracce dall’azione di Dio nella loro anima e cercano di seguirle. In questo senso la vicenda di Montse fa parte della storia e dell’identità dell’Opus Dei, in quanto costituisce un esempio tangibile della fecondità del suo messaggio spirituale: trasformare tutte le situazioni dell’esistenza quotidiana in occasioni di incontro con Dio. L’ordinario, in tutti i suoi aspetti, anche quelli apparentemente più difficili, è teatro della presenza di Dio, trabocca di Dio, e chi lo scopre ha in mano il segreto della felicità.

Quali secondo Lei le testimonianze più curiose?

Di veramente curioso non ho trovato nulla. Di interessante, molto. Citerò due esempi. Anzitutto la più cara amica, che ricorda come, quando Montse non poté più alzarsi dal letto a causa della malattia, le chiese di insegnarle a suonare la chitarra. In effetti, poteva sembrare una richiesta un po’ singolare. Ma il significato era evidente: molte amiche l’andavano a trovare, e Montse voleva evitare che quegli incontri si trasformassero in una specie di veglia funebre; non voleva che la compatissero, essere motivo di tristezza. Desiderava invece intrattenerle, e cantare insieme le sembrò il modo più facile per creare un clima di gioia.

La seconda testimoinianza è quella di un altro amico, studente universitario. Andò a trovarla pochi giorni prima che Montse morisse. Entrò in camera sua col magone che gli serrava la gola e domande fondamentali da rivolgerle. Invece fu Montse a prendere l’iniziativa e a sommergerlo di domande: sull’andamento degli studi, gli amici comuni, i progetti… Poi lo congedò ed egli abbandonò la camera. Chiusosi il portone alle spalle, si mise a pensare: com’è possibile? Sta male, forse è l’ultima volta che la vedo, e non le ho chiesto nemmeno come sta. Allora tornò a suonare il campanello e rientrò nella stanza di Montse deciso a parlare lui. Ma, ancora una volta, fu Montse a guidare la conversazione.

Perché queste due testimonianze mi hanno colpito? Perché in fondo la breve vita di Montse risponde alla domanda: che cos’è la santità? E la risposta è: dimenticare se stessi e vivere per gli altri. 

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ZENIT Staff

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