Il futuro dei “laici” nella Chiesa

Intervista a Piergiorgio Liverani

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di Antonio Gaspari

ROMA, mercoledì, 8 giugno 2011 (ZENIT.org).- Con il Concilio Vaticano II, i laici hanno assunto un ruolo sempre più rilevante all’interno della parrocchia e delle comunità cattoliche.

La crescita e l’espansione dei nuovi movimenti ecclesiali è un esempio evidente di come i laici possano testimoniare efficacemente la loro fede.

Per cercare di spiegare la storia valutare quale sarà il futuro dei laici all’interno delle comunità cattoliche, Piergiorgio Liverani, già direttore di Avvenire, ha scritto un libro dal titolo “Diventare laici. Alla scoperta della vocazione smarrita”.

Pubblicato dalla San Paolo il volume intende riportare il laico al centro della Chiesa e del mondo, come indicato sapientemente dalla Lumen Gentium e dalla Gaudium et Spes.

Il libro vorrebbe indicare come si entra nella pienezza della laicità cristiana e suggerire l’itinerario per raggiungerla, perché “il cristiano laico possa vivere con gioia la propria condizione nella Chiesa”.

Per approfondire un tema di così grande interesse, ZENIT ha intervistato Piergiorgio Liverani.

Perché questo libro?

Liverani: Non voglio accusare nessuno né, tanto meno, esprimere giudizi su qualcuno, ma constato il fatto che la grande massa dei laici cristiani non sa che cosa significhi oggi essere laici nella comunità cristiana. Se si fanno salve alcune associazioni, manca nella vita della Chiesa una attenzione particolare – per così dire – a coltivare nei fedeli la laicità e la consapevolezza di essere laici. La definizione di “laicità” è semplice e chiara, ma ben pochi la insegnano spiegando qual è la condizione dei laici nella Chiesa e che essi non sono tali perché non siano divenuti presbiteri o religiosi e religiose, ma per un preciso disegno di Dio diverso, ma analogo alle altre condizioni cristiane. Né insegnano, di conseguenza, quali sono i loro compiti, i loro doveri e i loro diritti, quale sia la loro specifica spiritualità e, infine, quali i rapporti reciproci fra essi e i preti, i frati, le suore.

Ma, allora, che cosa significa essere laici oggi nella comunità cristiana?

Liverani: Significa essere consapevoli non soltanto di essere battezzati e, quindi, salvati dal sacrificio di Cristo, ma anche di avere nella Chiesa e nella società un posto, una collocazione molto precisa. Cercherò di riassumere la definizione di laico che il Concilio Vaticano II, dà nel più importante fra i suoi documenti: la Costituzione dogmatica sulla Chiesa “Lumen gentium”. Laici sono quei fedeli che, divenuti parte del corpo mistico di Cristo col battesimo e, quindi, resi partecipi del sacerdozio “comune” (cioè non ministeriale) e degli “uffici” profetico (cioè di annuncio) e regale (cioè di servizio) di Cristo e, grazie alla loro «propria e peculiare indole secolare […] per loro vocazione cercano il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio». I laici «vivono nel secolo» e in esso sono chiamati a santificare se stessi e tutta la realtà del mondo…

Il termine laico è molto equivocato e spesso confuso con il laicismo anticlericale. Ci aiuta a capire il significato vero di questo termine?

Liverani: Il nome di “laico” è parola eminentemente cristiana, che però ci è stata “rubata” da quello che giustamente lei chiama “laicismo”. In primo luogo la laicità è stata definita da Cristo quando distinse il campo di Cesare da quello di Dio. In secondo luogo la parola “laico”, che non esisteva nell’ebraico, fu inventata da san Clemente, quarto Pontefice, ricavandola dal greco “laòs”, che significa popolo. Papa Clemente la usò, tra la fine del primo e l’inizio del secondo secolo, in una lettera alla Chiesa, sempre turbolenta, di Corinto, per distinguere i fedeli (i laici) dal clero (kleros, in greco) e indurli all’obbedienza ai Pastori, gli episcopi. Con l’Illuminismo s’iniziò una aperta contestazione della Chiesa e gli illuministi applicarono a se stessi il nome di laico per definirsi estranei alla Chiesa, identificata come tale soltanto nella sua Gerarchia e non nel popolo di Dio. Quindi negli ambiti politico e culturale non o anti-cristiani la definizione di laico è sostanzialmente abusiva e ci dovrebbe essere restituita.

Al Concilio Vaticano II si è molto discusso del ruolo che i laici cattolici devono avere per la nuova evangelizzazione e il rinnovamento della comunità cristiana. Cosa può dirci in proposito?

Liverani: I laici hanno i medesimi doveri del clero e dei religiosi di annunciare, testimoniare e celebrare la fede con tutto quello che ciò significa. Ciascuno lo farà nel suo modo proprio, come accennavo nelle risposte alle sue prime due domande e tenendo conto, ovviamente, delle responsabilità rispettive, specifiche e reciproche. La nuova evangelizzazione – dicono i Lineamenta del prossimo Sinodo dei Vescovi convocato su questo tema – è il coraggio di ogni cristiano di «osare sentieri nuovi, di fronte alle mutate condizioni dentro le quali la Chiesa è chiamata a vivere oggi l’annuncio del Vangelo». E ancora è la capacità dei cristiani di leggere e decifrare i sempre nuovi scenari della storia degli uomini, per “abitarli” e trasformarli in luoghi di testimonianza e di annuncio del Vangelo». Quest’ultimo compito è con tutta evidenza tipico dei laici, i quali entro quegli scenari vivono, lavorano, amano, soffrono, gioiscono e possono condurre all’altare, dove il presbitero presiede l’Eucaristia, le loro fatiche, le loro necessità e anche le loro intuizioni apostoliche

Il suo libro si apre con un’indicazione: “Alla riscoperta della vocazione smarrita”. Può spiegarci qual è la vocazione per i laici?

Liverani: Molti ancora parlano o addirittura credono che la vocazione sia cosa esclusiva dei preti e dei religiosi e religiose e che la condizione laicale sia, di conseguenza, residuale: “Io non ho avuto la vocazione…”. Al contrario, Dio chiama tutti all’apostolato e alla santità, per le quali il Concilio parla do una «universale vocazione». Dio farebbe un’ingiustizia se ponesse il suo dito e i suoi progetti soltanto sul capo di quei pochi chiamati che sono i preti, i frati, le suore. I fedeli – e qui è lo scopo del mio libretto – debbono trasformarsi da battezzati in laici autentici. Parafrasando Tertulliano (“Fiunt, non nascuntur christiani”), si può dire che «laici non si nasce, ma si diventa ascoltando una chiamata e compromettendosi con una risposta». Questo voleva dire Giovanni Paolo II quando, nella Christifideles Laici, scriveva: «La formazione dei fedeli laici ha come obiettivo fondamentale la scoperta sempre più chiara della propria vocazione e la disponibilità sempre più grande a viverla nel compimento della propria missione». Per adoperare un’espressione del Beato Pontefice, dobbiamo augurarci che i laici “diventino quello che sono”

Alcuni sostengono che si può essere laici senza vocazione. Che ne pensa?

Liverani: Penso che costoro non siano stati capaci di ascoltare la loro chiamata, magari per distrazione o per una catechesi fino a ieri carente in questa materia, ma oggi molto esplicita. Come dice il primo Libro dei Re, «il Signore non era nel vento, non era nel terremoto, non era nel fuoco, ma era nel mormorio di un vento leggero». Bisogna essere educati a sentirlo. Quel vento leggero è la voce di Dio che chiama o che invita a ritrovare la vocazione che oggi possiamo dire troppo spesso smarrita o non identificata. Se davvero fosse possibile essere cristiani senza vocazione, forse non si sarebbe neppure cristiani.

Qual è il percorso spirituale e formativo che lei indica per realizzare il progetto speciale che il Signore ha per ognuno di noi?

Liverani: Bisogna seguire due strade. La prima è quella di una catechesi sulla vocazione universale e sp
ecificamente su quella alla laicità, che dovrebbe iniziarsi già con la prima Comunione e la Cresima, ed essere poi rilanciata sia nella preparazione al matrimonio sia nella catechesi prebattesimale per i genitori: tutte grandi occasioni anche di “sacerdozio comune”. Il secondo percorso è strettamente personale: occorre porsi in ascolto di quella brezza leggera, senza scoraggiarsi se non la si sente, perché in generale la si percepisce a cose fatte. Voglio dire che ci si sente chiamati, per esempio, al matrimonio dopo essersi sposati e così anche il sacramento assume per gli sposi un’altra dimensione. Oppure dopo una scelta professionale, o qualche avvenimento importante: la nascita dei figli, una malati.Perfino la vedovanza – non è un’assurdità – può essere riconosciuta come una vocazione: si pensi all’Ordine delle vedove. Posso assicurare che quando un laico scopre la propria vocazione, la sua vita e il suo mondo cambiano significato.

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ZENIT Staff

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