Nelle riflessioni precedenti, abbiamo ricostruito alcune radici e alcuni effetti della iconofobia contemporanea, studiandone soprattutto le sorprendenti relazioni con l’arte sacra cristiana, nei termini di prevalenza del testo scritto, anche pubblicitario, sull’immagine, e di equivoco tra immagine fotografica ed immagine artistica.

Mi sembra opportuno, a questo punto del nostro percorso, aprire una parentesi di sociologia dell’arte e dell’estetica, relativa a una questione capitale: la corporeità. L’iconofobia significa, infatti, anche oblio, o addirittura disprezzo, del corpo.

In modo particolare vorrei interrogarmi su un testo scritto da un critico francese contemporaneo (che scrive da un punto di vista non cattolico), ovvero L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive di Georges Didi-Huberman.

Didi-Huberman propone un percorso di analisi delle relazioni antropologiche cruciali che le immagini intrattengono con il corpo e con la carne, al di là delle usuali nozioni di antropomorfismo o di rappresentazione figurativa. Egli scrive: «Noi siamo davanti alle immagini come davanti a strane cose che si aprono e si chiudono alternativamente ai nostri sensi – che si intenda con questo termine un fatto di sensazione o significato, il risultato di un atto sensibile o quello di una facoltà intelligibile. Qui, abbiamo creduto di avere a che fare con un’immagine familiare, ma ecco che a un tratto essa si richiude davanti a noi e diventa l’inaccessibile per eccellenza. Là – altra versione di questa inquietante stranezza –, abbiamo sperimentato l’immagine come un ostacolo insormontabile, un’opacità senza fondo, quando all’improvviso essa si apre davanti a noi e sembra volerci inghiottire violentemente dentro di sé. Le immagini ci abbracciano: si aprono a noi e si chiudono su di noi nella misura in cui suscitano in noi qualcosa che potremmo chiamare un’esperienza interiore»[1].

Attraverso questa “apertura” si dà possibilità di leggere l’immagine nel contesto del paganesimo come del cristianesimo. Nel caso del paganesimo, Didi-Huberman affronta la relazione tra l’immagine dipinta o scolpita e la carne, nel caso delle sembianze della carne di Afrodite formata dalla schiuma del mare; scopre così una dimensione metaforica nel mondo antico, qualcosa che riesce a rappresentare nel contempo il mito e la corporeità dell’esistenza intesa nel suo magico mistero, infatti «la nascita di Afrodite – la nascita della Bellezza stessa – viene dunque raccontata come il dramma metamorfico di una materia abietta: la schiuma vi prende forma»[2].

Secondo Didi-Huberman, invece nel cristianesimo l’immagine tenta di superare i limiti dell’imitazione, e si pone in stretto contatto con i segni che mutano in sintomi, e la stessa carne si fa immagine, «perché la carne è indistruttibile. È il correlato incredibile, come dice Tertulliano stesso, della follia dell’Incarnazione. Il Verbo si incarna infatti affinché Gesù si sacrifichi, affinché Gesù muoia; ma Gesù Cristo muore solo per resuscitare; e resuscita solo per salvare l’umanità donando, con il miracolo della sua risurrezione, la figura – la profezia, la “norma”, la legge (lex) – della risurrezione finale della quale ogni carne beneficerà. Tra la nozione del Verbo divino fatto carne e la nozione di carne umana destinata a risuscitare Tertulliano stabilirà quasi un rapporto di equazione teologica, in ogni caso un rapporto di implicazione necessaria. Se il Verbo si è incarnato per salvare l’uomo, è perché voleva anche salvare la carne dell’uomo pentito»[3].

Didi-Huberman giunge così a scoprire una relazione imprescindibile tra il corpo e l’immagine, una relazione tra il senso ultimo dell’Incarnazione e la possibilità della sua rappresentazione come adesione non solo esterna, ma attraverso un fede “incarnata” nella vita, interiore e spirituale.

Didi-Huberman, attraverso il percorso ermeneutico del testo apologetico di Tertulliano, giunge a comprendere il senso dell’esperienza mistica delle stimmate di san Francesco d’Assisi, restituita dalla lettura della Vita prima di Tommaso da Celano dove, nella descrizione dei chiodi scuri di carne impressi sulle mani e sui piedi in contrasto con il candore dell’incarnato, si afferma che tali segni di martirio non incutevano orrore, ma conferivano decoro e bellezza; «in questo senso, la relazione con l’immagine che la stigmate implica è il contrario di una relazione di specchio. Lo stigmatizzato non imita Cristo nel senso di un “gioco di specchi”: la sua posizione identificatrice è fondamentalmente diversa. Essa mira, come si è detto, a eccedere l’immagine con l’immagine e nell’immagine; a produrre il mistero di un’intima conversione sintomale. Presuppone quindi una contorsione introrsa, che cerca di superare il di-fronte della visione, di liquefare il soggetto nell’immagine – san Francesco “si cola nelle piaghe di Gesù” –, e poi di produrre, dall’interno, l’immagine irrompente di un chiodo incarnato…. Non ci si stupirà del fatto che questa specificità dell’imago, a differenza dello speculum, se è stata trascurata da numerosi esegeti testuali, è stata però profondamente pensata e perlaborata nel lavoro della pittura, dal momento che i pittori non smettono di dispiegare l’euristica di quello che è l’elemento stesso dell’identificazione stigmatizzante, ossia il visivo e la sua efficacia. Così, la relazione di san Francesco con l’immagine di Cristo in croce, fin dal XIII secolo, si presenta spesso come una relazione di incorporazione piuttosto che di faccia a faccia speculare»[4].

Si fa chiaro come nell’esperienza spirituale e mistica del cristianesimo si possa rintracciare almeno una parte, non secondaria, della costituzione di un sistema artistico complesso e compiuto in grado di rappresentare in imagine picta il sensus proprio della fede in Cristo.

Ancora Didi-Huberman scrive: «In genere, il culto del sangue cristico, a partire dal XIII secolo fino all’inizio dell’età barocca, sembra andare di pari passo con una problematizzazione non della Gestalt, ma della Gestaltung. Ossia: come nascono le figure? Quale ne è la causa, non solamente “formale”, ma anche – e forse soprattutto – materiale?»[5].

Didi-Huberman fornisce, dunque, a partire dall’esterno, un punto di vista da cui osservare la lunga storia dell’arte cristiana, centrata sul corpo, sull’Incarnazione, sulle modalità di intreccio tra la carne e l’immagine.

L’iconofobia che ha infettato l’arte sacra, l’ha fatta anche ammalare di incorporeità. E risulta, a mio avviso, sorprendente che proprio i cattolici si siano lasciati portare via l’importanza dell’immagine del corpo, l’importanza del corpo dipinto. Perché è accaduto tale oblio? L’interrogativo ci si impone non solo per via sociologica e culturale, per le quali domande Didi-Huberman può forse aiutarci a trovare risposte, ma si impone soprattutto per via teologica, liturgica, spirituale. La domanda è allora impegnativa, e impone una risposta globale che percorra più ambiti disciplinari: perché l’iconofobia è potuta diventare il (non)linguaggio contemporaneo dell’arte cristiana, pur essendo incapace di dire il centro, l’essenza, l’origine e il fine di ogni discorso – e non solo artistico - cristiano e cioè il corpo di Cristo?

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NOTE

1) G. Didi-Huberman, L’immagine aperta. Motivi dell’incarnazione nelle arti visive [2007] trad. it Milano, 2008, pag. 1

2) Ivi, pag 41.

3) Ivi, pag. 90

4) Ivi, pp. 115-116.

5) Ivi, pag. 117.

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* Rodolfo Papa è storico dell’arte, docente di storia delle teorie estetiche presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Urbaniana, Roma; presidente della Accademia Urbana delle Arti. Pittore, membro ordinario della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon. Autore di cicli pittorici di arte sacra in diverse basiliche e cattedrali. Si interessa di questioni iconologiche relative all’arte rinascimentale e barocca, su cui ha scritto monografie e saggi; specialista di Leonardo e Caravaggio, collabora con numerose riviste; tiene dal 2000 una rubrica settimanale di storia dell’arte cristiana alla Radio Vaticana.