ROMA, venerdì, 2 marzo 2012 (ZENIT.org).- In collaborazione con Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), Mark Riedemann ha intervistato per Where God Weeps (Dove Dio piange) monsignor José Luis Ponce de Leon, I.M.C., vicario apostolico di Ingwavuma, nel Sud Africa, la regione del mondo con la più alta percentuale di infezioni da HIV-AIDS.
***
Eccellenza, Lei è nato a Buenos Aires, in Argentina, nel 1961. Quando ha capito che voleva diventare sacerdote?
Mons. Ponce de Leon: Avevo 18 anni e, nel gruppo giovanile, avevo conosciuto i Missionari della Consolata. Attraverso l’incontro con i Missionari, noi abbiamo scoperto qualcosa che non avevamo mai visto prima, cioè l’opera missionaria della Chiesa. Mi ha fatto pensare alla possibilità di diventare un missionario laico. Una domenica, nel mese di aprile, stavamo pregando per le vocazioni e, per qualche motivo, mi ricordo che stavo nella mia stanza, pensando che forse Dio mi stesse chiamando non per essere un missionario laico ma sacerdote. La mia chiamata era una sorta di pacchetto “tutto compreso”: religioso, sacerdote e missionario, cioè le tre cose insieme.
Com’è stato per Lei, un latinoamericano, arrivare in Africa? Qual è stata la sfida più grande che ha dovuto superare?
Mons. Ponce de Leon: Lei sa che si dice che è più facile per le persone provenienti dal Sud America di andare in Africa, per via del modo in cui noi ci relazioniamo con la gente. La sfida probabilmente è che non abbiamo risorse finanziarie alle nostre spalle, quindi non possiamo scrivere a casa, ad organizzazioni nei nostri paesi o qualcuno che conosciamo per un aiuto finanziario, a meno che hai studiato e lavorato in Europa o in Nord America. Un’altra sfida era arrivare come bianco nel contesto della fine dell’apartheid. La Chiesa cattolica costituisce solo il 4% e quindi non tutti sapevano che ero un prete. La loro prima impressione era che io fossi un bianco, quello con il potere, quello con i soldi, e uno di quelli che gestivano tutto fino a ieri in Sud Africa.
Quindi c’era una diffidenza istintiva?
Mons. Ponce de Leon: All’inizio sì, ma fortunatamente la prima cosa che ho fatto e faccio ancora è dire qualcosa in Zulu e questo cambia completamente tutto.
La sua prima diocesi in Sud Africa era Dundee e, come ha appena menzionato, Lei ha imparato la lingua Zulu. E’ diventato cittadino sudafricano. Questa è adesso casa sua?
Mons. Ponce de Leon: Sì. Quando sono entrato nei Missionari della Consolata non ho mai pensato di andare in un altro Paese solo per pochi anni. Per me è stato a vita. Ma poi sono stato trasferito a Roma. Un anno dopo, sono diventato il segretario generale dei Missionari della Consolata. Pensavo che fosse la fine, che non potessi mai tornare in Sud Africa… finché non ho avuto questa chiamata divertente dal Nunzio Apostolico in Sud Africa, dicendo: “Congratulazioni, il Santo Padre ti ha nominato vescovo di Ingwavuma”.
E Lei ha detto sì?
Mons. Ponce de Leon: Ero molto confuso. Sa, io sono molto a favore di una chiesa locale con un sacerdote locale e un vescovo locale in carica. Ero un religioso, uno straniero in un contesto Zulu, e non aveva alcun senso ma allo stesso tempo mi dissi: “Beh, è un vicariato e non una diocesi. C’è un lavoro da portare avanti, così che diventi una diocesi, forse è per questo che mi hanno chiamato, essendo un missionario della Consolata, siamo qui per sviluppare la chiesa locale e poi andare da qualche altra parte”.
E’ una zona bellissima ma è anche una zona di sofferenza. Il Sudafrica ha uno dei più alti tassi di AIDS nel mondo e credo che la sua zona abbia il tasso più alto in Sudafrica. Come Lei lavora in questo contesto?
Mons. Ponce de Leon: Ho conosciuto la zona per Hlabisa, dove si trova la Cattedrale. E’ famosa perché si dice di avere la zona con la più alta percentuale di AIDS nel mondo, ma io non sapevo dove fosse. Più tardi mi sono ritrovato lì nella Cattedrale. Credo davvero che la Conferenza Episcopale abbia avuto un’idea brillante quando nel 2000 ha deciso di coordinare tutti i progetti da Pretoria, da Khanya House, dalla sede principale della South African Catholic Conference Office a Pretoria perché era una pandemia e sarebbe stato estremamente difficile per qualsiasi di noi a gestire da solo quello che stiamo facendo oggi.
Di che numero stiamo parlando in KwaZulu-Natal?
Mons. Ponce de Leon: Nella nostra zona, si dice che tra il 30 e il 40% delle persone sono positive all’HIV, il che significa che non c’è una famiglia, che non è colpita da questa pandemia. Mi ricordo anni fa quando un sindaco di una città diceva fossero uno su tre e poi ha aggiunto: “Guarda alla tua sinistra e ora a destra: uno di voi è sieropositivo”. E’ così semplice… Inoltre, colpisce le persone tra i 15 e i 40 anni. Nel 2000 avevo 40 anni a quel tempo e nella missione dove stavo lavorando il 50% delle persone che ho sepolte erano più giovani di me. Non c’era nessuna sorpresa nel dire: “Sentiamo che molte persone stanno morendo”. Sapevamo che stavano morendo e sapevamo che erano molto giovani.
Qual è la risposta?
Mons. Ponce de Leon: L’educazione è la risposta. Il governo ha scelto la politica di ABC (Astinenza, Fedeltà e Condom in inglese). In pratica, era però CBA (Condom, Fedeltà e Astinenza). Non ha funzionato. La pandemia non si è fermata e il governo ha cominciato a chiedersi cosa era andato storto. Alcune persone credono di avere la risposta giusta per la pandemia di AIDS in Sud Africa, come se ci fosse una risposta facile ad una pandemia. Io dico: vieni e rimani un po’ in Sud Africa e allora comprenderai che è un problema difficile e che ci sono molte ragioni per il quale la pandemia continua.
Il governo sta riflettendo di nuovo sul suo programma?
Mons. Ponce de Leon: Sì, e adesso coinvolge sempre la Chiesa nei suoi piani. Si dice che noi, la Chiesa cattolica, siamo il maggior fornitore di assistenza in Sud Africa. Siamo dei pionieri in molti aspetti. Quando il governo avrebbe difficoltà a prendere decisioni o adottare misure, la Chiesa cattolica lo ha fatto. Avevamo capito che un programma con anti-retrovirali era fondamentale per noi e che non potevamo pagarlo. Così l’AIDS Relief Consortium è venuto in nostro aiuto e così abbiamo iniziato.
Qual è ora il suo più grande bisogno in Sud Africa?
Mons. Ponce de Leon: Penso che, soprattutto nel nostro caso, sia sempre nel campo del l’HIV. Il mio timore principale è: il programma con gli anti-retrovirali è eccellente. Abbiamo persino, nel mio Vicariato, una zona rurale, due container che sono stati trasformati in un laboratorio per le analisi del sangue. Seguiamo i pazienti del Vicariato in modo da non dover mandare i prelievi di sangue a Johannesburg per sapere cosa sta succedendo.
Così, la parrocchia diventa l’ospedale o la clinica?
Mons. Ponce de Leon: Tutto viene fatto lì, prendiamo completamente cura della persona. E abbiamo visto come persone che stanno per morire sono in grado di recuperare la loro dignità. Si rialzano di nuovo. Sono in grado di tornare nuovamente a lavorare per prendere cura delle loro famiglie. Ma l’anti-retrovirale prolunga solo la loro vita e solo per quanto noi siamo in grado di fornire l’anti-retrovirale e questa è la mia più grande paura, cioè di finire i soldi e di non essere più in grado di sostenere la gente. Non è solo i malati ma anche le loro famiglie. E’ un’intera generazione, il futuro di questo Paese, e dobbiamo far sì che possano andare a scuola, che possano prepararsi meglio e che possano guardare al futuro con speranza. Questa è la cosa principale pe
r noi.
———
Questa intervista è stata condotta da Mark Riedemann per Where God Weeps, un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network, in collaborazione con l’organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che Soffre.
In rete:
Aiuto alla Chiesa che soffre: www.acn-intl.org
Aiuto alla Chiesa che soffre Italia: www.acs-italia.glauco.it
Where God Wheeps: www.wheregodweeps.org
[Traduzione dall’inglese a cura di Paul De Maeyer]