di Luca Marcolivio
ROMA, venerdì, 21 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Si è tenuto giovedì sera, al Vicariato di Roma, il primo dei tre incontri del ciclo I grandi discorsi di Benedetto XVI. L’inaugurazione ha avuto come oggetto La questione di Dio oggi: il Dio della fede e il dio dei filosofi, con riferimento al discorso del Santo Padre all’Università di Ratisbona del 12 settembre 2006.
Il convegno, aperto da monsignor Lorenzo Leuzzi, direttore della Pastorale Universitaria di Roma, e concluso dal cardinale vicario Agostino Vallini, ha avuto come moderatore Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte Costituzionale.
In qualità di relatori sono intervenuti monsignor Enrico Dal Covolo, rettore della Pontificia Università Lateranense, Francesco D’Agostino, professore ordinario di filosofia del diritto all’Università di Roma – Tor Vergata, e Giorgio Israel, docente di storia della matematica all’Università “La Sapienza” di Roma.
Il celebre discorso di Ratisbona, secondo monsignor Dal Covolo, è “ormai entrato nella storia della teologia”. Rimasta nota per una disquisizione sui rapporti tra Cristianesimo e Islam, in realtà, la prolusione del papa ebbe ad oggetto “la questione globale su Dio, e più in particolare il rapporto fra la ragione (violata, in ogni caso, dal ricorso alla violenza) e la religione, con speciale riferimento alla cultura contemporanea”, ha puntualizzato il presule.
Monsignor Dal Covolo ha poi focalizzato la propria attenzione sulla questione religiosa tra pagani e cristiani. In questo ambito la dialettica, è tra la vera religio – quella cristiana – e le religiones menzognere dei pagani. Queste ultime vengono smascherate da Tertulliano, primo teologo latino, secondo il quale l’inesistenza degli déi pagani rende inammissibile qualunque forma di religione a essi ispirata.
Se da un lato la fede cristiana è fondata sul logos, i culti pagani sono pura consuetudo, la cui consistenza viene messa in discussione dalla novità assoluta dell’Avvenimento cristiano.
“Di fatto per quanto la critica filosofica ne avesse ormai smantellato la credibilità, i pagani vi restavano abbarbicati per consuetudine, nel timore che l’abbandono della religione tradizionale dovesse coincidere con il caos delle istituzioni civili”, ha osservato monsignor Dal Covolo.
Dal canto loro i cristiani hanno cambiato l’essenza stessa della religio, in precedenza concepita come “una predisposizione soggettiva, uno scrupoloso rispetto verso le istituzioni, piuttosto che un insieme di credenze oggettive”.
Citando Introduzione al cristianesimo (1968) di Joseph Ratiznger, Dal Covolo ha ricordato che “il paradosso della filosofia antica consiste, dal punto di vista della storia delle religioni, nel fatto che essa, con il proprio pensiero ha distrutto il mito”.
Mentre “la religio tradizionale non batteva le vie del logos ma si ostinava su quelle del mito”, è ancora Tertulliano a ricordarci che “Cristo ha affermato di essere la Verità, non la consuetudine”.
Avendo il cristianesimo “coniugato la questione di Dio con la verità dell’essere”, ha aggiunto il presule, “per i cristiani non esiste alcuna possibilità di opposizione tra la ragione e la fede”.
La relazione di Francesco D’Agostino ha avuto invece ad oggetto l’ethos della scienza. A Ratisbona, Benedetto XVI aveva sottolineato che “l’ethos della scientificità” è “volontà di obbedienza alla verità”.
Per quale motivo, allora, il pensiero contemporaneo dominante insiste a negare la compatibilità tra ragione e fede (in particolare cristiana)? Per rispondere a tali interrogativi è bene, in primo luogo, fare luce sulle due diverse modalità di intendere l’ethos della scienza.
Il primo modo – quello secondo D’Agostino “più banale” quanto “più diffuso e condiviso” – ritiene che “il primo dovere etico degli scienziati sia quello di attenersi rigorosamente ai dati che provengono dall’esperienza”. Sebbene, per tanti motivi, la tentazione di alterare o manipolare la realtà da parte dello scienziato, sia sempre alta, tale assunto “non appare particolarmente controverso”.
Benedetto XVI, tuttavia, va oltre questo schema e mette in guardia dai pericoli del riduttivismo, ovvero l’inclinazione a “ridurre l’orizzonte della verità al solo ambito che ciascuno scienziato è in grado di controllare epistemologicamente”.
In quest’ottica, gli scienziati riduzionisti sostengono che “la verità in sé non esiste se non al di fuori delle pratiche conoscitive e manipolatorie che la scienza può elaborare e porre in essere”, quindi di fatto escludono qualunque ethos dall’ambito scientifico.
Il riduttivismo, quindi, compie un errore non tanto scientifico quanto gnoseologico, poiché ritiene che “non esiste altra verità se non quella che si può far coincidere con i risultati ai quali il calcolo scientifico può pervenire”, ha osservato D’Agostino.
“La ragione infatti – ha proseguito il filosofo e bioeticista – nella ricca complessità di tutte le dimensioni, ha un respiro ben più ampio e ben più profondo di quello che caratterizza la ragione che governa il lavoro nei laboratori degli scienziati”.
Lo scienziato deve dunque avere il “coraggio di aprirsi all’ampiezza della ragione” e rinunciare a qualunque “superbia epistemologica”, per far trionfare l’obbedienza alla verità che è in definitiva il vero fondamento dell’“ethos della scientificità”.
La terza relazione, illustrata da Giorgio Israel, ha messo in luce come l’armonia tra fede e ragione nasca dal superamento di una separazione assoluta tra Creatore e creato (che pure ha una sua radice monoteista) e quindi tra volontà divina e intelligenza umana.
Le polemiche sorte nel mondo musulmano, a seguito del discorso del Papa a Ratisbona, sono quindi figlie del “trascendentalismo assoluto” che connota l’islam, rispetto a cui, tuttavia, spicca l’eccezione rappresentata da Averroé, secondo il quale “nulla prova la saggezza divina meglio dell’ordine del cosmo”.
“È proprio nella condanna mai revocata di Averroé – ha osservato Israel – che risiede la rottura nella storia dell’islam con la fondazione della scienza moderna, la sua autoesclusione dagli sviluppi della modernità, cui pure l’islam aveva contribuito in modo tanto decisivo proprio con la trasmissione della cultura greca”.
In ambito giudaico-cristiano, al contrario, nonostante le difficoltà patite da Copernico, Galileo, Newton, Spinoza o Cartesio nel farsi comprendere dalle istituzioni religiose, non è mai stata messa in discussione “l’idea della coerenza tra fede e ragione”, né questi contrasti “hanno arrestato il cammino della scienza e della filosofia”.
Anche in epoca moderna vi è chi, come Edmund Husserl, ha indicato Dio come oggetto di filosofia razionale “in quanto fonte teleologica di qualsiasi ragione nel mondo, del ‘senso’ del mondo”. Altrettanto razionali sono, sempre secondo Husserl, dilemmi teoretici o morali come il “problema dell’immortalità” o il “problema della libertà”.
Anche Israel ha preso le distanze dal riduzionismo positivistico che, per usare parole del Papa a Ratisbona, è la fonte diretta della “limitazione autodecretata della ragione”.
Antidoto a tale concezione è una “razionalità ampia” che suggerisce la ricerca di “un’idea dell’oggettività più ampia di quella suggerita da quei canoni, entro i quali non c’è spazio per l’idea di Dio”, ha poi concluso Israel.
Il ciclo di incontri su I grandi discorsi di Benedetto XVI proseguirà giovedì prossimo, 27 gennaio, con l’analisi del Discorso al Collège des Bernandins di Parigi ed avrà ad oggetto La
cultura europea: origine e prospettive. Interverranno: monsignor Sergio Lanza, Assistente Ecclesiastico Generale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore; Giuseppe Dalla Torre, Rettore dell’Università LUMSA; Alessandro Ferrara, professore ordinario di filosofia politica all’Università di Roma – Tor Vergata.