La tomba degli Aureli, primo esempio di convivenza religiosa

Nuovo studi sull’ipogeo della potente famiglia romana

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di Mariaelena Finessi

ROMA, lunedì, 13 giugno 2011 (ZENIT.org).- Emerso quasi un secolo fa a Roma, nell’autunno del 1919, durante alcuni lavori di edificazione tra viale Manzoni e via Luzzatti – non lontano dalla Basilica di Santa Croce in Gerusalemme -, dai restauri dell’Ipogeo degli Aureli (tre camere raccordate e completamente dipinte con un programma decorativo estremamente complesso) arrivano interessanti scoperte.

A illustrarle Fabrizio Bisconti, Sovrintendente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, che nell’incontro con la stampa il 9 giugno scorso ha svelato il risultato degli studi sulla tomba della potente famiglia di liberti la quale, nello scorcio dell’impero dei Severi – siamo alla prima metà del III secolo -, elaborò un pensiero multireligioso in perfetta armonia con il clima culturale che si doveva respirare nella Roma del tempo.

“Proprio nella scena omerica che si ispira al X canto dell’Odissea – ha spiegato Bisconti -, laddove si rievoca il magico episodio dei compagni di Ulisse tramutati in animali da Circe, è uscita una nuova scena che rappresenta una defunta, Aurelia Prima, che compiange i due fratelli, Aurelius Onesimus e Aurelius Papirius, situati sul ‘lectus funebris’, all’interno di un recinto funerario collocato presso una villa rustica del ‘fundus’ degli Aureli, dislocato probabilmente nel suburbio romano”.

Una scoperta che “perfeziona le nostre conoscenze su un complesso programma decorativo che raffigura i tre Aureli calati in un beato locus amoenus e rappresentati – ha continuato poi Bisconti – come pastori, filosofi, commensali, retori e cavalieri, in perfetta sintonia con il desiderio di autorappresentazione della classe sociale dei liberti, la quale elabora un’idea dell’aldilà estremamente eclettica, all’insegna dell’otium campestre e della riflessione filosofica, elementi che si consumano in un habitat oltremondano che prepara e annuncia il paradiso dei cristiani” .

“Se la critica del passato ha considerato gli Aureli come eretici, come gnostici o, comunque, come aderenti ad una religione non ortodossa – è stato il chiarimento di monsignor Giovanni Carrù, Segretario della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra –, ora si preferisce pensare che questa altolocata famiglia romana del III secolo, con il programma decorativo che decorava il proprio monumento funerario, volesse solo esprimere una cultura complessa che, senza abbandonare le idee della civiltà pagana, ascolta il pensiero delle forme religiose e del pensiero filosofico proveniente dall’Oriente”.

Una sincresi religiosa che dimostrerebbe anche “il grado di tolleranza” che i Severi misero in atto durante il loro impero e “che fu infranto negli anni successivi – ha ricordato Carrù – quando Decio, Valeriano e Diocelziano, in un crescendo violento, innescarono il fenomeno delle persecuzioni”.

Rispetto alle decorazioni delle catacombe cristiane, gli affreschi dell’ipogeo di viale Manzoni mostrano una maggiore libertà da parte dei committenti e dei pittori proprio per il carattere privato della tomba. “Questa libertà – ha sottolineato il Segretario della Pontificia Commissione – permette agli artifices di spaziare tra i grandi temi cari all’arte profana, con particolare attenzione per i miti e per i poemi omerici. Ma simultaneamente si incontrano figure simboliche che, alludendo alle persone dei defunti, assumono le caratteristiche dei personaggi che animeranno le scene del Vecchio e del Nuovo Testamento”.

Sulle pareti, infatti, campeggiano le figure del filosofo e del crioforo, cioè del pastore con la pecorella sulle spalle, immagini che “se da un lato recuperano i concetti della filantropia, della humanitas e della saggezza classica – la spiegazione è del Cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura -, dall’altro preparano i simboli del buon pastore, delle figure dei santi, degli apostoli e di Cristo”.

Un sincretismo diffuso nell’impero di allora, capace di accogliere senza esitazioni figure, idee o simboli e culti dell’Oriente, in un clima di interculturalità e di multireligiosità, in linea con la composizione multietnica della popolazione della metropoli. E la conferma di un tale “dialogo” religioso è contenuto nell’Historia Augusta, documento che raccoglie una sequenza di biografie degli imperatori romani.

“L’Historia Augusta – a raccontarlo è ancora Ravasi – ci ricorda che l’imperatore Alessandro Severo venerava all’alba nel suo ‘larario’ i ritratti dei suoi lari antenati, le immagini di alcuni imperatori, la figura di Apollonio di Tiana ma anche le icone di Cristo, Abramo e Orfeo”.

“L’ipogeo di questi liberti, insomma – ha concluso il Cardinale Ravasi -, rappresenta, sia dal punto di vista monumentale che dal punto di vista epigrafico ed iconografico, una soglia privilegiata per chi voglia avvistare i primi sintomi di un linguaggio religioso che si stava declinando in senso cristiano”.

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ZENIT Staff

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