ROMA, mercoledì, 20 aprile 2011 (ZENIT.org).- Per la prima volta dopo 34 anni di interruzione, un treno ha varcato le soglie del Vaticano. Era il 24 gennaio 2002. La stazione vaticana non era fornita di corrente elettrica, per cui è stato attivato un treno particolare a locomotiva per trascinare il treno del Oapa fino alla prima stazione elettrica a Roma che dista circa due kilometri.
Furono disposte sei carrozze per trasportare il Papa e i suoi ospiti – ed ero uno di loro – ad Assisi, alla tomba di san Francesco, il primo cristiano che ha fatto un dibattito teologico con gli ulema musulmani. Accadde durante le guerre dei franchi – le crociate – in Dumiat, Egitto. Ed è probabilmente per questo motivo che il Papa defunto scelse proprio Assisi per lanciare nel 1986 la sua iniziativa mondiale di dialogo tra le religioni. E da lì volle anche consacrare quell’iniziativa nel 2002. E il Papa attuale, Benedetto XVI, sta preparando al momento un incontro di dialogo in memoria di quell’iniziativa.
Da Assisi, Giovanni Paolo II lanciò il suo appello all’umanità intera affermando che «ristabilire appieno l’ordine morale e sociale infranto, richiede la congiunzione fra la giustizia e il perdono, perché i pilastri della vera pace sono la giustizia e quella particolare forma dell’amore che è il perdono». E ispirandosi al profeta Isaia, disse che «la pace in verità è far valere la giusitizia».
Secondo il Papa defunto «il terrorismo è figlio di un fondamentalismo fanatico, che nasce dalla convinzione di poter imporre a tutti l’accettazione della propria visione della verità. La verità, invece, anche quando la si è raggiunta — e ciò avviene sempre in modo limitato e perfettibile — non può mai essere imposta. Il rispetto della coscienza altrui, nella quale si riflette l’immagine stessa di Dio consente solo di proporre la verità all’altro, al quale spetta poi di responsabilmente accoglierla. Pretendere di imporre ad altri con la violenza quella che si ritiene essere la verità, significa violare la dignità dell’essere umano e, in definitiva, fare oltraggio a Dio, di cui egli è immagine».
La prima volta che incontrai Giovanni Paolo II fu nel 1987 durante la visita ufficiale a Malta. Era la prima volta che un Papa visitava quell’isola-nazione. In quel momento stavo partecipando a un convegno internazionale nella capitale La Valletta. L’Arcivescovo della città mi presentò al Papa assieme agli altri partecipanti che provenivano sia da Paesi arabi che da Paesi occidentali. Non appena l’Arcivescovo pronunciò il mio nome e la nazione da cui provenivo, il Papa prese la mia mano tra le sue e mi disse: «dal Libano?… e cosa state facendo per il Libano?» e la mia risposta immediata fu: «Cosa state facendo voi per il Libano?». In quel periodo, la guerra civile libanese era in una delle sue fasi più distruttive. Le vittime cadevano per le strade, le case crollavano dalla violenza dei bombardamenti, e le fattorie bruciavano con quanto contenevano di bestiame e di raccolti.
Il Papa fu sorpreso dalla mia risposta, e un po’ rosso in volto mi disse: «vedrà cosa faremo per il Libano… figliolo, il tempo non è opportuno per dire di più». Sette anni dopo quest’incontro, nel 1994, fu convocato in Vaticano il Sinodo speciale per il Libano voluto dal Papa che aveva insistito perché vi partecipassero rappresentanti di tutte le confessioni musulmane in Libano, e non soltanto come osservatori, ma come partecipanti veri e propri. Tale invito fu una novità assoluta nella storia dei Sinodi convocati in Vaticano. Nessun musulmano era mai stato invitato prima a partecipare ad un Sinodo particolare per l’Asia o per l’Africa.
Nella seduta d’apertura, mi avvicinai al Papa e gli domandai: «Si ricorda della conversazione di Malta?»
Mi chiese: «quale conversazione?»
Risposi: «quella sul Libano».
E improvvisamente, i suoi occhi brillarono, mi strinse la mano e mi disse: «è lei! Non mi ricordo però il suo nome. Mi perdoni. Però, non mi sono mai dimenticato di quella rapida conversazione. Sono molto felice della partecipazione musulmana al Sinodo. E sono felice che proprio lei sia qui con noi».
Il Sinodo per il Libano è durato un mese intero, e io vi ho partecipato per tre settimane, durante le quali mi incontravo due volte al giorno con il Papa, una volta la mattina e un’altra nel pomeriggio. In tutte quelle occasioni mi mostrò grande affetto e affabilità. Durante una cena privata nel suo appartamento in Vaticano, eravamo otto persone soltanto, rimasi sorpreso da una nobilissima iniziativa del Papa che insistette perché la cena fosse accompagnata solo da acqua e da succo d’arancia per rispetto alla nostra sensibilità islamica.
E durante un venerdì del Sinodo, inviai una nota scritta al segretario generale del Sinodo, il Cardinale Scott, informandolo che avrei abbandonato la sala sinodale per recarmi alla moschea di Roma per la preghiera del venerdì, chiedendo che la mia assenza dagli incontri di quel giorno non venisse fraintesa. Il Cardinale annuì esprimendo il suo consenso, ma poi subito ritenne opportuno condividere il contenuto della nota con il Papa che era seduto accanto a lui, e dopo un breve scambio di parole con il Santo Padre, si avvicinò al microfono e informò i presenti del contenuto della nota, aggiungendo: «Il Santo Padre auspica che i nostri ospiti musulmani (ed eravamo tre, il giudice Abbas Halabi rappresentante della confessione drusa, il dottor Saed El-Maula rappresentante del supremo consiglio sciita ed io) preghino per la buona riuscita del Sinodo».
Fu un gesto inaudito da tutti i punti di vista. Il Papa, capo della Chiesa cattolica, che chiede a un musulmano di pregare per la buona riuscita di un incontro cristiano in svolgimento in Vaticano sotto la presidenza dello stesso Papa e alla presenza di numerosi Cardinali, Patriarchi e Vescovi!!
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*Mohammad Al-Sammak è Consigliere politico del Gran Mufti del Libano.
[Traduzione dall’arabo di Robert Cheaib]