CITTA’ DEL VATICANO, martedì, 18 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Fede nella presenza di Dio e spirito missionario: sono questi i due pilastri dell’esempio di santità che Papa Giovanni Paolo II ha lasciato al mondo.
Ne è convinto il Cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi, che in un’intervista rilasciata a “L’Osservatore Romano” ha commentato la beatificazione del Pontefice polacco, programmata per domenica 1° maggio.
Secondo il porporato, Papa Wojtyła ha lasciato alla Chiesa e alla società contemporanea “essenzialmente due atteggiamenti”.
“Il primo è una grande fede nella presenza di Dio nella storia, perché l’incarnazione è efficace, vince il male: la grazia della presenza eucaristica del Signore supera tutte le barriere e i regimi antiumani”, ha affermato, ricordando che il Pontefice defunto “ha vissuto i regimi nazista e comunista, e ha visto l’implosione e la distruzione di entrambi”.
“Il secondo atteggiamento è il suo grande spirito missionario. I viaggi del Papa erano attività missionaria vera e propria. Raggiungeva i confini della terra per annunciare il Vangelo di Cristo”.
Il Cardinale Amato ha anche commentato l’iter della causa di beatificazione, che “ha avuto due facilitazioni”.
La prima, ha osservato, è stata il fatto che Benedetto XVI “ha subito concesso la dispensa dai cinque anni di attesa prescritti”, per cui la causa “ha avuto inizio quasi immediatamente dopo la morte di Giovanni Paolo II”; la seconda è stata “una sorta di corsia preferenziale: avendo avuto la deroga, la causa si è trovata senza una lista d’attesa davanti, per cui ha potuto procedere senza l’impedimento di altri procedimenti in corso”.
In questo contesto, l’accuratezza, “che è stata massima”, si è sposata con “una grande sollecitudine, una grande professionalità da parte della postulazione”, “per cui il 19 dicembre 2009 il Papa ha potuto firmare il decreto sulle virtù eroiche”.
E’ poi iniziato l’esame del miracolo – la guarigione dal morbo di Parkinson della suora francese Marie Simon Pierre Normand –, che “è stato studiato con grande attenzione, direi con pignoleria, anche perché su di esso c’era una grande pressione mediatica”, ha confessato il Prefetto del dicastero vaticano.
“I medici, sia francesi, sia italiani, non hanno in alcun modo affrettato i tempi e hanno sottoposto tutto a un attento approfondimento. Abbiamo lasciato la stessa libertà alla nostra consulta medica, affinché i periti potessero procedere secondo la loro coscienza e la loro scienza”.
“La celerità della causa non è stata a scapito né dell’accuratezza dell’iter procedurale, né della professionalità nel presentare il personaggio – ha tenuto a sottolineare –. Del resto, la fama di santità era talmente diffusa e accertata che il nostro compito è stato agevolato”.
Il Cardinale Amato ha segnalato che i fedeli hanno esercitato non una “pressione”, quanto un “accompagnamento”.
“Il sensum fidelium è quello che noi chiamiamo, in termine tecnico, la fama di santità e di segni, che è indispensabile per una causa”. “’Santo subito’ è una cosa buona, ma deve essere ‘santo sicuro’, perché la fretta non porta buoni frutti”.
Per il Cardinale, il fatto che sia la prima volta che un Pontefice beatifica un suo predecessore negli ultimi dieci secoli è un segno “di continuità, non solo nel magistero, ma anche nella santificazione personale”.
“Del resto, in questi ultimi due secoli abbiamo una serie di vescovi di Roma dei quali è stata riconosciuta la santità, sia pure in gradi diversi: Pio X, Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo I – ha riconosciuto –. Pontefici che si sono passati il testimone non solo del magistero e della guida della Chiesa, ma anche dell’esempio nella santificazione”.
Interpellato su un ricordo personale di Giovanni Paolo II, il Cardinale Amato ha affermato che aveva “un grande senso dell’amicizia, del rispetto”.
“Mi ha scelto come segretario della Congregazione per la Dottrina della Fede. Sono stato ordinato Vescovo da lui il 6 gennaio 2003: eravamo in dodici, gli ultimi a ricevere da Papa Wojtyła l’ordinazione episcopale. Lo incontravo ogni mese, da segretario della Dottrina della Fede, sollecitato dall’allora Cardinale Ratzinger, che era il mio diretto superiore. E Giovanni Paolo II ascoltava a lungo, ascoltava sempre”.
“La cosa che più mi colpiva era la sua capacità di ascolto. Noi parlavamo, lui ascoltava. E solo dopo, quando ci rivedevamo a pranzo, faceva le sue osservazioni – ha concluso il porporato –. Era evidente la sua volontà di capire a fondo”.