Pakistan: cresce la mobilitazione per Farah Hatim

Intanto, una bambina di 9 anni anni è stata rapita per fare il kamikaze

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di Paul De Maeyer

ROMA, martedì, 21 giugno 2011 (ZENIT.org).- Grazie all’impegno della Chiesa e dell’agenzia Fides, che sta seguendo da molto vicino la drammatica vicenda, cresce la mobilitazione a favore della ragazza cattolica Farah Hatim, rapita la mattina di domenica 8 maggio a Rahim Yar Khan, capoluogo dell’omonimo distretto nel sudest della provincia del Punjab, e costretta a convertirsi alla religione islamica e a sposare un giovane musulmano (cfr. ZENIT, 20 maggio). A rapire la studentessa ventiquattrenne di infermieristica, che stava facendo un tirocinio presso il reparto di ortopedia dello Sheikh Zaid Medical College della sua città, era stato proprio il suo futuro “marito”, Zeeshan Iliyas.

Come riferito da Fides (20 giugno), il titolare del ministro federale per l’Armonia interreligiosa e le Minoranze (il nuovo dicastero – senza fondi – creato nel maggio scorso per sostituire l’allora ministero per le Minoranze religiose), il cattolico Akram Gill, ha avviato un’inchiesta sul caso della ragazza. Come ha annunciato il consigliere speciale del primo ministro Yousaf Raza Gilani per gli affari delle minoranze religiose, Paul Bhatti, nell’indagine sono coinvolte le autorità locali e il ministro per le Minoranze del Punjab, il cattolico Kamran Michael. “Cercheremo di parlare con la ragazza, di appurare la sua volontà e di risolvere pacificamente la questione”, ha detto il fratello di Shahbaz Bhatti, il ministro federale per le Minoranze ucciso il 2 marzo scorso in un agguato nella capitale Islamabad. “Se accerteremo che Farah è trattenuta contro la sua volontà, chiederemo l’intervento delle più alte autorità del governo federale”.

Mentre nelle scorse settimane si erano subito attivate la diocesi di Multan, nel cui territorio si trova la città di Rahim Yar Khan, e la Commissione nazionale “Giustizia e Pace” della Conferenza dei Vescovi Cattolici del Pakistan (PCBC), le cose cominciano a muoversi anche a livello internazionale. Come ha segnalato Fides, in Canada il Parlamento di Ottawa ha chiesto al governo del primo ministro conservatore Stephen Harper di intervenire presso il governo Gilani. E in Italia, la Commissione Esteri della Camera dei Deputati ha inviato nei giorni scorsi una lettera all’ambasciatore del Pakistan per segnalare il caso.

In un’intervista a Fides (15 giugno), l’Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’Ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra, monsignor Silvano Tomasi, ha auspicato anche l’intervento dell’Alto Commissario ONU per i Diritti Umani, la sudafricana Navanethem (o Navi) Pillay. Il problema è – così ha ribadito il presule – che nessuno riesce a comunicare con Farah. “Dovrebbe esistere un meccanismo che, in queste situazioni, permetta un dialogo diretto con gli avvocati, con la famiglia, con i funzionari dello Stato, per investigare e accertare la verità”, ha ribadito monsignor Tomasi, che ha parlato di “una violazione dei diritti umani, della libertà di coscienza e di religione, e di un abuso sulla più ampia libertà personale, la libertà di poter scegliere come vivere la propria vita”.

Come ha spiegato il rappresentante vaticano presso la sede ginevrina delle Nazioni Unite, il Pakistan deve affrontare una serie di “nodi difficili nel contesto sociale e politico”, fra cui anche la famigerata legge sulla blasfemia (le sezioni 295-b e 295-c del Codice Penale), che ha definito un “punto dolente per la questione della libertà religiosa”. “Cercare di modificare questa legge è, per le comunità cristiane che spesso ne sono vittime, una esigenza prioritaria: tale meccanismo perverso giustifica attacchi a persone innocenti e produce costante incertezza e minaccia, in special modo per le famiglie cristiane e di altre minoranze religiose”, ha spiegato il presule.

Tutti sono d’accordo che per i sei fratelli e sorelle di Farah e per sua madre non sarà per nulla facile riaverla. Secondo i suoi familiari, che continuano a subire delle pressioni – anche da parte della polizia locale – per lasciare perdere, la ragazza vive segregata ed ha subito dei maltrattamenti. D’altronde, il caso è già chiuso per le autorità pachistane, nel senso che l’allieva infermiera ha dichiarato davanti ad un giudice di essersi convertita per sua volontà e sposata con il suo rapitore. La famiglia di Farah sostiene invece che questa dichiarazione le è stata estorta con le minacce e le percosse.

Mentre alcuni temono che la giovane corra persino il rischio di essere venduta, una notizia getta una nuova luce inquietante sulle strategie dei movimenti estremisti pachistani. Secondo quanto riferito dai media, in particolare il quotidiano pachistano The Express Tribune (21 giugno), le forze di sicurezza hanno fermato lunedì 20 giugno ad un posto di blocco nei pressi di Timergara, nel distretto del Basso Dir, nella provincia nordoccidentale di Khyber Pakhtunkhwa, una bambina di appena 9 anni, la quale indossava un giubbotto imbottito con circa 8 chilogrammi di esplosivi.

La ragazzina, che si chiama Sohana Javed, ha dichiarato durante una conferenza stampa organizzata dalla polizia di essere stata rapita questa domenica nel capoluogo della provincia, Peshawar, mentre stava andando a scuola. La bambina ha raccontato che due donne l’hanno spinta in una macchina, che era guidata da due uomini, e che le hanno dato da mangiare biscotti che contenevano un sonnifero. La mattina del 20 giugno il commando si è recato in macchina al posto di blocco di Islam Darra del corpo paramilitare del Frontier Corps, dove poi all’ultimo istante la ragazzina è risucita a liberarsi dai suoi sequestratori e a gettare via il giubotto.

Se la versione fornita da Javed verrà confermata – molti elementi sono ancora da chiarire – sarà stata la prima volta che in Pakistan una bambina viene usata in un attacco suicida, per fortuna fallito. Esempi di ragazzi adolescenti adescati ed addestrati dai talebani o simili per essere utilizzati in attacchi kamikaze sono invece frequenti. Uno di loro, il quattordicenne Umar Fidai, è sopravvissuto per un malfunzionamento della sua cintura esplosiva all’attentato che insieme ad un altro ragazzo ha perpetrato il 3 aprile scorso contro un santuario sufi nella città di Dera Khan Gazi, sempre nella provincia del Punjab.

Rimasto gravemente ferito e mutilato, il ragazzo ha raccontato due mesi fa alla BBC (18 aprile) il perché del loro folle gesto, che ha provocato ben 41 vittime. Volevano combattere gli infedeli nel vicino Afghanistan ed entrare in paradiso, ma i talebani avevano deciso diversamente. “Abbiamo fatto una cosa molto grave uccidendo bambini, anziani e donne. Mi rendo conto adesso che gli attentati suicidi sono incompatibili con l’islam”, così ha spiegato il ragazzo al giornalista Aleem Maqbool. “Spero che la gente mi possa perdonare”, ha aggiunto il quattordicenne, che nonostante i dolori è molto grato per una cosa: di non essere andato all’inferno…

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ZENIT Staff

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