di Paul Gunter, O.S.B.*
CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 1° giugno 2011 (ZENIT.org).- Nella forma ordinaria della Messa, la distribuzione della Comunione sotto le due specie è un’opzione che è diventata di uso quotidiano in molti Paesi e, sebbene non dappertutto, anche in Europa. L’Istruzione Redemptionis Sacramentum (RS), promulgata nel 2004, illustra il contesto di simile pratica: «Al fine di manifestare ai fedeli con maggior chiarezza la pienezza del segno nel convivio eucaristico, sono ammessi alla Comunione sotto le due specie nei casi citati nei libri liturgici anche i fedeli laici, con il presupposto e l’incessante accompagnamento di una debita catechesi circa i principi dogmatici fissati in materia dal Concilio Ecumenico Tridentino» (RS, n. 100).
Le lodevoli intenzioni spesso urtano contro la pietra d’inciampo catechetica ora menzionata. Senza dubbio, la Santa Comunione sotto le due specie illustra l’intenzione di Cristo, che noi mangiamo il suo Corpo e beviamo il suo Sangue. Tuttavia, il desiderio della Comunione sotto le due specie non sempre si è accompagnato con la fedeltà alle norme dei libri liturgici e con il supporto alla dovuta formazione, per evitare che ci fossero abusi nei confronti dell’Eucaristia o equivoci a livello dottrinale. Mentre molti hanno recepito che l’Eucaristia è «fonte e culmine» della vita cristiana, la trasmissione dei principi dogmatici del Concilio di Trento è stata spesso vista come fuori moda. L’Istruzione RS ha perciò affermato chiaramente che la coerenza con i libri liturgici e con gli insegnamenti di Trento è intrinseca alla «pienezza del segno».
RS rimuove ogni ambiguità circa la pratica eucaristica e «intende condurre a questa conformità dei sentimenti nostri con quelli di Cristo, espressi nelle parole e nei riti della liturgia» (RS, n. 5). Non di rado, l’essenziale deficit di consapevolezza eucaristica si rivela quando, per mancanza di formazione, i ministri straordinari della Comunione fanno riferimento al «distribuire il vino». Proprio questa terminologia suggerisce che il principio dogmatico di Trento non è stato assorbito all’interno del percorso di preparazione. Forse qualcuno ha potuto sentire parlare di «sostanza» e «accidenti» nel contesto della sua educazione religiosa passata, ma magari deve aver pensato che, nel frattempo, in qualche modo la Chiesa è andata avanti. Per le generazioni moderne, il Concilio di Trento potrebbe non essere stato neppure citato all’interno della formazione dottrinale, la quale invece sottolinea che «il popolo può ricevere il Corpo senza il Sangue, senza che ne derivi alcun inconveniente, perché il sacerdote offre e consuma il Sangue a nome di tutti; inoltre perché […] in ciascuna delle due specie Cristo è contenuto per intero» (san Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, III, q. 80, a. 12, ad 3). Perciò, sotto la specie del pane è presente anche, per «concomitanza», il preziosissimo Sangue.
Lo scopo, allora, di ricevere la Santa Comunione sotto le due specie non è che i fedeli ricevano più grazia di quando comunicano sotto una sola specie, bensì che essi siano messi nella condizione di apprezzare al vivo il valore del segno. È triste constatare che questa distinzione non sempre è stata fatta chiaramente e perciò alcuni, quando non si è offerta loro la Comunione sotto entrambe le specie, hanno manifestato un senso di perplessità, persino di violazione di un loro diritto, o almeno la percezione che la Santa Comunione sotto una sola specie fosse, in qualche misura, mancante.
Le conferenze episcopali e i vescovi diocesani, in particolare, hanno un ruolo chiave a livello locale, nell’assicurare che la Santa Comunione sia distribuita con riverenza ed evitando ogni fraintendimento. RS al n. 101 dice con chiarezza che va evitato anche il più piccolo pericolo che le specie consacrate siano profanate. E il n. 106 manifesta preoccupazione a riguardo di «qualunque cosa che possa risultare irrispettosa di così grande mistero». Mentre le parole «profanazione» e «irrispettoso» indicano diversi livelli di abuso eucaristico, entrambi i livelli sono però menzionati espressamente, affinché siano evitati. Bisogna avere ogni cura per evitare, ad esempio, la condivisione del calice lì dove le circostanze creano ambiguità nella ricezione, oppure la situazione logistica non garantisce la sicurezza di quanto in esso è contenuto. RS al n. 102 ricorda ancora che, lì dove non si può stimare la quantità di vino da consacrare in una celebrazione, a motivo della presenza di un gran numero di fedeli, il calice non va condiviso. Anche metodi alternativi, quali l’uso di un cucchiaio o di una cannuccia, potrebbero essere ugualmente difficili da auspicare, lì dove simili modalità non facessero parte dell’uso locale. Per quanto riguarda, poi, la Comunione per intinzione, si stabilisce: «Non si permetta al comunicando di intingere da sé l’Ostia nel calice, né di ricevere in mano l’Ostia intinta» (RS, n. 104).
Le prossime traduzioni della terza edizione del Messale Romano rappresentano – come hanno scritto le conferenze episcopali di Inghilterra e Galles, in una lettera pastorale congiunta di questo mese – «un momento di grazia speciale». C’è da sperare che anche l’auspicata catechesi approfondita sulla Messa ritorni sulla mentalità e sul modo con cui è ricevuta la Santa Comunione. Sembra restrittivo suggerire che la Comunione ricevuta con fervore sotto una sola specie è più fruttuosa di una Comunione tiepida ricevuta sotto entrambe, quando obiettivi concreti rivolti alla formazione dottrinale, alla cura e riverenza nella celebrazione liturgica, e la previdenza organizzativa potrebbero fare davvero tanto per riconoscere e affrontare le sfide che sono emerse. Il salmista dichiara l’imperativo di tale catechesi in profondità: «Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alle generazioni future le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto» (Sal 78,3-4). Sant’Ambrogio svela ciò che gli uomini di fede ottengono da questa conoscenza: «Perché ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo di questo calice, proclamiamo la morte del Signore. Se proclamiamo la morte del Signore, proclamiamo il perdono dei peccati. Se, ogni volta che il suo Sangue viene sparso, esso è sparso in remissione dei peccati, io devo sempre riceverlo in modo che esso possa rimettere i miei peccati. Siccome io pecco sempre, dovrei sempre ricevere la medicina» (De sacramentis, IV, 6, 28: PL 16, 464).
[Traduzione dall’inglese di don Mauro Gagliardi; il prossimo articolo della rubrica sarà pubblicato il 15 giugno]———
* Padre Paul Gunter, O.S.B., è professore al Pontificio Istituto Liturgico di Roma e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.