Di Renzo Allegri
ROMA, martedì, 15 novembre 2011 (ZENIT.org).- Dal 4 al 6 novembre si è tenuto, nella Chiesa di San Lorenzo a Firenze il XXXI Convegno nazionale dei “Centri di aiuto alla vita”, associazioni di volontari, di ispirazione cattolica, che si propongono di aiutare le donne in difficoltà di fronte a una gravidanza difficile o indesiderata per evitare il ricorso all’interruzione della maternità.
Nel dare il benvenuto ai convegnisti, l’arcivescovo di Firenze, monsignor Giuseppe Betori e monsignor Angiolo Livi, priore di San Lorenzo, hanno ricordato che il primo di quei centri venne fondato proprio in quella chiesa il 12 dicembre 1975. Venne fondato dal professor Enrico Ogier, che era primario di ostetricia e ginecologia all’Ospedale Careggi e docente di patologia ostetrica all’università di Firenze, e da sua moglie Gina, con alcuni giovani medici cattolici. Il Centro fu intitolato a Maria Cristina, figlia dei coniugi Ogier, morta nel 1973 a 19 anni, perché in realtà era stata lei la vera ispiratrice di quel movimento.
Alcuni mesi prima di morire, Maria Cristina, che era studentessa universitaria, aveva riferito in famiglia le infuocate discussioni abortistiche che si tenevano tra gli studenti. E pensando ai bambini che avrebbero perso la vita con l’aborto, aveva detto a suo padre: “Senti, babbo, sei o non sei un medico cristiano? Se non te ne occupi tu, di quei bambini, chi vuoi che se ne occupi?”. Quelle parole colpirono molto il professor Ogier, e dopo la morte della figlia divennero per lui un programma d’azione. Nel 1975 fondò il “Centro di aiuto alla vita” di Firenze, dedicandolo alla figlia che glielo aveva ispirato. Quel centro divenne modello di tutti gli altri sorti in seguito, che oggi sono una realtà straordinaria. Nel nostro Paese ce ne sono oltre 300 ed è stato calcolato che, dalla fondazione del primo, quello di Firenze, ad oggi, hanno salvato dall’aborto, quindi dalla morte, non meno di 130 mila persone.
Come giornalista, mi sono interessato di Maria Cristina la prima volta subito dopo il suo funerale, avvenuto a Firenze nel gennaio del 1973. Avevo letto sul quotidiano La Nazione che una folla immensa aveva partecipato alla cerimonia religiosa. Ero rimasto colpito. Tutta quella gente non era giustificata dal fatto che Maria Cristina era morta a soli 19 anni ed era figlia di un celebre medico.
Il giornale scriveva che quella folla era costituita prevalentemente da poveri, da ammalati, da emarginati amici della ragazza. Incuriosito, corsi a Firenze, incontrai i genitori di Maria Cristina, rimasi una mezza giornata con loro ascoltando una delle storie più belle e commoventi che mi sia capitato di incontrare nella mia lunga carriera di giornalista. Una storia positiva, edificante, esemplare, indimenticabile.
Ricca, giovane, bella, simpatica, sempre con il sorriso sulle labbra e una gran voglia di vivere, Maria Cristina, a 19 anni, sembrava la ragazza più felice a più fortunata di Firenze. Invece, sotto il sorriso, nascondeva un terribile dramma: dall’età di 4 anni aveva un tumore al cervello, che lentamente distruggeva la sua esistenza. Il male, già da tempo, le aveva semiparalizzato la mano e la gamba destra e provocava spesso dolori atroci, ma la ragazza non si lamentava mai. La sofferenza le aveva fatto scoprire Gesù, se ne era innamorata e viveva il proprio dramma in unione continua con Lui che, per amore degli uomini, aveva scelto di morire sulla croce. Nonostante la malattia, era impegnata in mille attività a favore dei poveri e dei sofferenti. E solo dopo la sua morte i familiari, i parenti, gli amici hanno scoperto, con stupore, l’incredibile attività assistenziale compiuta da quella ragazza semiparalizzata.
Maria Cristina visse la sua malattia in una sofferenza silenziosa, eroica, vivificata da una fede appassionata, da cristiana totale. E la cosa che mi colpì su tutto, nel lungo racconto che mi fece la madre della ragazza in quel mio incontro del 1973, sta nel fatto che non erano stati i genitori a dare alla figlia quella dimensione di vita profondamente cristiana che aveva.
“A Maria Cristina, io e mio marito non abbiamo insegnato niente di tutto quello che ha fatto – mi disse quel giorno la signora Gina Ogier -. Io e mio marito siamo sempre stati cattolici, ma una volta non eravamo molto ferventi. Si andava alla messa ogni tanto, non ci si preoccupava dei problemi spirituali, il prossimo per noi era un estraneo. Conoscendo le condizioni di salute di Maria Cristina, cercavamo di distrarla, volevamo accontentare tutti i suoi desideri, volevamo che si divertisse.
“Fin da bambina, Maria Cristina era molto vivace. Amava lo sport ed era una brava nuotatrice. Le piaceva il mare, la montagna. Da ragazza, amava il teatro, la musica, andava spesso all’opera e conosceva diversi artisti. Era intelligente e studiava molto. Ha dato la maturità con un anno di anticipo e a pieni voti. Si era iscritta a medicina perché voleva diventare medico, come il padre. Accanto a tutto questo, però, aveva grandi ideali di bontà, di altruismo, di volontariato dei quali né io né suo padre le avevamo mai parlato”.
E scendendo in dettagli concreti, la signora Gina mi raccontò alcuni episodi che certamente sorprendono e sono rifiutati dalla nostra mentalità razionale, ma fanno “intuire” realtà spirituali straordinarie, che sono forse più frequenti, soprattutto tra i bambini, di quanto si possa immaginare.
“Nella vita di mia figlia c’è sempre stato un qualche cosa di misterioso che non sono mai riuscita a capire – mi raccontò la signora Ogier -. Il primo episodio che mi sorprese, accadde nel 1961. Maria Cristina aveva sei anni. Poiché era ammalata a poteva morire improvvisamente, chiesi al parroco, monsignor Giancarlo Setti, di metterla alla Comunione. Il parroco fu comprensivo e volle preparare personalmente la bambina. Maria Cristina era molto felice e una settimana prima della festa, mentre le preparavo l’abito bianco, mi disse: Il vestito bianco lo voglio: devo essere bello perché ricevo Gesù, ma non voglio regali. Di’ alle zie, agli zii e ai nonni che invece di regali mi diano dei soldi, così li posso portare ai bambini poveri. Restai male. Sapevo che i parenti adoravano la mia bambina e per quella festa volevano farle tanti regali. Cercai di farle cambiare idea. Le dissi che le avrebbero fatto dei regali e poi dato dei soldi, ma non riuscii a convincerla. Voleva solo soldi per i bambini poveri. Andai dal parroco e gli chiesi se era stato lui a dire quelle cose a Maria Cristina ma anch’egli restò meravigliato perché non aveva mai parlato di quell’argomento.
Qualche mese dopo accadde un altro episodio misterioso. Una mattina Maria Cristina mi disse: Questa notte ho sognato Gesù. Sono entrata in chiesa e il grande crocifisso sull’altare si è svegliato. Mi ha detto: ‘Maria Cristina, vuoi togliermi i chiodi e la corona di spine?’. Io ho fatto tutto quello che voleva e poi l’ho preso per mano e l’ho accompagnato a casa nostra e l’ho messo a letto. Gli ho dato anche il pigiama perché era nudo. Lui allora mi ha detto: ‘Ora vai, sei guarita’.
Anche questa volta restai perplessa. Raccontai il fatto a mio marito e mi disse di lasciar perdere. Mi confidai con il parroco e mi rispose che erano fantasie di bambini. Cercavo di dimenticare, ma la speranza di una madre si aggrappa a tutto. Quella frase ‘Ora vai, sei guarita’, mi toglieva il sonno. In quei giorni Maria Cristina era molto migliorata, sembrava guarita e io sognavo ad occhi aperti.
Qualche tempo prima eravamo andati a Stoccolma dal professor Olivecrona. Speravamo che il celebre chirurgo del cervello potesse fare un intervento, e invece ci disse che il tumore era in una posizione impossibile da raggiungere chirurgicamente. Era meglio attendere il decorso naturale della malattia. Praticò un intervento di decompressione
del liquor, che avrebbe dovuto portare un miglioramento temporaneo, ma ci disse che per la nostra bambina la medicina non poteva fare nient’altro.
Dopo il racconto del sogno di Maria Cristina, io speravo che quel miglioramento fosse provocato da un miracolo, non dalla medicina. Anzi speravo che non fosse un miglioramento ma la guarigione completa.
A settembre portai la bambina a Lourdes e pregai molto. Passò un anno, Maria Cristina stava bene, avevamo quasi ritrovato la felicità, ma una mattina la bambina mi chiamò nella sua cameretta e mi disse: Mamma, ho sognato ancora Gesù. Mi ha chiesto di portare la croce insieme con Lui. Impaurita, le domandai piangendo: E tu che cosa hai risposto?. Con un sorriso dolcissimo la bambina disse: Gli ho detto di sì. Se avessi visto la sua faccia, gli avresti detto di sì anche tu. Pochi giorni dopo, Maria Cristina ricominciò a zoppicare e la malattia riprese il suo terribile corso. Da allora, mia figlia non si è più lamentata del male. Ha cominciato a vivere solo preoccupandosi di aiutare gli altri ed è sempre apparsa felice, contenta”.
“Che cosa faceva sua figlia per aiutare gli altri”, chiesi alla signora Ogier. “Di tutto”, mi rispose. “Viveva per gli altri. Tutti i suoi risparmi li dava ai poveri. Quando incontrava un povero per la strada, gli dava tutto quello che aveva, si fermava a chiacchierare, lo accarezzava. Io sono schizzinosa e la rimproveravo. Maria Cristina – dicevo – fa pure la carità ai poveri ma non è necessario che tu ti fermi a parlare e non devi toccarli. Sono sporchi, puoi prendere delle malattie. Lei mi rispondeva: Mamma, i poveri sono tanto soli. Non hanno bisogno soltanto di denaro, ma soprattutto di affetto.
Quando divenne più grande, cominciò ad andare a visitare i vecchietti dei ricoveri. Li lavava, imboccava i paralitici, comperava indumenti, restava con loro a chiacchierare. Quando era lontana, scriveva lettere, cartoline perchè non si sentissero soli.
Preoccupata per la sua salute, la portavo da un santuario all’altro pregando per ottenere un miracolo. Maria Cristina mi seguiva obbediente, ma non ha mai pregato per la sua guarigione. Spesso glielo chiedevo con le lacrime agli occhi: Domanda la grazia alla Madonna, dicevo. E lei rispondeva: Mamma, ci sono tante persone che soffrono molto più di me: bisogna pregare per loro.
Ogni anno andavamo a Lourdes. Durante quei viaggi, Maria Cristina scoprì il lavoro delle crocerossine che accompagnano gli ammalati e volle diventare crocerossina. Era la crocerossina più giovane del mondo. Era felice di dedicarsi ai sofferenti. Riusciva a infondere nel loro animo tanta rassegnazione, tanta bontà. Durante i viaggi sul treno, al santuario, non si stancava mai di correre, di aiutare, di pregare, di consolare. Gli ammalati più difficili e più bisognosi erano i suoi prediletti. Non aveva ribrezzo neanche per le piaghe più orribili che facevano impressione perfino ai medici. Comperava immaginette, cartoline che scriveva alle famiglie dei suoi ammalati. Io che sapevo come faticava con la sua mano e la gamba semiparalizzate, ogni tanto le dicevo: Cristina, riposati un poco. Lei rispondeva sorridendo: Hanno bisogno di me. Mi accorgevo della fatica fatta e dei sacrifici affrontati alla sera, quando vedevo i suoi piedi gonfi, con le vesciche per il continuo camminare.
Nel 1970 venne a Firenze un cappuccino, padre Pio Conti. Era medico e prima di partire missionario per l’Amazzonia voleva specializzarsi in ginecologia e ostetricia. Studiava con mio marito e veniva spesso a casa nostra. Parlando con Padre Pio, Maria Cristina scoprì le missioni e cominciò a interessarsi anche di queste raccogliendo offerte e medicinali. Terminata la specializzazione, Padre Pio andò in Amazzonia. Dopo qualche tempo scrisse una lettera parlando del suo apostolato. Aveva una missione difficile. Il territorio era vastissimo: 500 chilometri lungo il Rio delle Amazzoni. L’unico mezzo di comunicazione era il fiume che gli Indios percorrevano con le canoe. Nella foresta c’era un piccolo ospedale ma serviva a poco. Gli ammalati gravi, i feriti potevano raggiungere l’ospedale solo attraverso il fiume, con la canoa. Il viaggio era lungo e disagiato, spesso morivano prima di arrivare dal medico. Bisognerebbe avere una imbarcazione attrezzata, concludeva Padre Pio. Era una frase buttata lì per caso, ma nella mente di Maria Cristina nacque immediatamente il desiderio di aiutare quella povera gente. Parlò con un’amica, Maria Laura Tonelli. Cominciò a interessarsi di barche, fece calcoli, pensando alla spesa necessaria. Voleva un battello attrezzato con un pronto soccorso, una specie di ospedale viaggiante. La spesa era molto grossa, ma Maria Cristina non si perse d’animo. Cominciò la sua campagna e per quasi due anni lavorò infaticabile. Raccoglieva soldi dappertutto. Scriveva lettere ad amici, a enti, ai giornali. Aveva messo delle cassettine per le offerte nello studio di suo padre, nell’ospedale, nella clinica, nei negozi. Se qualcuno le offriva un regalo, chiedeva soldi per la barca da mandare in Amazzonia. Alla sera si attaccava al telefono e non la smetteva mai. Telefonava anche fino alle undici di sera. Io le dicevo: Maria Cristina, devi moderarti. Diventerai la favola di tutta Firenze. Non devi importunare la gente in questo modo. Come sempre, lei rispondeva con un gran sorriso e continuava il suo lavoro. Il suo entusiasmo contaminava tutti. La gente, invece di scocciarsi, restava affascinata da quello che sapeva dire quella ragazzina. Ogni giorno partivano decine di lettere. Per raccogliere offerte furono organizzati concerti. Nelle fabbriche e nei forni i ceramisti si tassavano. Qualche commerciante chiedeva offerte ai suoi clienti. Finalmente la somma fu raggiunta. Bisognava fare l’acquisto. A questo punto Maria Cristina trovò l’appoggio di un altro amico: Bruno Lorenzini, un portuale di Livorno: un gigante dal cuore tanto buono. Lorenzini fu conquistato dall’entusiasmo di Maria Cristina e si schierò con lei. Andarono a Fiumicino a comperare la barca. Ne comperarono una lunga dieci metri, dotata di motore diesel. Fu attrezzata con ambulatorio-pronto soccorso, posti letto per trasporto di ammalati. Lorenzini riuscì ad avere l’aiuto degli altri portuali e la barca fu trasportata gratuitamente da Fiumicino al porto di Livorno. Ottenne l’esenzione dalla dogana; dall’armatore Costa riuscì ad avere il massimo di riduzione per il trasporto in Amazzonia. Il 21 febbraio 1972 la barca partì. Quel giorno, al porto di Livorno Maria Cristina era felicissima. Forse quello fu uno dei giorni più belli della sua vita. Il battello, che porta il nome di Maria Cristina, iniziò il suo lavoro sul Rio delle Amazzoni e sul Rio Solimoas a servizio degli indigeni ammalati, diventando utilissimo e Maria Cristina continuò a interessarsene per rifornirlo di medicinali, di viveri dietetici, di attrezzature sanitarie tra le più moderne.
C’era un’altra opera che voleva realizzare. Diceva spesso: Ai bambini ci pensano tutti, ma i vecchi sono i più dimenticati. Soffriva quando andava nei ricoveri. Pensava di formare piccole case che fossero come famiglie per i vecchi soli e abbandonati. Aveva già un progetto. Voleva cominciare con una casa-famiglia a Firenze, ma parlava con i suoi amici per estendere l’iniziativa in altre città.
La casa di riposo era il suo sogno. Non ha potuto realizzarlo ma il suo desiderio non andrà perduto. Ora tocca a me. Io non sono Maria Cristina, non ho la sua fede e la sua forza, ma sento che devo continuare la sua opera. Mio marito ha detto: La nostra vita ora ha un solo scopo: realizzare il sogno di Maria Cristina per i suoi ammalati. Metteremo tutte le nostre sostanze in quell’opera”.
Come sono trascorsi gli ultimi giorni di Maria
Cristina? “A ottobre cominciò a star molto male. Decidemmo di tornare a Stoccolma per un altro tentativo, ma fu un viaggio inutile. In novembre iniziammo una cura a Roma. Trascorrevo gran parte della settimana a Roma, in casa di parenti. Maria Cristina non riusciva più a stare in piedi da sola. Si trascinava per qualche metro appoggiata a me e soffriva, ma non si lamentava.
L’otto gennaio era stato un giorno normale. Avevo accompagnato Maria Cristina da parenti. Alle 6.30 di sera eravamo andati a messa e avevamo fatto la Comunione, come sempre. Poi eravamo rientrati. Maria Cristina si è seduta a tavola. Si è girata verso di me, mi ha guardato un attimo, smarrita, mi ha gettato le braccia al collo ed è rimasta fulminata da una paralisi bulbare.
La mattina seguente la portinaia mi ha portato quattro ricevute di vaglia che aveva eseguito per conto di mia figlia. Poche ore prima di morire, Maria Cristina aveva fatto le sue ultime offerte: 100 mila lire alla Missione in Amazzonia per le medicine e la benzina del battello; 10 mila lire a un Istituto di ragazzi spastici; 2000 lire alla città dei ragazzi vicino a Roma; 1000 lire al Santuario della Madonna di Fatima di un paese toscano”.
Questi sono solo alcuni dei ricordi di Maria Cristina che sua madre mi ha raccontato un mese dopo che sua figlia era morta. Chi non ha fede, di fronte alla morte di persone così giovani, si indigna. Pensa a un destino crudele, a una ingiustizia spietata. Ma la fede apre orizzonti stupefacenti, realtà sublimi di cui avremo conoscenza piena nell’altra vita. Maria Cristina è stata un seme meraviglioso. Quella sua idea, suggerita al padre un anno prima di morire, ha dato origine ai Centri di aiuto per la vita, che, come è stato evidenziato al Convegno di Firenze, sono oggi una realtà straordinaria. Ma a Firenze, e in altre città d’Italia e del mondo ci sono altre ammirevoli realtà che Maria Cristina sognava e che, dopo la sua morte, i suoi genitori, con i parenti, gli amici, i conoscenti, gli ammiratori hanno realizzato in suo ricordo. Case-famiglia per anziani, una scuola in Brasile per bambini poveri, una scuola in Bolivia, un centro accoglienza per orfani in Bielorussia. Esiste un Istituto e una Associazione Onlus che portano il nome di Maria Cristina. Ma esistono soprattutto centinaia, migliaia di persone, soprattutto giovani, sparse per il mondo che hanno accolto nel loro cuore l’esempio di questa ragazza. Pensando a lei, trovano ogni giorno entusiasmo e coraggio per essere testimoni di amore tra i poveri e i sofferenti, contribuendo a dare, a questo nostro mondo, spesso troppo cinico e crudele, un volto umano.