Immigrazione: problema o risorsa? (I)

Intervista a Giorgio Paolucci, caporedattore di “Avvenire”

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di Antonio Gaspari

ROMA, giovedì, 27 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Sono 5 milioni gli immigrati in Italia mentre secondo le stime delle Nazioni Unite sono 214 milioni nel mondo.

Le imprese e le industrie, soprattutto nei Paesi avanzati, stanno beneficiando dei giovani immigrati, ma sono sorti problemi di assimilazione con culture e religioni diverse nei Paesi ospitanti.

Il numero sempre più alto di immigrati e le conseguenti difficoltà in ambito sociale hanno suscitato un intenso dibattito sulle misure da prendere per regolare l’immigrazione. La parti si sono divise tra un approccio “assimilazionista” e uno “multiculturalista”.

Secondo la Commissione episcopale per le migrazioni della Conferenza Episcopale Italiana, i giovani immigrati sono insieme “risorsa e provocazione”. Possono rappresentare la promessa di un futuro in cui le diversità diventino un tesoro a cui attingere, piuttosto che una minaccia da cui difendersi.

Altri invece, preoccupati soprattutto dal diffondersi dell’estremismo islamico e dal fallimento di tanti anni di multiculturalismo, chiedono politiche restrittive.

Per cercare di fare il punto sulla situazione, e soprattutto per fornire una risposta che sia saggia e rispettosa dei diritti dei popoli e delle persone, Giorgio Paolucci, caporedattore centrale del quotidiano ‘Avvenire’, esperto di problematiche legate all’immigrazione, al dialogo interreligioso e alla convivenza tra le diverse culture, ha pubblicato il saggio: “Immigrazione. Un problema o una risorsa? La sfida della convivenza nel segno dell’identità arricchita”, edito da Viveren.

ZENIT lo ha intervistato.

In Italia ci sono 5 milioni di immigrati. Alcuni sostengono che sono troppi, altri che sono pochi. Qual è il suo parere in proposito?

Paolucci: I 5 milioni di immigrati che vivono in Italia sono il risultato di un processo lungo e articolato, che non può essere cancellato con un colpo di spugna. Molti lavoratori sono stati raggiunti in tempi successivi dal coniuge e dai figli (numerosissimi i ricongiungimenti familiari negli anni recenti). La maggior parte è frutto del combinato disposto tra la richiesta di manodopera scarsamente qualificata presente nel nostro mercato del lavoro e lasciata inevasa dagli italiani  (edilizia, agricoltura, lavoro familiare, assistenza agli anziani, ecc.) e la pressione migratoria presente nell’Europa dell’Est e in alcune aree dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina. In questo momento di crisi economica gli immigrati possono sembrare “troppi” perché anche tra di loro la disoccupazione morde, ma non dimentichiamo che nella maggioranza dei casi si tratta di persone che hanno messo radici da tempo nel nostro Paese. D’altra parte, questa situazione richiede una gestione molto attenta nella programmazione dei flussi di ingresso, per evitare che si scatenino guerra tra poveri.

Il governo italiano così come diversi governi europei ha varato severe misure di restrizione all’immigrazione. Lei cosa ne pensa?

Paolucci: Le restrizioni all’immigrazione sono dolorose ma necessarie perché il mercato del lavoro dei Paesi europei non è in grado di rispondere alla crescente domanda che proviene dal Sud del mondo, e per evitare che arrivi massicci e incontrollati di migranti mettano in crisi equilibri sociali e culturali che si sono (non senza problemi) consolidati nel tempo. Inoltre, in particolare in Italia, gli arrivi di molti irregolari rischiano di discriminare nei fatti gli stranieri che cercano di entrare seguendo i canali legali, inducendo molti a seguire scorciatoie illegali ma più fruttuose.

E quale è la posizione della Chiesa cattolica?

Paolucci: La Chiesa cattolica invita a guardare l’immigrazione nella sua complessità, a riconoscere il diritto all’emigrazione, nella ricerca di migliori condizioni di vita, e insieme la necessità di rispettare le leggi che i Paesi si danno per governare il fenomeno. E’ necessario avere uno sguardo largo ed aperto, riconoscendo l’esistenza di squilibri tra le aree povere e quelle ricche del pianeta che sono la vera molla delle migrazioni, come pure l’esistenza di motivazioni non strettamente economiche ma legate a guerre, persecuzioni e discriminazioni, che portano a chiedere asilo politico.

Al tempo stesso è necessario che la necessaria solidarietà e lo spirito di accoglienza si coniughino con il rispetto delle leggi e con la necessità di assicurare sicurezza a tutti, agli autoctoni come ai migranti. Il binomio accoglienza-legalità è la bussola di riferimento, il problema è come far convivere efficacemente questi due aspetti. La Chiesa propone dei criteri di riferimento, non è suo compito dettare normative specifiche. E a mio parere sbaglia chi pensa di derivare automaticamente dal Vangelo delle conseguenze operative sul piano normativo: questa è’ una forma di integralismo che non fa bene né agli immigrati, perché sconfina nell’utopia, né alla Chiesa, perché si rischia di strumentalizzare la Parola di Dio o i pronunciamenti del magistero pontificio, che hanno sempre ben presente la complessità del problema.

I modelli di integrazione degli immigrati adottati in Europa si stanno rivelando inadeguati. Perché?

Paolucci: Il vecchio continente è da tempo alla prese con un interrogativo di non facile soluzione: come realizzare una convivenza armonica con gli immigrati che hanno messo radici nel continente, e che spesso arrivano da terre lontane e sono portatori di diverse culture?

I modelli di integrazione finora adottati sono sostanzialmente due. L’assimilazionismo considera l’immigrato come una persona da omologare totalmente, relegando alla sfera privata anche i valori etici e religiosi. E’ un’impostazione che ha trovato la sua applicazione più esplicita in Francia, coniugandosi con i principi della laicité che dagli inizi del Novecento presiedono ai rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose. Questa prospettiva si è rivelata però inadeguata soprattutto nei confronti dei migranti di cultura islamica a causa della separazione tra sfera religiosa e sfera civile che essa impone. Non a caso il presidente Sarkozy è più volte intervenuto indicando una nuova prospettiva, quella della “laicità positiva”, che riconosce il ruolo che le esperienze religiose svolgono sia a livello individuale sia a livello sociale, nel quadro di valori condivisi.

Il multiculturalismo  è il modello adottato in Gran Bretagna e Olanda, e muove dalla convinzione che ogni comunità etnica o religiosa debba essere libera di organizzarsi a partire dalle proprie regole e tradizioni. Questo ha portato alla formazione di “pezzi” di società parallele e autoreferenziali con rapporti forti al loro interno ma deboli col resto del Paese. La comunità (razziale, etnica, religiosa) prevale sulla persona, e tutte le comunità e le regole da esse stabilite hanno pari dignità. Alla radice del multiculturalismo sta il relativismo culturale, che genera a sua volta il relativismo giuridico, cioè il tentativo di dare legittimazione sul piano legislativo alle diversità che caratterizzano ogni minoranza. Di qui, ad esempio, la moltiplicazione in Inghilterra dei “tribunali sharaitici” che applicano la legge islamica nei contenziosi di natura familiare e che hanno generato una sorta di giurisdizione parallela alla quale ricorre un crescente numero di musulmani. Si arriva così a una giustapposizione delle identità, all’approfondimento delle divisioni di partenza anziché a una loro conciliazione in nome di qualcosa che accomuni. E’, in ultima analisi, la negazione della logica dell’incontro a favore di quella di una coesistenza priva di rapporti significativi. Si favorisce la creazione di tante “riserve indiane” governate secondo logiche etnocentriche,  anziché di una società aperta, interdipendente e sostenuta da valori condivisi.

Sia il modello asssimilazionista sia quello multiculturalista si sono dimostrati inadeguati nel promuovere una r
eale integrazione delle comunità straniere nei Paesi in cui sono stati adottati.

E l’Italia, che non ha ancora elaborato un suo modello e ha finora più subìto che governato l’immigrazione, cosa può fare?

Paolucci: Bisogna anzitutto ricordare che l’Italia è una terra con un patrimonio di storia, cultura e tradizioni che hanno generato valori, consuetudini, codici giuridici che insieme costituiscono quella che viene comunemente chiamata identità nazionale. Questa identità non può peraltro essere concepita come qualcosa di statico e autoreferenziale, ma come una realtà aperta e in continuo divenire.

A livello dei rapporti sociali questo significa valorizzare la natura relazionale dell’uomo: la relazione più generativa è quella fondata sull’incontro di due diversità che si riconoscono e si completano.

Non si può perciò affermare una presenza prescindendo da ciò che la circonda e che in qualche misura contribuisce a plasmarla. L’altro mi è necessario per potermi compiutamente definire. Ogni vero vivere è incontrare. In fondo, non c’è “io” senza “tu”, e solo dall’incontro tra un “io” e un “tu” può nascere un “nuovo noi”, una nuova realtà che possiamo chiamare “identità arricchita”.

Agli immigrati che vogliono mettere radici in Italia va fatta una proposta forte di integrazione che parta dalla coscienza di ciò che siamo, della storia alla quale apparteniamo e da cui siamo stati generati, e che insieme sia capace di intercettare i contributi umani e valoriali che provengono da quanti si affacciano nel nostro Paese. Ma questo processo di scambio reciproco può diventare fecondo a condizione che parta dalla conoscenza e della condivisione di alcuni elementi che stanno alla base della convivenza civile. Chi punta a stabilirsi in Italia deve conoscerne la lingua e il patrimonio di storia, cultura, tradizioni che hanno “fatto”  questo Paese, oltre che rispettare le leggi che garantiscono un’armonica convivenza. Tutto ciò, si badi bene, non può venire considerata un’opzione tra le tante, ma è piuttosto una responsabilità che il migrante è chiamato ad assumersi e che le istituzioni pubbliche devono fare in modo che venga effettivamente esercitata, mettendo in campo tutti gli strumenti necessari a questo fine.

Non è sufficiente, dunque, l’approccio “interculturale” che oggi sembra andare per la maggiore nel nostro Paese?

Paolucci: Sarebbe irrealistico pensare che la convivenza si possa organizzare a partire da una semplice “mescolanza” delle identità, come sostengono alcuni alfieri della cosiddetta prospettiva “interculturale”. Essa richiede una condivisione pratica (non solo, quindi, la loro mera conoscenza teorica) di valori fondanti come la dignità della persona, la libertà – di pensiero, di espressione, di organizzazione, di intrapresa, ecc. -, il pluralismo, la laicità, la democrazia, la pari dignità tra l’uomo e la donna. Valori che in nessun caso sono subordinabili a quello che il politically correct definisce “rispetto della diversità” e che può diventare un pericoloso alibi per la creazione di zone franche in cui vigono codici di riferimento diversi da quelli a cui devono sottostare tutti coloro che vivono in questo Paese.

Un nota bene: il modello dell’identità arricchita, più che uno schema elaborato a tavolino e calato dall’alto, è un’ipotesi di lavoro sulla quale lavorare, da costruire in un confronto e in una verifica serrata con la vita concreta, e che molti stanno già sperimentando in una trama di rapporti quotidiani. Per  realizzarla sono necessari la conoscenza, la coscienza e il giusto orgoglio della propria storia e della propria cultura, troppe volte assenti tra gli italiani, o finanche ridicolizzati come vecchi arnesi del passato. L’immigrazione rappresenta dunque una provocazione, una sfida perché gli italiani diventino più consapevoli di ciò che sta a fondamento della loro idenità di popolo, attraverso una riappropriazione dinamica del loro passato che li renda capaci di guardare al presente. In questa prospettiva è più che mai calzante ed attuale l’ammonimento  che ci arriva dall’Ottocento dal grande Goethe: “Ciò che hai ereditato dai tuoi padri devi conquistarlo di nuovo per possederlo veramente”.

A questo recupero di consapevolezza si deve accompagnare la disponibilità ad incontrare l’altro e la sua “diversità” e a fare in modo che da questo incontro l’identità che connota la nostra nazione si possa arricchire. Ma come è possibile “dimorare” in una simile posizione umana? Come si può guardare se stessi e “l’altro” con una simile consapevolezza? Soltanto se si è coscienti dell’universalità dell’esperienza umana, se si ammette che c’è qualcosa che accomuna ogni uomo, che ci sono alcune evidenze originarie presenti in ciascuno – quelle che la Bibbia riassume nella parola “cuore” – e che si esprimono nell’aspirazione alla verità, alla giustizia, alla bellezza, ultimamente al compimento di sé, alla felicità.  E’ questo che fa nascere e muove il desiderio di incontrare e conoscere “l’altro” nella sua integralità e non secondo l’immagine preventiva che ce ne siamo fatti. Questo metodo di conoscenza ci viene suggerito da Sant’Agostino, immigrato africano ante-litteram, che nel sesto secolo scriveva: “Si conosce solo ciò che si ama”.  

Quali sono le condizioni perché questo accada?

Paolucci: Sono necessarie sia una società civile forte e consapevole del proprio ruolo, sia istituzioni capaci di ascoltare e valorizzare ciò che nella società si va costruendo, quella foresta che cresce nel silenzio. In questa prospettiva è necessario passare da un’impostazione sostanzialmente bipolare, che vede da una parte l’individuo e dall’altra lo Stato, a una nuova impostazione in cui siano protagonisti individuo, società civile e Stato, nella quale in nome di una sussidiarietà reale lo Stato sappia valorizzare e aiutare ciò che nella società si  costruisce.

In conclusione, per governare in modo efficace l’immigrazione, e perché essa possa essere considerata una risorsa anziché una minaccia da cui difendersi, è necessario che ci siano “patti chiari per una lunga amicizia”. Per poter realmente “con-vivere” servono regole trasparenti e condivise, una politica lungimirante, il concorso di tutte le forze sane della società civile. Soprattutto servono uomini consapevoli della loro identità e desiderosi di testimoniarla e di incontrare l’altro da sé. Senza paure e pregiudizi, nella coscienza che c’è un destino che tutti ci accomuna, italiani e stranieri, e che ci chiama a diventare costruttori dell’identità arricchita. 

[La seconda parte dell’intervista verrà pubblicata venerdì, 28 gennaio]

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ZENIT Staff

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