“La speranza? Una virtù del mercato”

Intervista a Luigino Bruni, docente di Economia politica alla Bicocca di Milano

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di Bertagnini Patrizia
 

ROMA, giovedì, 20 gennaio 2011 (ZENIT.org).- E’ innegabile che la crisi economico-finanziaria in cui versa l’Italia produce nel cittadino medio un grave senso di disagio che, unitamente alla percezione di una certa inadeguatezza di fronte alle questioni economiche, contribuisce a dipingere un futuro che sembra connotato da regressione ed arrivismo, egoismo e precarietà.

A Luigino Bruni – professore associato di Economia Politica presso la Facoltà di Economia, Università di Milano-Bicocca, vicedirettore del centro interuniversitario di ricerca sull’etica d’impresa Econometica, co-editor della International Review of Economics e membro del comitato editoriale delle riviste: “Nuova Umanità”, “Sophia” e “RES” – abbiamo chiesto qual è il contributo che l’etica cristiana può offrire al mondo del mercato e dell’imprenditoria perché esso possa recuperare una dimensione più umana; al cuore degli uomini perché riesca a conservare la fiducia nelle possibilità di sviluppo di una vita autenticamente sociale.

Professor Bruni, c’è un tema che sta molto a cuore alla gente: il rapporto tra ricchezza e felicità: non le pare che, nonostante viviamo in una società ricca, spesso chi ha di più è meno felice?

Bruni: Sì, della felicità ci sono due cose da dire. Una è che gli studi hanno dimostrato che quando si ha molta ricchezza – molta vuol dire oltre i bisogni importanti delle persone, non solo quelli primari ma anche una casa, un’automobile, dei vestiti decenti, mandare i figli a scuola con dignità – la gente non sta meglio, anzi a volte sta peggio perché il tempo che noi investiamo per aumentare la ricchezza lo sottraiamo ad altri ambiti come la cultura, i rapporti, la salute e quindi alla fine abbiamo più soldi ma stiamo peggio. Poi c’è un secondo elemento: quando si è poveri la ricchezza è importante perché la ricchezza, se ben prodotta, se non arriva dall’alto, vuol dire diritti, libertà, opportunità, salute, cultura e educazione.

Per questo poter fare più comunione – non paternalistica o assistenziale, ma reale – fra paesi opulenti e paesi indigenti, fa più felici entrambi: aiuta le persone e i popoli più benestanti a rioccuparsi di natura, di ambiente, di rapporti, di festa – perché magari si dedica meno tempo al lavoro e più tempo alle attività culturali che creano anche valore ma in modo diverso dalla ricchezza economica – e fa più ricchi i più poveri perché con beni pubblici, con ricchezza, con strade, con ospedali stanno meglio. Quindi la comunione avvantaggerebbe i più ricchi e i più poveri. Ecco perché la comunione è il grande tema dell’ultima enciclica del Papa; non tanto l’altruismo ma la reciprocità di poter mettere in comune i beni per il bene comune.

Nella Caritas in veritate, che lei ha appena citato, vi sono dei passaggi molto provocatori come quando si sostiene che la gratuità deve entrare nell’economia. Ma se il mercato è il luogo dello scambio e del contratto com’è possibile evitare di sentirsi di fronte ad un paradosso?

Bruni: La gratuità è il luogo del di più antropologico. Per l’eccellenza di un’impresa non bastano i contratti: ci vuole un di più. Una volta che ho rispettato le regole, che ho fatto le mie ore davanti a un computer, ci metto me stesso; questa si chiama gratuità, quella dimensione dell’umano che è più grande rispetto a tutto ciò che è dovuto. Senza di essa non va avanti neanche l’economia: se noi togliessimo dai mercati, dalle imprese, dal lavoro, il fatto che la gente in quel lavoro ci mette se stesso, ci mette i suoi sogni, ci mette la sua voglia di vita, la voglia di migliorare, la voglia di esistere, i lavori sarebbero invivibili, le imprese sarebbero delle carceri. A volte si dà un’immagine delle imprese come di luoghi degli interessi e dei profitti; invece sono luoghi umani, dove la gente sta insieme, si confronta per crescere, vuole vivere – magari a volte in un modo eccessivo. Però sono delle comunità di vita con le passioni e i vizi di tutte le comunità, dalla politica alla famiglia o alla comunità religiosa. Quindi gratuità è la condizione dell’umano; se l’economia è vita umana l’economia deve essere un luogo di gratuità. Che non è il gratis, non è l’altruismo, non è la filantropia, non è il regalo, ma è quella dimensione antropologica che ti porta ad andare oltre i confini e le barriere; è quella che il Papa chiama appunto la dimensione dell’agape, la dimensione della charis, la dimensione della gratuità.

Come dire che la responsabilità, cioè il rispondere dell’altro come di un mio fratello, in realtà è l’anima anche dell’economia?

Bruni: Sì, perché – come ci insegnava il grande pedagogista don Milani – dove non c’è I care c’è Me ne frego; se non c’è la cura dell’altro, o c’è l’indifferenza o c’è un omicidio. L’Italia è stata sempre davanti a un bivio che metteva da una parte la fraternità dall’altra parte il fratricidio; se tu non scegli la fraternità, scegli il fratricidio. O scegli, come nel dopoguerra l’Italia, la fraternità, e fai la Costituzione, e fai la ricostruzione e vai oltre la diversità, oppure ti ammazzi come durante le guerre. Quindi il prendermi cura dell’altro è la possibilità di vivere: se non c’è la cura, alla fine c’è la guerra, nel senso che non si sta più insieme.

Il suo ultimo lavoro “La leggerezza del ferro” (Vita e Pensiero, Milano, 2011) propone di interpretare la crisi epocale che stiamo attraversando come crisi di relazioni. E’ possibile, secondo lei, che le comunità religiose, che sono – o per lo meno dovrebbero essere – luoghi di fraternità e di relazione, ricoprano un ruolo paradigmatico della vita civile anche in ordine ad uno sguardo sull’economia?

Bruni: Secondo me sì, con due precisazioni puntuali. Primo, che la comunità religiosa ha due elementi che non sono normali nella vita in comune tout court: sono piccole e sono abbastanza omogenee, cioè sono persone che sono accomunate da una visione del mondo; quindi il passaggio dalla vita comunitaria alla vita sociale è un problema che non è ovvio. E poi – seconda precisazione – che le comunità siano moderne; i carismi sono nati in contesti pre-moderni, in cui la persona, non era così centrale, era più importante la comunità, quindi l’autorità e la dimensione dell’obbedienza. Ora nel mondo in cui siamo oggi ogni individuo ha dei diritti fondamentali, è libero, non obbedisce a nessuno in realtà, ma obbedisce alla legge in quanto patto sociale; se le comunità sono capaci di rinnovarsi da questo punto di vista, di far vedere che si può vivere un’obbedienza ma da persone libere e uguali, quindi di salvare il carisma ma anche di aggiornarlo, allora questa operazione può diventare paradigmatica. Poi le comunità sono messe insieme per un carisma, però si sta insieme con persone veramente diverse perché uno non ha scelto gli altri compagni di comunità come nell’amicizia; questo è molto moderno perché la gente nelle imprese non si sceglie: è assunta e poi deve convivere. Il mondo è cambiato molto velocemente negli ultimi 40-50 anni, è migliorato; c’è attenzione ai diritti, alla libertà. Pare che non ci sia ma c’è una grande sensibilità moderna che nasce dal cristianesimo e a volte noi rischiamo di essere ancorati, in fondo, ad un umanesimo che magari ha funzionato nei secoli passati ed oggi un po’ meno.

Quindi lei è convinto che una prospettiva antropologica cristiana può aiutarci ad andare al di là di questi due grandi colossi che sono il capitalismo e il socialismo che già la “Rerum novarum” aveva condannato e che poi la storia ha decretato come fallimentari?

Bruni: Io penso di sì. Io penso che tanti oggi cercano questo qualcosa di nuovo, magari non sa
rà il cristianesimo da solo però il cristianesimo può essere lievito, sale per una terza via condivisa con i laici, con tutti. I cristiani hanno una parola da dire molto grossa, storica, di profezia, di compito, ma insieme. I cristiani oggi hanno senso se sono capaci di attivare una rete con tante persone di cui loro sono il cuore, il lievito, ma di una massa grande.

E dopo aver guardato alla tradizione pensiamo al futuro: su che cosa può puntare un giovane imprenditore – che magari vuole portare avanti una piccola o media impresa di famiglia – per far funzionare il suo progetto e superare il periodo di crisi in cui ci troviamo?

Bruni: Anche se può apparire strano, la speranza è, o in ogni caso deve essere, una virtù del mercato. L’imprenditore ha questa grande virtù, perché se non ha la speranza non mette su un’impresa; egli inizia una nuova attività economica se spera che il mondo di domani sarà complessivamente migliore di quello di oggi, che i 100 investiti oggi possono diventare 101, 105 domani. Inoltre, la virtù della speranza si mostra in tutta la sua importanza nei momenti di crisi, nelle lunghe fasi di stallo, di difficoltà, di calunnie, di sospensioni, di tradimenti. Chi ha generato un’impresa sa che i momenti più importanti della sua storia sono stati quelli nei quali è stato capace di speranza contro gli eventi, contro i consigli degli amici, contro le previsioni degli esperti, quando ha avuto la forza di sperare, di insistere nel suo progetto, di perseverare nel credere nella sua idea. Può essere questo un consiglio da dare a un giovane: si può sperare e non credere agli uccelli del malaugurio, quelli che dicono che siamo in mano agli speculatori, che è impossibile, che siamo vittime. Questo vuol dire che uno prima di partire è già morto; bisogna sempre pensare che il mondo lo possiamo cambiare, anche se è difficile, ma lo possiamo cambiare noi. E quindi – soprattutto se uno è giovane – lo può e lo deve pensare.

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ZENIT Staff

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