di Paul De Maeyer
ROMA, domenica, 16 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Diossina. O meglio: diossine. Diossina è infatti una denominazione generica usata per indicare tutta una gamma o famiglia di circa duecento molecole diverse. Comunque, la diossina fa paura. In un Paese come l’Italia, la memoria del disastro ambientale di Seveso è ancora viva. Era il 10 luglio 1976 quando, poco dopo mezzogiorno, una nube di diossina del tipo TCDD – uno delle diossine più pericolose, se non la più pericolosa – fuoriuscì dagli impianti ICMESA (del colosso svizzero Roche) a Meda e contaminò una vasta area, specialmente l’adiacente comune di Seveso, nell’attuale provincia lombarda di Monza-Brianza (MB).
Quando poi la temuta sostanza tossica viene scoperta nella catena alimentare, allora scattano gli allarmi. La stragrande maggioranza dei casi di esposizione alla diossina avviene infatti attraverso alimenti contaminati (l’altra via di esposizione, diventata rara oggi, è attraverso la combustione di rifiuti negli inceneritori). Trovandosi alla fine della catena alimentare, l’uomo assume carni o cibi che contengono grassi (le diossine si fissano nei tessuti grassi) o ingredienti di animali esposti alla diossina. Un esempio sono i “polli alla diossina” (e derivati) scoperti nell’estate 1999 in Belgio: i pennuti erano stati allevati con mangimi arricchiti (legalmente) con grassi inquinati però dalla diossina di oli industriali.
Oggi ci risiamo, dunque. Questa volta tocca alla Germania, dove è scoppiato alla fine del 2010 uno scandalo di uova e carni suine alla diossina. Anche questa volta la fonte della contaminazione sono i mangimi per animali. La ditta produttrice Harles und Jentzsch, con sede a Uetersen, nel “Land” o regione Schleswig-Holstein, ha acquistato dalla società Petrotec, la quale produce ogni anno circa 100.000 tonnellate di biodiesel ad Emden (nella Bassa Sassonia), acidi grassi destinati ad esclusivo uso industriale e mischiato nei mangimi. Mentre la Harles & Jentzsch ha già chiesto l’insolvenza dopo le prime domande di risarcimento, la Petrotec, la quale si è rivolta a laboratori tedeschi e olandesi, sostiene di non essere all’origine dello scandalo (Westfalen-Blatt, 13 gennaio).
Comunque siano andate le cose, una cosa sembra ormai chiara: eventi come questi sono un invito a riflettere sui sistemi di produzione nel settore agroalimentare, cruciale per l’economia europea. “Si può dire che il danno causato è immenso”, ha ammesso nei giorni scorsi il ministro federale per l’Alimentazione, l’Agricoltura e la Difesa dei consumatori, Ilse Aigner (CSU). “Questo caso deve avere e avrà conseguenze”, ha annunciato: “i produttori di ingredienti per mangimi hanno una responsabilità particolare” (Frankfurter Rundschau, 13 gennaio).
L’ennesimo scandalo di cibi alla diossina getta infatti luce sulla complessità della filiera produttiva alimentare. Prima di finire sulle nostre tavole e nei nostri piatti, un alimento e i suoi vari ingredienti passano per tante, forse troppe mani. Basta poco – anche una ‘leggerezza’ – per contaminare i cibi o i mangimi usati negli allevamenti, come nel caso del Belgio, dove l’utilizzo di autocisterne non lavate era forse la fonte dell’inquinamento.
All’origine di altri scandali, come quello dei vini adulterati con il glicole dietilenico scoppiato nel 1985 in Austria o dei mangimi alla diossina tedeschi, c’è un comportamento fraudolento, nonché doloso. Per un motivo o per un altro, la ditta Harles & Jentzsch ha deciso di sostituire un ingrediente dei suoi mangimi con uno completamente inadatto al consumo umano, non solo una volta ma per un periodo prolungato: almeno nove mesi, secondo le autorità dello Schleswig-Holstein. In questo caso, ci troviamo davanti ad una grave distorsione del processo produttivo.
La sofisticazione alimentare rappresenta una vera e propria dissociazione tra etica ed economia. Come ha sottolineato in varie occasioni Papa Benedetto XVI, l’economia non è e non può essere estranea all’etica. “La sfera economica non è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene all’attività dell’uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente”, scrive il Santo Padre nel punto 36 della sua Enciclica “Caritas in veritate” (29 giugno 2009).
“La dottrina sociale della Chiesa – continua il Pontefice – ha sempre sostenuto che la giustizia riguarda tutte le fasi dell’attività economica, perché questa ha sempre a che fare con l’uomo e con le sue esigenze. Il reperimento delle risorse, i finanziamenti, la produzione, il consumo e tutte le altre fasi del ciclo economico hanno ineluttabilmente implicazioni morali. Così ogni decisione economica ha una conseguenza di carattere morale” (37).
Inoltre, spiega il Papa, l’attività economica “va finalizzata al perseguimento del bene comune” (36), cioè quel bene che i Padri del Concilio Vaticano II hanno definito come “l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente” (Gaudium et Spes, 26), una definizione d’altronde ripresa dal Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1906).
Per Benedetto XVI, un’economia contrassegnata dalla ricerca del profitto veloce e immediato, incurante del bene comune, è espressione della natura peccaminosa dell’umanità, frutto a sua volta del peccato originale. “La sapienza della Chiesa ha sempre proposto di tenere presente il peccato originale anche nell’interpretazione dei fatti sociali e nella costruzione della società: ‘Ignorare che l’uomo ha una natura ferita, incline al male, è causa di gravi errori nel campo dell’educazione, della politica, dell’azione sociale e dei costumi’. All’elenco dei campi in cui si manifestano gli effetti perniciosi del peccato, si è aggiunto ormai da molto tempo anche quello dell’economia”, osserva nel punto 34 della “Caritas in veritate”, riferendosi sempre al Catechismo (n. 407) e all’Enciclica “Centesimus Annus” di Giovanni Paolo II (punto 25).
La finalizzazione al bene comune implica a sua volta rispetto per l’ambiente e responsabilità per la conservazione del creato per le generazioni attuali e future, un tema sviluppato da Benedetto XVI sia nella “Caritas in veritate” che nel suo messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2010, pubblicato con il titolo “Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato”. “L’eredità del creato appartiene, pertanto, all’intera umanità”, scrive il Pontefice. “Invece, l’attuale ritmo di sfruttamento mette seriamente in pericolo la disponibilità di alcune risorse naturali non solo per la generazione presente, ma soprattutto per quelle future” (punto 7).
Cinque anni prima, Benedetto XVI aveva usato parole simili nel suo messaggio per la Giornata Mondiale dell’Alimentazione 2005. “L’essere umano non deve compromettere in modo imprudente l’equilibrio naturale, frutto dell’ordine del creato, ma deve al contrario preoccuparsi di trasmettere alle generazioni future una terra in grado di nutrirle”, aveva scritto.
Il tema era molto caro al suo predecessore Giovanni Paolo II, che già nel 1990 parlò di “questione ecologica”, persino di “crisi ecologica”. “Nell’universo esiste un ordine che deve essere rispettato; la persona umana, dotata della possibilità di libera scelta, ha una grave responsabilità per la conservazione di questo ordine, anche in vista del benessere delle generazioni future. La crisi ecologica – ripeto ancora – è un problema morale”, scrisse Papa Wojtyla nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, intitolato “Pace con Dio Creatore. Pace con tutto il creato” (punto 15).
Gli scandali alimentari, con le loro conseguenze – gravi rischi per la salute pubblica, gli abbattimenti di massa di animali (anche sani per via precauzionale), il danno economico, le vaste aree contaminate ecc. –, dimostrano una cosa: se
rve un’evangelizzazione del processo produttivo e dell’economia. O, come ha scritto Benedetto XVI nella “Caritas in veritate”, una “civilizzazione dell’economia” (punto 38).