di Mariaelena Finessi
ROMA, lunedì, 28 marzo 2011 (ZENIT.org).- Il carcere per i ragazzi che hanno commesso reati è ormai un'extrema ratio dopo la riforma del codice di procedura penale minorile del 1988. Eppure, gli Istituti penali per minorenni (IPM) sono, molto più che quelli per adulti, dei contenitori di marginalità sociale dove finiscono solo stranieri, rom e ragazzi del Sud. Sono queste le conclusioni dell'associazione Antigone che ha redatto il "Primo rapporto sugli istituti penali minorili". Un dossier che racconta di un sistema che funziona bene, sì, ma non per tutti.
I dati sono eloquenti: l'associazione mette a confronto le denunce, gli ingressi nei 27 CPA (centri di prima accoglienza, che ospitano i minorenni fino a 96 ore dopo l'arresto) e le presenze nei 19 Istituti penali sparsi sul territorio italiano. I numeri condannano gli stranieri: minoranza tra i denunciati, maggioranza in carcere. Padre Gaetano Greco, cappellano da trent'anni al carcere minorile di Casal del Marmo a Roma spiega, in questa intervista rilasciata a ZENIT, perché accade ciò che a tutti sembra essere una contraddizione.
Dal 1998 al 2010 i minori stranieri che infrangono le regole sono diminuiti del 60%, eppure c'è una sovrarappresentazione nei cosiddetti "luoghi di privazione della libertà", dove finiscono con l'eguagliare se non addirittura superare la componente dei minori italiani. Può spiegarne il senso?
Padre Greco: Il fatto è che i minori stranieri non usufruiscono di tutta la agamma delle pene alternative al carcere. Ad esempio, non avendo molto spesso una famiglia alle spalle qui in Italia, non possono tornare nelle proprie abitazioni oppure quando usufruiscono della comunità, vi si allontanano e allora i magistrati tendono a non concedere una seconda volta questo genere di misura, confermando per loro la pena detentiva.
Qual è la composizione dei minori nell'Istituto penale minorile di Casal del Marmo, dove lei è cappellano? Antigone spiega nel dossier che i ragazzi sono in maggioranza rom e che, quando sono italiani, provengono dalle periferie delle grandi città del Sud.
Padre Greco: Anche a Roma la maggioranza, è vero, è fatta di stranieri, perlopiù rom della Romania. C'è però un nuovo elemento, ossia il ritorno massiccio degli italiani in carcere, anche qui – ipotizzo – per via del non rispetto delle misure alternative da parte dei ragazzi che si allontanano dalla comunità alla quale sono stati assegnati. Che siano invece del Sud questo non lo condivido, a meno che intendiamo i migranti meridionali di lungo corso, non certamente degli ultimi anni. E che provengano dalle periferie delle città, questo sì. Specie quelle difficili e degradate, come è Tor Bella Monaca a Roma, o l'ex Bastogi o il Laurentino 38.
Padre, su chi pensa debbano ricadere le responsabilità dello sbandamento dei giovani?
Padre Greco: Viviamo una situazione nuova, forse inaspettata ma è ciò che accade quando non ci si assume la responsabilità delle proprie azioni, dei propri gesti. Il nodo fondamentale è la deresponsabilizzazione degli adulti, comprese le agenzie di formazione, che ad un certo momento hanno cominciato a sentire di meno il senso della propria missione e del proprio ruolo nei confronti dei ragazzi, lasciandoli in balia delle proprie fragilità.
È dunque vero che c'è una contrazione del volontariato in carcere?
Padre Greco: Dando per assodato e consolidato ciò che di buono è stato fatto e continua a farsi, non può essere negata una minore attenzione verso i ragazzi detenuti. È anche questo un aspetto di una società che vive una profonda crisi valoriale, dove a prevalere sono gli egoismi. Riemerge dunque oggi un elemento che è proprio dell'uomo a cui è venuto meno il senso di appartenenza ad una collettività.
È l'emergenza educativa di cui parla più volte Benedetto XVI, come ad esempio nella Lettera inviata nel 2008 alla diocesi e alla città di Roma, nella quale scrive che la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa è la «crisi di fiducia nella vita» o, come scrive al cardinale Bagnasco, presidente della Cei, nell'ottobre 2010, là dove si riconosce la «fatica di tanti adulti nel concepirsi e porsi come educatori».
Padre Greco: Esatto. Questo documento ha illuminato una realtà che molti non hanno voluto vedere. Il cardinale Bagnasco ha fatto suo l'appello del Santo Padre e la Cei ne ha preso atto nel redigere il documento conclusivo della 46esima Settimana sociale. E così nei prossimi dieci anni l'impegno della Chiesa, e mi auguro della società tutta, andrà in questa direzione: ridare vigore alla formazione. L'augurio è che ciascuno di noi si senta responsabile e provi a porre rimedio al degrado educativo in cui siamo caduti. Lo dobbiamo ai ragazzi, questo è ovvio, ma anche della nazione. In fondo sono loro il nostro futuro.
In Italia, i tagli ai finanziamenti alla scuola hanno inficiato i progetti educativi di diversi istituti penali minorili, come ad esempio quello fiorentino che, in mancanza di fondi, non avrebbe potuto attivare i corsi di scuola media se il Comune non avesse dirottato sull'IPM diverse ore della scuola “Leonardo da Vinci”, garantendo così, almeno per quest'anno, la scuola media a tempo pieno. È stato così anche a Roma?
Padre Greco: Su Roma no, questo non è accaduto ma i disagi sono stati avvertiti in altri campi, ad esempio in quello sanitario con il trasferimento di tutte le competenze in tema di medicina penitenziaria dal ministero della Giustizia alle Regioni e quindi alle ASL del Servizio Sanitario Nazionale. Ci sono enormi ritardi nell'applicazione concreta di questo passaggio di testimone, ostacolato da una carenza cronica di risorse.
In una condizione così drammatica, ai ragazzi viene garantito il sostegno spirituale o religioso?
Padre Greco: A livello normativo, ciascuno ha diritto all'assistenza spirituale secondo i dettami della propria religione. Per quel che mi riguarda da cappellano cattolico io mi rivolgo a tutti, a prescindere da ogni altra considerazione. Con i ragazzi ho stretto un rapporto di fiducia, che cerco di non infrangere per quel che mi è possibile. La felicità sta nel vederli partecipare tutti alla preghiera che proponiamo, liberi di scegliere se farla o meno. Perché vengano, questo non so dirlo. Posso provare ad ipotizzare che sia la conseguenza delle attenzioni che ho per ciascuno di loro. Un ragazzo addirittura mi ha confidato di aver chiesto di entrare nella comunità che gestisco perché una volta mentre era intento a pulire il viale, passando di lì gli augurai una buona giornata di lavoro. Tanto bastò a farlo sentire utile a qualcosa o a qualcuno. Quando ti sbattono la porta dietro le spalle, le piccole attenzioni possono costruire le più grandi cose.
Alcuni politici, credendo di arginare il dramma dei minori in carcere hanno discusso della possibilità di abbassare l'età della imputabilità dei ragazzi che infrangono le regole, dai 14 ai 12 anni. Lei cosa ne pensa?
Padre Greco: È un'aberrazione. Il successo dell'attuale legge, pur nella sua incompletezza, ha salvato la realtà minorile. Quando sono arrivato qui trent'anni fa il carcere era stracolmo di ragazzi. Oggi ce ne sono 25 nella sezione maschile e tre in quella femminile. Ciò vuol dire che questa legge ha portato buoni frutti. Come si fa, oggi, a proporre una cosa simile, specie dopo essersi espressi negando la maturità dei ragazzi, chiamandoli fannulloni e bamboccioni? Già a 14 anni li vedo spauriti. Non oso immaginare in un bambino di 12 anni quali danni permanenti possa creare l'esperienza del carcere, vedersi strappato agli affetti, alla scuola, essere accompagnato con l'auto delle forze dell'odine, trovarsi davanti ad un giudice. Traumi troppo grandi per poter essere rimarginati. Sono dunque felice che la proposta non sia passata e mi auguro che non venga mai più rilanciata.
Qual è allora a suo avviso il modo più giusto per far sì che sempre meno ragazzini finiscano dietro le sbarre?
Padre Greco: La legge già prevede azioni volte a ridurre il più possibile il danno, abbassando i tempi del procedimento penale e offrendo misure alternative alla detenzione. Ciò che può e deve essere ancora fatto è ridare valore, torno a ripeterlo, alla formazione. E, ancora una volta, alla cultura. Perché non sono i magistrati a dover scrivere le tappe formative dei giovani. Non sono loro a dover insegnare ai ragazzi il senso della vita.