ROMA, mercoledì, 8 giugno 2011 (ZENIT.org).- Prime avvisaglie d’estate. La pausa lavorativa non appare più un miraggio irraggiungibile e si fanno progetti. Magari pure sui libri da portarsi sotto l’ombrellone o nella frescura montana, recuperando finalmente un po’ del tempo che non gli si è potuto dedicare durante l’anno. Per non partire carichi di troppe buone intenzioni – Tolstoj per la spiaggia e i Karamazov da assaporare in vetta, tornando poi puntualmente a casa con i tomi intonsi – meglio riscaldare i motori con una lettura leggera e sanamente divertente. Ma non per questo meno interessante.
Il mio consiglio è: Terry Pratchett. Sarebbe facile non prendere sul serio lo scrittore britannico dicendo che è l’inventore del genere fantasy-demenziale, un po’ meno se si aggiunge che si è portato a casa quattro lauree honoris causa e che due anni fa la Regina d’Inghilterra lo ha nominato Cavaliere per i suoi servizi alla letteratura. La sua serie più nota – quella del Mondo Disco, un universo piatto sorretto da quattro elefanti che a loro volta poggiano sul guscio di una enorme tartaruga cosmica – conta a oggi 38 volumi autoconclusivi tradotti in 37 lingue. Hanno venduto qualcosa come 65 milioni di copie.
Nel 2007 a sir Terry è stata diagnosticata una rara forma di Alzheimer precoce, in seguito alla quale lo scrittore ha donato un milione di dollari per la ricerca. In Italia sono quasi vent’anni che Pratchett appare e scompare dalle librerie. Gli editori non sanno in quale scaffale collocarlo e talvolta indicano sulla copertina un’età di lettura per ragazzi, salvo aver precedentemente tagliato, in fase di traduzione, parti che da ragazzi proprio non sono. Possibile sia tanto difficile prendere sul serio qualcuno solo perché si esprime in maniera giocosa? Il problema non sarà che ci consideriamo troppo seri per tener conto del comico? Pratchett questa lezione l’ha imparata in casa: lo scrittore è infatti nato nel 1948 a Beaconsfield, la cittadina dove trascorse la maggior parte della sua vita Gilbert K. Chesterton, al quale sir Terry ha pure dedicato un romanzo, affermando che Chesterton era «uno che sapeva quel che stava succedendo» (cfr. Buona Apocalisse a tutti!, Mondadori).
Nonostante scriva parodie di fantasy, Pratchett ha imparato dal suo illustre concittadino che l’unica magia possibile è quella di uno sguardo capace di percepire la vita come qualcosa di nient’affatto scontato, condizione strana e anormale: un caso eccezionale che merita continuamente la nostra attenzione. I suoi romanzi non sono altro che sfavillanti trasposizioni del nostro mondo in una cornice diversa, travestimenti che esaltano la bizzarria dell’esistenza e spingono a riscoprirla nascosta nei panni di una realtà sconosciuta, della quale non conosciamo le chiavi di lettura. Come se il nostro mondo ci divenisse improvvisamente alieno e ci dovessimo mettere a imparare tutto da capo: per un momento gli schemi dell’ovvio e dell’abitudine vengono spezzati, e il nostro sguardo si libra intorno a noi colmo di senso della novità.
In altre forme di magia, tipo quelle fatte di formule e oggetti arcani care alla sua compatriota J.K. Rowling, Pratchett non nutre alcuna fiducia. Nei suoi romanzi a padroneggiarla benissimo sono sempre gli avversari, mai i protagonisti. Scuotivento, uno dei personaggi più ricorrenti, è il mago più inetto e incapace del multiverso. E pure le tre streghe protagoniste di un’altra serie di avventure preferiscono impacchi d’erbe, una tazza di thè e molta esperienza di vita a sfere magiche e ammennicoli affini. Le streghe di Pratchett sono, di fatto, l’equivalente di un buon medico, di un buono psicologo e di un buon consulente familiare, ancorate alla saggezza millenaria del buon senso comune. Se prendiamo in mano Streghe all’estero (Salani) facciamo la conoscenza con un terzetto che dissolve in una risata fascinazioni Wicca e suggestioni neopagane. A capeggiarle c’è Nonna Weatherwax, una vecchia glaciale, «rigida come una barra di ghisa» e altrettanto flessibile, che «è nata buona, ma non le piace». Segue Tata Ogg, tozza e rubizza, madre di una quindicina di figli e nonna di una moltitudine di nipoti, disinibita e sboccata, amante della compagnia e del buon bicchiere. Ultima viene la giovane Magrat Garlick, incerta e alla continua ricerca di se stessa, una sognatrice che «nel boudoir rosa del suo cuore» cova ideali umanistici, massime ecologiche, interpretazioni freudiane della scopa della strega, filosofie orientali e letture disordinate che la rendono sempre più incerta. Impietoso il giudizio su di lei della Nonna Weatherwax: «una povera scema».
Streghe all’estero affronta direttamente la questione della magia: buona o cattiva? Può essere usata a fin di bene? La giovane Magrat riceve in eredità la bacchetta di una fata madrina capace di realizzare per davvero i desideri (o almeno dovrebbe: di fatto tramuta qualunque cosa in zucche arancioni). Le due “colleghe” più anziane non sono del parere di usarla, neppure a fin di bene. Non solo perché non è possibile adoperare la magia “solo per un poco”, ma soprattutto perché «non si può aiutare la gente con la magia. Non nel modo giusto». Al loro punto di vista si contrappone quello della strega Lilith – e il riferimento al mondo del demoniaco è immediato, fin dalla scelta del nome – colei che non si limita ad augurare la felicità, ma impone alle persone la felicità che secondo lei è migliore per loro. Tramuta le vite comuni in favole: da Cappuccetto Rosso al Mago di Oz, dalla bella Addormentata a Cenerentola, ella distorce le esistenze pur di realizzare l’happy end che desidera. Travestita da luminosa benefattrice, Lilith è di fatto una dittatrice che tiene lo specchio davanti alla Vita, e taglia via tutte le parti che non entrano. La città che ha plasmato a propria immagine e somiglianza – incarcerando i giocattolai che non fischiettano e gli osti che non sono abbastanza grassi – è un incubo di felicità coatta molto simile al campo di concentramento di Theresienstadt, dove i detenuti erano obbligati a dimostrare che stavano bene. «Il lieto fine – conclude Nonna Wheaterwax – va benissimo, se poi loro sono veramente felici[…] Solo gli altri possono costruire un mondo migliore per se stessi. Altrimenti è solo una gabbia». E il progresso? Non è qualcosa di più reale delle favole e più misurabile delle storie? All’obiezione, Nonna Weatherwax scrolla le spalle: «Il progresso significa solo che i guai arrivano più in fretta».
Un assaggio dell’opera
Questo è Mondo Disco, che viaggia nell’universo sul dorso di quattro elefanti in piedi sul guscio della Grande A’Tuin, la tartaruga celeste.
Un tempo un tale universo sarebbe stato considerato insolito, magari impossibile.
Ma in effetti… un tempo le cose erano molto più semplici.
Perché l’universo era pieno di ignoranza e lo scienziato vi si aggirava, chino come un cercatore d’oro sul ruscello di montagna, in cerca del tesoro della conoscenza tra la ghiaia dell’irrazionalità, la sabbia dell’incertezza e le piccole cose baffute a otto zampe della superstizione.
Di tanto in tanto si alzava e diceva cose del tipo: “Urrà, ho appena scoperto la Terza Legge di Boyle!”. E tutti sapevano a che punto si trovavano. Ma il problema fu che l’ignoranza divenne più interessante, specie quella grossa e affascinante ignoranza su questioni enormi e importanti, come la materia e la creazione, e la gente smise di costruire pazientemente le piccole casette di stecchini razionali e cominciò a interessarsi al caos: in parte perché era molto più facile essere esperti di caos, ma soprattutto perché offre ottimi spunti per i disegni sulle magliette.
E invece di occuparsi di vera scienza gli scienziati all’improvviso si misero a dire che non si poteva conoscere nulla, e che non c’era nessuna realtà d
a conoscere, e che tutto questo era tremendamente eccitante, e tra parentesi, lo sapevate che forse ci sono un sacco di piccoli universi ovunque, che non si vedono perché sono ripiegati su se stessi? Tra parentesi, non sarebbe una cosa favolosa da mettere su una maglietta?
A confronto di tutto questo, una grossa tartaruga con un mondo sul dorso è praticamente una cosa terra-terra. Quanto meno non finge di non esistere, e nessun abitante di Mondo Disco ha mai nemmeno tentato di dimostrare che non esiste, per paura di avere ragione e trovarsi a fluttuare nel vuoto. Questo perché Mondo Disco esiste proprio sull’orlo della realtà. Basta un nonnulla per passare dall’altra parte. Perciò, su Mondo Disco, la gente prende tutto molto sul serio.
Come le storie.
Perché le storie sono importanti. Si crede che sia la gente a creare le storie. In realtà è il contrario.
Le storie esistono indipendentemente dai loro personaggi. La conoscenza di questo fatto è potere.
Le storie, grandi nastri svolazzanti di spazio-tempo, sventolano e si srotolano nell’universo fin dall’inizio dei tempi. E si sono evolute. Le più deboli sono morte. Le più forti sono sopravvissute e sono ingrassate a forza di racconti… storie che fluttuano nell’oscurità.
E la loro esistenza maschera uno schema, vago ma insistente, che attraversa il caos: la Storia. Le storie scavano solchi profondi al punto che le persone li seguono, come l’acqua segue certi percorsi giù dai fianchi delle montagne. E ogni volta che dei nuovi attori percorrono il sentiero della storia, il solco si fa più profondo.
Questa è nota come teoria della causalità narrativa: vale a dire che una storia, una volta iniziata, prende forma. E raccoglie tutte le vibrazioni delle altre versioni di quella storia mai prodotte.
Ecco perché la Storia non fa che ripetersi.
E così mille eroi hanno rubato il fuoco agli dèi. Mille lupi hanno mangiato la nonna, mille principesse sono state baciate. Un milione di attori ignari hanno agito, inconsapevoli, lungo i sentieri della storia.
Ormai è impossibile per il terzo figlio di un qualsiasi re imbarcarsi in un’impresa già tentata dai suoi fratelli maggiori, e non riuscire.
Alle storie non interessa chi ne fa parte. Importa solo che la storia venga raccontata, e che si ripeta. Oppure, se preferite porla in altri termini: le storie sono una forma di vita parassitaria, che corrompe le vite in funzione di se stessa.
Bisogna essere dei tipi speciali per opporvisi, e diventare il bicarbonato della Storia.
C’era una volta…
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*Paolo Pegoraro (Vicenza, 1977) si è laureato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in Letterature comparate presso l’Università “La Sapienza” di Roma. Collabora da anni alle pagine culturali di numerose riviste, tra cui L’Osservatore Romano, La Civiltà Cattolica e Famiglia Cristiana.