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Non mi è stato facile impostare la riflessione che mi avete chiesto in occasione della festa del vostro Patrono dal momento che, a mia conoscenza, il beato J. H. Newman non ha mai elaborato una trattazione sulla comunicazione sociale. Non potevo dunque esporre il suo pensiero al riguardo.
Tuttavia tutti i grandi pensatori, i pensatori essenziali – e Newman è certamente fra essi – possono essere interrogati su ogni tema seriamente attinente alla nostra vicenda umana.
Tutto ciò premesso, alla fine ho pensato di procedere nel modo seguente. Nel primo punto della mia riflessione cercherò di fare uno schizzo del profilo spirituale di Newman, o meglio, del suo itinerario interiore. Nel secondo punto cercherò di verificare quali “provocazioni” vengono da tale itinerario a chi lavora nella comunicazione sociale.
1. Schizzo del profilo spirituale
J. H. Newman scrisse l’epigrafe che doveva essere scolpita sulla sua tomba. È la seguente: Ex umbris et imaginibus in veritatem.
Se un uomo compone l’epigrafe della sua tomba, non c’è dubbio che con essa egli vuole fare la sintesi di tutta la sua vicenda umana, e darne la chiave interpretativa. Ed in realtà quell’iscrizione «è la cifra della sua intera visione del mondo, la figura secondo cui concepiva la destinazione reale della nostra intelligenza, la quale, abitando la sfera della manifestazione e della parvenza (imago, umbra), deve volere e cercare con tutta se stessa una certezza legittimata dalla verità». [P. Murray, in J. H. Newman, Scritti oratoriani, Cantagalli, Siena 2010, XIII].
L’itinerario di Newman è così delineato nella sua sostanza: è il pellegrino in cammino verso la verità che salva, oltre le apparenze e le ombre. Si noti, però, subito che non di una qualsiasi verità si tratta. È la verità che è proposta di salvezza, che è via alla salvezza definitiva, eterna. È la verità religiosa nel senso più forte. Ascoltiamo Newman: «Vi è una verità; vi è una sola verità, l’errore religioso è per sua natura immorale; (…) si deve temere l’errore; la ricerca della verità non deve essere appagamento di curiosità; l’acquisizione della verità non assomiglia in niente all’eccitazione di una scoperta; il nostro spirito è sottomesso alla verità, non le è quindi superiore ed è tenuto non tanto a dissertare su di essa, ma a venerarla» [Lo sviluppo della dottrina cristiana, Il Mulino, Bologna 1967, 377].
Prima di proseguire mi piace attirare la vostra attenzione su un fatto. Nei suoi scritti Newman non parla mai [come Agostino] del cammino verso la verità come di un’ascensione, una salita continua verso Dio dal grado inferiore al grado superiore. Egli configura il suo cammino verso la verità come un iter, un cammino, un pellegrinaggio faticoso.
L’itinerario conosce in Newman tre momenti fondamentali [ancora come Agostino]. Li richiamo molto sinteticamente.
Il primo – lo potremmo chiamare la prima conversione – è descritto nel modo seguente: «… confermandomi nella mia sfiducia nella realtà dei fenomeni materiali e facendomi riposare nel pensiero di due soli esseri assoluti e luminosamente evidenti in se stessi, me stesso e il mio Creatore» [Apologia pro vita sua, Paoline, Milano 2001, 137-138].
Newman prima di questa “scoperta” pensava che la realtà veramente consistente fosse quella in cui lo immergevano i suoi sensi. Il “reale” è ciò che è afferrabile; ciò che è misurabile e calcolabile.
Egli ci dice di aver letto alcuni saggi di Hume. Aveva copiato alcuni versi francesi di Voltaire, che negavano l’immortalità dell’anima, ed aveva pensato: “quanto è terribile, però quanto è plausibile” [cfr. ibid. pag. 136].
Nella sua prima conversione Newman riconosce che le cose stanno al contrario: le uniche realtà veramente consistenti sono Dio e l’anima, cioè il nostro essere un io spirituale. È questo il primo passaggio ex umbris et immaginibus in veritatem. Si noti bene. Non si tratta di un evento spirituale che riguarda solo e principalmente l’ambito della nostra conoscenza, ma è una nuova forma di vita che si imprime nella persona del giovane Newman. Un testo di R. Guardini può aiutarci a capire la forza di questa scoperta. “E’ l’esperienza della propria archè: la consapevolezza di provenire da Dio; di possedere le proprie radici originarie in Lui, più precisamente nella sua volontà creativa” [Etica, Morcelliana, Brescia 2001, 512]
La seconda conversione è costituita da ciò che Newman chiama il “principio dogmatico”. Così egli ne parla. «Dall’età di quindici anni il dogma è stato il principio fondamentale nella mia religione: non conosco altra religione, non riesco a capire nessun’altra specie di religione; una religione ridotta ad un semplice sentimento per me è un sogno e un inganno» [Apologia pro vita mea, cit., 187]. Per tutta la vita Newman riterrà che il più grande pericolo che la fede cristiana corre oggi è la negazione del principio dogmatico negazione che Newman chiama il principio liberale, l’idea cioè e l’esperienza di un cristianesimo costruito dal singolo a prescindere dall’oggettività della Rivelazione custodita dalla Chiesa.
Il principio dogmatico quindi prende forma concreta, obiettiva, storica, nella realtà della Chiesa. “Dio e anima” non indica quindi un itinerario di vita che consiste nell’affermazione della propria soggettività. Al contrario. È un itinerario di superamento del soggettivismo, guidato dall’obbedienza alla Rivelazione trasmessa dalla Chiesa. Il cristianesimo non denota uno stato di coscienza, ma si mostra nell’obbedienza della fede. «Così tutto il compito e il lavoro di un cristiano si organizza attorno a questi due elementi: la fede e l’obbedienza. Egli “guarda a Gesù” [Eb. 2,9]… e agisce secondo la sua volontà. Mi sembra che oggi corriamo il pericolo di non dare il peso che dovremmo a nessuno dei due. Consideriamo qualsiasi vera e accurata riflessione sul contenuto della fede come sterile ortodossia, come astruseria tecnica. Di conseguenza facciamo consistere il criterio della nostra pietà nel possesso di una cosiddetta disposizione d’animo spirituale».
Dal “principio dogmatico” deriva per Newman che il problema centrale dell’esistenza è il problema della Chiesa: dove ricevere nell’obbedienza della fede la divina Rivelazione? Quale è la vera Chiesa?
La terza conversione è quella alla Chiesa Cattolica, nel momento in cui Newman ebbe la certezza che essa era la vera Chiesa. Fu un atto di obbedienza pura alla verità che la coscienza gli indicava. «Di questo sono sicuro, che soltanto una chiamata semplice, diretta del dovere è garanzia per lasciare la nostra Chiesa; non la preferenza per un’altra Chiesa, non il gusto per la sua liturgia, non la speranza di un maggior progresso spirituale; non l’indignazione, non il disgusto per le persone e per le cose tra le quali ci troviamo nella Chiesa d’Inghilterra. L’unico interrogativo è questo: posso io (la domanda è personale; non: può qualche altro, ma posso io) salvarmi nella Chiesa d’Inghilterra? Sarei io salvo, se dovessi morire stanotte? È un peccato mortale, per me, non passare a un’altra confessione?» [Apologia pro vita mea, cit., 371]. «Fu come entrare in porto dopo essere stati nel mare in tempesta» [Apologia pro vita mea, cit., 378].
L’itinerario ex umbris et imaginibus in veritatem ha raggiunto il porto: dal mondo umbratile ed inconsistente alla verità di Dio e del proprio io; dall’inconsistenza degli stati soggettivi alla verità della divina Rivelazione trasmessa dalla Chiesa; dalla comunione anglicana alla Chiesa cattolica.
Quale è stato il dinamismo interiore che ha mosso Newman in questa ricerca? la forza che dal di dentro lo spingeva a passare ex umbris et imaginibus in veritatem? la sua coscienza. Primato della verità e primato della coscienza sono in Newman come il concavo e il convesso della stessa figura. L
’avere contrapposto l’uno all’altro è stato il più esiziale degli errori moderni.
Per Newman la coscienza è la capacità di riconoscere la verità e le sue esigenze negli ambiti decisivi per il destino eterno dell’uomo: la morale e la religione. La coscienza quindi è l’originaria, permanente, imprescindibile rivelazione naturale che Dio fa di se stesso all’uomo: è la sua prima [non in senso cronologico] Parola che Dio dice all’uomo. Le conversioni di Newman sono il cammino della sua coscienza, cioè dell’obbedienza alla verità che gradualmente si mostrava alla sua persona. Il contrario di un cammino della propria soggettività che afferma se stessa in totale autonomia. Il concetto che Newman ha della coscienza è esattamente l’opposto del concetto elaborato dal soggettivismo moderno.
Penso che il fascino esercitato da Newman su quanti entrano nel suo mondo spirituale sia proprio questo: l’aver legato la coscienza alla verità, a Dio; e reciprocamente: l’avere radicato la verità morale e religiosa dentro la coscienza. La verità è la soggettività, aveva scritto il suo grande contemporaneo Kierkegaard [il tema è sviluppato nella Postilla non conclusiva alle Briciole di filosofia, II p., II sez., cap. 1] . Anche Newman pensa che sia così, ma in un senso interamente più vero. Kierkegaard ha chiuso la soggettività nel “Singolo”, staccandola dalla Chiesa che è il depositario della verità che salva.
Finisco con un pensiero di Newman che è perfettamente adeguato a questo incontro. Il primato della Verità venne sempre da Newman affermato con linguaggio appropriato, con un tono adeguato. Egli mira sempre a persuadere e convincere con umiltà, semplicità, gioia e pazienza. Così pregava S. Filippo Neri: «che il mio aspetto sia sempre aperto e allegro, e le mie parole gentili e piacevoli, come conviene a coloro che, qualunque sia lo stato della loro vita, godono del più grande di tutti i beni, del favore di Dio e dell’attesa dell’eterna felicità» [Meditazioni e preghiere, Jaka Book, Milano 2002, 193-194]. L’altare della sua cappella di Birmingham è sormontato dall’immagine di S. Francesco di Sales, il grande santo umanista. È da lui che prese il suo motto cardinalizio, “cor ad cor loquitur”.
2. Newman e la comunicazione
Che cosa dice a voi che lavorate nei mass-media questa persona ed il suo itinerario spirituale?
Desidero partire dall’ultima considerazione. Il motto cardinalizio preso da S. Francesco di Sales denota in primo luogo un metodo di comunicazione. Newman è, nelle sue opere, un “compagno di viaggio”. Egli si mette a fianco del suo lettore o uditore per condurlo con argomentazioni semplici e profonde alla scoperta della verità. La sua scrittura affascina non solo dal punto di vista della chiarezza espositiva, ma perché ti fa “sentire” la vicinanza di un maestro che ti guida.
Nel quinto sermone predicato nella chiesa universitaria di Oxford il 21 gennaio 1832, Newman si chiede come, nonostante tutte le difficoltà, la predicazione apostolica ebbe grande successo: “quale è quella qualità nascosta della verità, e come fa a prevalere da sola su numerosi e multiformi errori dai quali viene simultaneamente e incessantemente attaccata?” [J.H. Newman, Scritti filosofici, Bompiani, Milano 2005, 165].
E continua: “Rispondo che nel mondo essa è stata sostenuta non come un sistema, non da libri, né da argomentazioni, né dal potere temporale, ma dall’influenza personale di uomini (…) che ne sono nello stesso tempo i maestri e i modelli” [ibid. 191].
Trovo ancora una singolare sintonia con Kierkegaard. La forma per comunicare la verità che salva è quella di “esserci dentro”, ovvero di “presentarsi in carattere”.
Tutto il tema meriterebbe lunga riflessione. Non dovete essere “produttori a qualunque costo del consenso” di chi vi legge, vede, o ascolta. Non è la persuasione il vostro compito primo, ma la convinzione. E la convinzione è il risultato di una argomentazione razionale, semplice e cordiale, mite e luminosa.
Ma tutto questo non è tutto; anzi non è neppure il più importante. Come abbiamo visto, tutto l’itinerario di Newman è stato il cammino del pellegrino verso la verità. Egli ha scritto: “la verità in quanto tale deve guidare tanto la condotta politica che quella privata”. Il vostro è un servizio alla coscienza perché giudichi con verità. E’ quanto insegna S. Paolo: “rifiutando le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunziando apertamente la verità, ci presentiamo davanti ad ogni coscienza, al cospetto di Dio” [2 Cor 4,2].
Si può scrivere davanti alla piazza; si può scrivere davanti al potente di turno: Newman ci insegna a scrivere e parlare “davanti ad ogni coscienza”: “al cospetto di Dio”.
Detto in altri termini. Si può fare un uso strumentale della propria ragione, quando si parla o si scrive. Uso strumentale significa che non intendo giudicare lo scopo che mi prefiggo; mi preme solo trovare la modalità comunicativa per raggiungerlo. Un uso strumentale della ragione comporta non raramente interloquire non con la coscienza ma con le passioni e/o gli interessi dell’interlocutore.
Certamente o molto probabilmente altri vi diranno o anche voi sarete tentati di pensare che questa posizione non la si può tenere nell’agorà della comunicazione; che chi la tenesse alla fine scomparirebbe dalla scena: “ammiriamo la vostra semplicità, ma non vi invidiamo la follia” [Tucidide, Storia della guerra del Peloponneso V, 105, 20], direbbe chi conosce il mondo.
Concludo allora con le parole di Newman “Che tutti coloro, dunque, che riconoscono la voce di Dio che parla dentro di loro e li incita verso il cielo, aspettino con pazienza la Fine, esercitandosi e operando diligentemente, in attesa di quel giorno in cui saranno aperti i libri e tutto il disordine degli affari umani riesaminato e messo in ordine (…); quando i saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre” [op. cit., 202-203].