ROMA, lunedì, 31 gennaio 2011 (ZENIT.org).- La osservo avanzare lentamente, fare un lieve inchino, presentarsi all’ambone. “Lettera di san Paolo…”. Maria, emigrata già dagli anni ’60, inizia a leggere, ma solo dopo un lunghissimo respiro. Non legge, proclama. Lentissimamente. Pronuncia una parola dopo l’altra, articolandola come se dovesse raccontare qualcosa a un bambino con un’inflessione, un respiro e un ritmo senza tempo, sospesi nell’aria. Non c’è assolutamente fretta o voglia di concludere. Ogni parola per un bambino è come una finestra che illumina un avvenimento, un sentimento o un’emozione dentro. Sarà importante, allora, prendersi il tempo di affacciarsi.
Per san Paolo ogni parola è un messaggio, come un frutto gonfio di vita rivolto a una comunità riunita. Maria si ferma ogni tanto con un silenzio interminabile. Benefico. “Ogni parola autentica nasce dal silenzio e dal silenzio è custodita”. Pare quasi di capire che ogni parola dell’apostolo è scavata nell’abisso della sua anima, nell’esperienza di lotta di un essere itinerante, migrante come lei. Come lui. Ma c’è anche l’amore alla nostra lingua. Nel mare di un’altra che all’estero ti circonda, la lingua materna è una terra di salvezza. Un incontro con quello che eri una volta, la tua origine stessa.
Pare di ascoltare da lei la lettera di un figlio che scrive dal fronte. Ogni parola viene pesata, sollevata, guardata e riguardata, gustata fino in fondo. È Paolo di Tarso dal fronte delle prime comunità e dello Spirito che le anima. Comunità raccolte da lui, ma fatte di mille pezzi diversi che Paolo amava come colei che le genera, come una madre. E assomigliano tanto alla nostra comunità di oggi, fatta di calabresi e di friulani, di gente del sud e del nord messi insieme, con qualcuno del posto. Guardo con stupore questa assemblea composita di emigranti della nostra terra, che proprio qui assaporano la parola “unità” e “comunione” in nome di Dio.
E così penso al disagio che provo, a volte, nel rientrare al paese, alla mia parrocchia, e vivere precisamente l’inverso. La Parola di Dio in una celebrazione sembra qualcosa di letto velocemente, come una vecchia poesia che si impara a scuola e si ripete meccanicamente. Sembra quasi una parola che scivola via senza sapore, senza amore. Non vi avverti la fibra dell’apostolo. Il fuoco dello Spirito. Non vedi l’ansia o i mille volti di un popolo di Dio finalmente riunito. Sono i nostri, semplicemente. E per di più con lo stesso pastore da tantissimi anni.
Penso, allora, alla Parola di Dio vissuta qualche tempo fa in terra africana. Dopo il canto, i tamburi, le voci, le mani, il loro ritmo con due colpi e due pause, un lunghissimo grido corale si alzava al punto più alto e tutto, infine, si spegneva d’incanto. Si piombava subito in un silenzio perfetto, immobile. Una miriade di volti neri ti fissava, allora, dall’assemblea con gli occhi ben aperti. Lunghi momenti di attesa, mentre una vera emozione ti prende. Poi, la parola esce dal lettore. Viene offerta con gesto lento come gustandola prima, ruotandola nel palato, assaporandola. Parola calma, sonora e solenne. Vedi subito dagli occhi e dal silenzio come ognuno la riceve: la attende, la gusta, gli risuona nelle tempie, gli fa brillare lo sguardo, scende nell’anima, in profondità. Comprendi allora concretamente che cosa vuol dire una “civiltà della parola” come questa, africana. La parola qui è sacra. E sintesi di cuore, di corpo e di mente. E ancor più dell’amore di Dio, fattosi Parola lui stesso. Essa si posa nella vita di ognuno dopo l’ascolto e la penetra per darne forza, bellezza e coraggio.
E ciò mi fa pensare ancora a un missionario conosciuto all’estero e i gruppi biblici che organizzava di sera tra gli emigrati di Ciociaria. Ed era leggere, commentare e lasciare emergere ciò che essi stessi stavano scrivendo con la loro vita: il loro esodo e la loro resistenza, il coraggio e la fede vissuti in terra straniera, come gli ebrei sui fiumi di Babilonia. Era per il missionario stimolare l’un l’altro con un “sì, ma questo sei tu, Salvatore, raccontaci…”, oppure: “E quella volta cosa è capitato invece a te, Concetta, racconta…”. Faceva risorgere la Parola in tante storie vissute. In avvenimenti concreti e preziosi di malattie, di sorprese o imprevisti, alla maniera semplice e popolare dei nostri emigranti. Vedevi quanto straordinario era per loro prenderne coscienza. Comprendere, finalmente, la dignità della loro esistenza, “una storia sacra” scritta ai nostri giorni. Nelle lacrime, nelle gioie o nelle conquiste di gente che un giorno si era messa in cammino, essi avevano incontrato Dio. Senza saperlo.
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*Padre Renato Zilio è un missionario scalabriniano. Ha compiuto gli studi letterari presso l’Università di Padova, e gli studi teologici a Parigi, conseguendo un master in teologia delle religioni. Ha fondato e diretto il Centro interculturale di Ecoublay nella regione parigina e diretto a Ginevra la rivista “Presenza italiana”. Dopo l’esperienza al Centro Studi Migrazioni Internazionali (Ciemi) di Parigi e quella missionaria a Gibuti (Corno d’Africa), vive attualmente a Londra al Centro interculturale Scalabrini di Brixton Road. Ha scritto “Vangelo dei migranti” (Emi Edizioni, Bologna 2010) con prefazione del Card. Roger Etchegaray.