ROMA, giovedì, 16 giugno 2011 (ZENIT.org).- La Thailandia è uno dei pochi paesi asiatici nei quali c’è libertà religiosa e rispetto per le minoranze religiose. Il Pime vi lavora dal 1972 in due diocesi, una parrocchia a Bangkok e tre missioni fra i tribali nella diocesi di Cheng Mai, ai confini con la Birmania. Incontro a Milano padre Claudio Corti di Lecco, in Thailandia dal 1998 e tornato in Italia per la beatificazione di padre Clemente Vismara (26 giugno a Milano).
Gli chiedo che impressione ha dell’Italia.
Corti: “La mia impressione è questa: che il missionario è presentato e ritenuto più come operatore sociale che come evangelizzatore. Io sono partito perché mandato dalla Chiesa a portare il Signore Gesù a quei popoli che ancora non lo conoscono. L’immagine prevalente del missionario che appare oggi in Italia, anche in ambienti cattolici, è quella di uno dei tanti operatori sociali, come se la Chiesa in missione fosse una Ong che cura i malati, dà da mangiare agli affamati, si preoccupa delle scuole e dell’assistenza sanitaria, ecc. Ho anche l’impressione che i nostri cristiani hanno quasi timore di dire che noi siamo cristiani”.
Da dove ricavi questa impressione?
Claudio: “Il 25 marzo scorso la prima missione di padre Clemente a Monglin in Birmania è stata devastata da un forte terremoto che ha distrutto, tra l’altro, tre chiese. Amici che si impegnano a raccogliere soldi per aiutare a ricostruire le chiese dlstrutte mi dicono: ‘Ma non possiamo dirlo, diciamo semplicemente che aiutiamo la ricostruzione’. Ma come, in Italia abbiamo paura di dire che ricostruiamo una chiesa? Che noi come cristiani italiani vogliamo ricostruire le chiese? Secondo me questo è un linguaggio ‘politicamente corretto’ che faccio difficoltà a capire”.
In questi giorni ho letto sul giornale che a Roma i missionari e le suore missionarie hanno fatto una manifestazione per l’acqua bene pubblico. Sui giornali è apparso il titolo : “Missionari e suore manifestano per l’acqua pubblica”.Tu cosa dici?
Corti: “Queste cose possono dirle e manifestarle tutti. Ma facendo una manifestazione di soli missionari e suore, diamo l’idea sbagliata del missionario. E’ certamente positivo e vero che il missionario va ad aiutare i poveri, istruire i bambini e via dicendo. Ma non può mancare l’annunzio di Cristo e del Vangelo; tutto il resto è fatto allo scopo di testimoniare la fede che porta alla carità. Ho un po’ timore che in Italia si ha quasi timore di dire la nostra fede, di testimoniarla apertamente. Quasi che per dialogare si debba mettere tra parentesi la fede e parlare solo di fatti e di opere sociali”.
Il movimento missionario italiano si è diviso negli anni Settanta. Prima eravamo molto uniti e negli anni ’50 e ’60 abbiamo fatto assieme molte cose utili e belle: la Emi, la Fesmi, le visite dei missionari nei seminari diocesani, le settimane di studi missionari, gli incontri per “una teologia missionaria”, la campagna contro la fame e Mani Tese, ecc. Poi il Sessantotto secolarizzato ci ha divisi e l’immagine del missionario a poco a poco si è politicizzata, il missionario è quasi diventato un operatore sociale: la sua immagine di evangelizzatore è decaduta. Ci lamentiamo che le vocazioni missionarie sono crollate in Italia. Ma quale giovane o ragazza decide di farsi missionario, se i missionari e le suore parlano di mondialità invece che di missione, manifestano per l’acqua pubblica o contro la vendita delle armi, invece di esprimere pubblicamente un appello ai giovani che vale la pena di diventare missionari per portare Cristo, l’unica ricchezza che abbiamo, a tutti i popoli?
Corti: “Noi in Thailandia, paese non cristiano dove i cattolici sono infima minoranza, stiamo attenti alle culture e alle religioni, rispettosi, dialoganti, disposti ad aiutare tutti per quel possiamo, ma nello stesso tempo siamo molto chiari sulla nostra identità cristiana. Ad esempio, anche gli ostelli nei quali educhiamo i ragazzi tribali, diciamo espressamente che sono centri di formazione umana e cristiana, perché altrimenti siamo equiparati alle tante Ong che fanno la stessa cosa in un modo laico, cioè indifferenti alla formazione religiosa. Ad esempio i giapponesi finanziano ostelli per ragazzi poveri. Noi ci distinguiamo perché dichiariamo apertamente che, educando i bambini poveri o orfani, siamo lì per evangelizzare. I giapponesi hanno parecchie Ong che non tanto mandano volontari, ma finanziano opere educative per i poveri. Bisognerebbe poi vedere se i loro finanziamenti vanno a buon fine, ma certamente i giapponesi aiutano l’educazione dei poveri. Anche noi vogliamo e operiamo per questa finalità, ma mettiamo in risalto che siamo venuti in Thailandia per portare il Vangelo, di cui tutti i popoli hanno bisogno”.
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*Padre Piero Gheddo (www.gheddopiero.it), già direttore di Mondo e Missione e di Italia Missionaria, è stato tra i fondatori della Emi (1955), di Mani Tese (1973) e Asia News (1986). Da Missionario ha viaggiato nelle missioni di ogni continente scrivendo oltre 80 libri. Ha diretto a Roma l’Ufficio storico del Pime e postulatore di cause di canonizzazione. Oggi risiede a Milano.