ROMA, sabato, 15 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervento di saluto pronunciato il 3 maggio del 2010 dal Cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), al Convegno per i 150 anni dell’Unità d’Italia promosso dal Comitato per le Settimane Sociali della CEI e dall’Arcidiocesi di Genova.
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Cari Confratelli nell’Episcopato, Autorità, Amici, ringrazio tutti per la presenza di oggi e per il conforto che anche così date ai nostri sforzi ed al nostro cammino.
Perché questa celebrazione
Come mons. Miglio e gli amici del Comitato Scientifico ed Organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani possono testimoniare, in qualità di arcivescovo di Genova ho accettato con grande convinzione la proposta di realizzare insieme un incontro dedicato all’imminente 150.mo anniversario dell’unità politica d’Italia. Credo infatti fermamente che sia opportuno partecipare con tutte le nostre energie culturali, e nelle forme più varie, alle celebrazioni del prossimo anno.
Per questo occorre prepararsi seriamente, e questo è lo scopo cui l’incontro di oggi intende recare un contributo.
Non ci sfuggono i rischi, già in qualche caso visibili, cui quel dibattito è esposto. Ma non ci sfuggono neppure i grandi valori e le grandi verità storiche che una seria ricerca ed un confronto adeguato potrebbero illuminare. Vi invito tutti a ritenere che quest’ultimo sia uno scopo per cui vale la pena affrontare quei rischi e impegnare tutte le energie intellettuali e morali di cui disponiamo perché quei rischi siano evitati. L’unica cosa che dobbiamo temere è una cattiva ricerca storica, una propaganda ideologica – di qualsiasi segno – spacciata per verità storica.
Se invece sapremo cogliere in modo adeguato questo appuntamento, che cade proprio in un momento in cui anche il nostro Paese è alle prese con dure prove, renderemo un grande dono a tutti quegli uomini e quelle donne, quelle famiglie e quelle associazioni, quelle istituzioni, che con generosità si stanno spendendo per la ripresa. Sapremo donare loro una maggiore coscienza del fondamento e del valore del loro sforzo e della loro generosità ordinaria e non di rado straordinaria. Glielo dobbiamo - innanzitutto lo debbono i Pastori - e per altre ragioni lo debbono gli studiosi, tanto a coloro che quotidianamente si impegnano per il bene comune alla luce e con la forza della fede cristiana, quanto a coloro che spalla a spalla con questi portano il peso e l’onore della stessa responsabilità in virtù di ragioni diverse cui va tutto il nostro rispetto.
La scorsa settimana, con una sobrietà esemplare ed eloquente, Benedetto XVI ed il Presidente della Repubblica Italiana, Giorgio Napolitano, ci hanno testimoniato come la causa della concordia e del bene comune del Paese valga la dedizione personale della preghiera e dell’azione.
Con gli amici del Comitato condivido senz’altro che una matura coscienza storica sia una condizione essenziale per la ricerca di questa concordia e per il servizio al bene comune. È per questa nobile ragione, e non per conformismo, che ci lasciamo interpellare da un anniversario.
Come il Novecento ci ha duramente insegnato, tanto la banale dimenticanza della storia quanto l’oblìo della memoria intenzionalmente prodotto e diffuso, o ancora la sua deformazione e la produzione di miti, sono precondizioni della barbarie che, inevitabilmente, prende la forma della negazione della vita umana e della sua dignità.
Funzione e valore della coscienza storica di questi 150 anni
Non è mio compito entrare nel merito delle questioni che affronteremo oggi, e ringrazio il professore Ganpaolo Romanato ed il rettore Giuseppe Dalla Torre per l’aiuto che ci daranno. Sento però il dovere di sottolineare che fare memoria ed esercizio di seria analisi storiografica a riguardo di questi 150 anni di storia politica unitaria d’Italia ci aiuta a comprendere, tra le altre, due ragioni per cui una matura e critica coscienza storica alimenta una misura alta di concordia civile e l’esercizio condiviso della responsabilità per il bene comune.
In primo luogo è evidente a tutti che la storia di questi 150 anni di unità politica d’Italia testimonia in modo inequivoco come, a condizione di una elevata tensione morale, anche nei momenti più difficili, certo non meno di quelli attuali, sia possibile perseguire e conseguire accordi che per lunghi periodi consentono una convivenza civile di grande qualità. Tali accordi si riconoscono perché da un lato segnano l’ incontro tra differenze, e dall’altro consentono a queste differenze di svilupparsi secondo quello che don Luigi Sturzo chiamava il “sano agonismo della libertà”. Tali accordi, e la storiografia più seria concordemente ce lo ribadisce, non sono mai accordi eticamente neutri, accordi tecnici, astratti proclami, ma patti di amicizia civile consapevolmente contratti ed esplicitamente fondati su specifiche opzioni di valore. Volendo essere efficaci, questi patti sanno essere anche storicamente determinati. Ma proprio per questo ci obbligano: se qualcosa del genere è stato reale, certamente è anche possibile, e dunque dovrebbe essere ricercato anche per l’oggi. E allora, come non riconoscere qualcosa del genere nel patto costituzionale stipulato nel 1948, per il quale tanti cattolici, insieme a tanti uomini e donne di buona volontà seppero spendere intelligenza ed anche versare il proprio sangue? La grandezza di quel patto non sta in una sua astratta perfezione, ma nell’averci consentito di andare avanti per una strada buona. Esso diede certezza e sostanza, sin dall’inizio, tanto all’orientamento quanto alla possibilità della riforma e dell’aggiornamento.
In secondo luogo, una matura coscienza storica serve la ricerca della concordia e la responsabilità per il bene comune, perché libera da miti e di conseguenza dalla coazione a ripetere. La ricerca storica svela continuamente quell’impasto di intuizione e limite, di bene e di male, da cui la vicenda umana è formata. Una rigorosa analisi storica, a suo modo, serve così anche il riconoscimento dello spazio della trascendenza e di una trascendenza anche storicamente rilevante. Una seria analisi storica, infatti, per un verso relativizza sempre personalità, eventi, processi e giudizi, e per altro verso esige l’uso di criteri svelando che non è la realtà che li produce né che li detta. Duro ed esemplare è il lavoro dello storico, di grande valore umanistico ed umanizzante: lo insegnarono dapprima i grandi dell’umanesimo cristiano e prima ancora i primi maestri della storia in senso moderno che non a caso vanno cercati tra i Padri della Chiesa. Una matura coscienza storica sa comporre passione e distacco critico. Non a caso alcuni dei più grandi italiani, alcuni di coloro che – in ogni senso – più si sono spesi per il paese ed il suo futuro hanno prodotto critiche severe ma costruttive. Questo non ne ha fatto in alcun modo dei revisionisti o dei nostalgici, ma alcuni tra i più affidabili ed afficaci leader culturali e politici della avventura nazionale unitaria. Ancora una volta il mio pensiero va al prete di Caltagirone, don Luigi Sturzo, ma sappiamo anche che tutte le più grandi tradizioni culturali e politiche del nostro paese possono vantare – a comune beneficio – la ricchezza di maestri le cui lezioni hanno trasmesso passione e responsabilità emendate da ingiustificate mitizzazioni, schiettezza di critica esente da nostalgia e da revisionismo.
Un servizio alla speranza di cui oggi abbiamo bisogno
Per queste ed altre convergenti ragioni, lo ripeto, la ricorrenza dei 150 anni dall’Unità dell’Italia dovrebbe trasformarsi in una felice occasione per un nuovo innamoramento del nostro essere italiani, dentro l’Europa unita e in un mondo più equilibratamente globale. A questo scopo la diocesi di Genova ed il Comitat o delle Settimane Sociali hanno voluto dare un primo positivo contributo. Storici ed esperti vari hanno discusso negli ultimi mesi sul carattere dei festeggiamenti e sulle opere da lasciare a ricordo. Noi pensiamo che ci sia qualcosa di importante da far succedere nelle coscienze: far riemergere il senso positivo di un essere italiani. Servono visioni grandi, non per fare della retorica, ma per nutrire gli spiriti e seminare nuovo, ragionevole ottimismo. Il modo di ricordare questo prossimo anniversario deve alimentare la cultura dello stare insieme. In questo, le nostre comunità cristiane sono chiamate a fare la loro parte. L’Italia deve scoprire ancora una volta che può contare sempre sulla Chiesa, sulla sua missione, sul suo spirito di sacrificio e la sua volontà di dono.
Ma un tale nuovo ottimismo (con il Comitato si può e forse si deve parlare di speranza) non matura se non nel crogiolo del pensiero animato da domande impegnative. Sostiamo un attimo, allora, e proviamo a pensare. Riflettiamo su noi stessi, su quello che eravamo, e su quello che oggi dopo tanti e rapidi successi rischiamo di compromettere. Stiamo progressivamente perdendo la fiducia in noi stessi, stiamo assumendo stati d’animo e stili di vita che finiscono col destrutturare la società intera? Quella energia morale che avevamo dentro ed ha consentito ad una nazione, uscita dalla guerra in condizioni del tutto penose, di ritrovarsi in qualche decennio tra le prime al mondo, quella forza vitale che fine ha fatto? Perché il vincolo che ci aveva legato nella stagione della ricostruzione post-bellica e del lancio del Paese stesso sulla scena internazionale, ed aveva retto nonostante profondi dislivelli sociali e serie fratture ideologiche, è sembrato da un certo punto in avanti non unirci più? Una matura coscienza storica, e la pazienza del pensiero, sono indispensabili per affrontare questi interrogativi. Non sono sufficienti, certo, ma sono necessari per mantenere allo stesso tempo un orientamento certo ed una vivace disponibilità alla riforma, al rinnovamento, all’aggiornamento. Ancora una volta siamo di fronte all’arduo imperativo etico e spirituale di comporre fedeltà e riforma, che nella storia sempre vivono solo insieme.
Non lo si prenda come una espressione di campanilismo, e del resto in questa scelta sono stato preceduto dal Comitato. A me pare molto appropriato che questo incontro di studi abbia luogo in questa città. Genova è città di antiche tradizioni cristiane, città tra le prime nell’avventura della forma repubblicana, città che molto (molto sangue, molta anima, e molto intelletto) ha dato all’Italia dal Risorgimento, alla liberazione, agli anni duri della lotta al terrorismo. Genova è da sempre città aperta all’Europa ed al mondo. Città attraverso cui sono passati i processi e le novità, città che è stata più movimento che vertice, porto e ponte più che punto di arrivo e di stasi.
(Cosa comprendere meglio)
Noi oggi chiediamo a chi studia di aiutarci a comprendere, non risparmiando in serietà scientifica, severità, attitudine critica ed autocritica, gli eventi che abbiamo alle spalle, ed in particolare quelli che hanno immediatamente preceduto e quelli successivi all’unità politica di una Italia non nata certo 150 anni fa e la cui vita civile non è mezzo ma fine, mentre ad essere mezzo e non fine sono le forme delle istituzioni che in ogni ambito civile operano e la cui adeguatezza va sempre di nuovo valutata con la misura del concorso reale e non semplicemente dichiarato al bene comune.
Chiediamo di aiutarci a prendere atto che ciascuno degli eventi di questa storia ha un suo volto, e che acquista significato anche in relazione alle alternative possibili. Chiediamo loro di aiutarci a comprendere come – anche in queste vicende – si è dipanato quanto è visibile del mistero grande e drammatico della libertà umana che agisce in contesti concreti.
Chiediamo di aiutarci a riconoscere il nostro debito nei confronti di coloro – noti e ignoti – che in questa storia sono stati fedeli servitori del bene comune, non di rado pagando per ciò prezzi altissimi. Già sappiano, del resto, che la Chiesa ha saputo riconoscere in alcuni di questi protagonisti i segni della Santità. In modo sempre più cosciente dobbiamo essere fieri e grati per quanto le generazioni precedenti hanno fatto con ammirevole spirito di sacrificio e senso di grande responsabilità. Esse hanno operato avendo nel cuore non solamente il miglioramento delle loro condizioni di vita, ma anche il desiderio di consegnare ai propri figli – a noi, dunque – un futuro più vivibile e degno, impostato sul benessere come su valori morali autentici e solidi. La loro opera ha consentito a ciascuno di sentirsi parte di un «noi».
Chiediamo agli studiosi di aiutarci a comprendere meglio quello che il nostro popolo forse in modo intuitivo, ma a volte con una prontezza ed uno slancio profetici, sa riconoscere senza indugio. Da Vescovo ho vissuto episodi drammatici, penso alla tragedia di Nassirija, e penso anche alle recenti calamità naturali che hanno segnato alcuni regioni d’Italia. Il nostro popolo, specialmente la gente semplice che tira la vita, sa sempre quando è in gioco la causa comune, il bene comune. In un certo senso, questo 150.mo anniversario, senza indulgere ad alcuna retorica, deve aiutare anche un nuovo incontro tra quelle che – con una espressione molto imprecisa, ma efficace – qualcuno ha chiamato cultura “alta” e cultura “diffusa”.
Chiediamo a chi fa ricerca di aiutarci a crescere nella consapevolezza del valore umano e civile delle istituzioni, politiche, economiche, familiari e di altro tipo. L’indifferenza verso le istituzioni è una mancanza grave e crescente, e prelude alle più varie forme di frattura nel Paese (“verticali” ed “orizzontali”) che lo renderebbero incapace di affrontare le sfide che gli si presentano. Anche in questo caso, ed anche dalla lezione della memoria, dobbiamo essere aiutati a declinare insieme fedeltà e riforma.
Prospettiva della Settimana Sociale e senso concreto delle celebrazioni
Noi intendiamo tutto questo come indispensabile per corrispondere al caldo invito a spenderci per il bene comune che di recente Benedetto XVI ci ha rivolto. Esso non è un invito impersonale o qualunquistico, ma rivolto a persone concrete: «È prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende la forma di polis, di città» (Caritas in veritate, n. 7).
Il bene comune deve essere la stella polare per tutti, al fine di costruire un futuro veramente umano per tutti. L’esito del grande sforzo di discernimento che in questi mesi il Comitato per le Settimane Sociali ha promosso e stimolato nelle nostre Chiese, e non solo, ora ci conforta restituendoci la testimonianza che una tale tensione è largamente condivisa, forse più di quanto potessimo immaginare. A me pare molto significativo che noi tutti siamo arrivati a desiderare e poi a realizzare il momento di studio di oggi pomeriggio dentro questo percorso di discernimento, di declinazione del bene comune, di elaborazione di una agenda di speranza per il nostro Paese.
Credo che proprio questo sia lo spirito giusto per affrontare l’anniversario ormai vicino. La tensione al bene comune può avvalersi grandemente di una matura coscienza storica di questo tratto di storia politica unitaria. Elaborare l’agenda di speranza sulla quale siamo al lavoro e la cui pubblicazione è ormai imminente richiede e sviluppa quell’equilibro di spirito di fedeltà e spirito di riforma cui grandemente giova una memoria storica critica, severa, accurata, aperta, scevra da denigrazioni e da mitizzazioni, da nostalgie revisioniste come da fanatismi infantili e massimamente pericolosi.
A servizio del valore anche civile dell ’amicizia della Chiesa
La missione stessa della Chiesa ha bisogno di occasioni come quella di oggi. Anche quando per la propria missione la Chiesa è chiamata ad annunciare una verità scomoda, essa resta con chiunque amica. Essa infatti non ha avversari, ma davanti a sé ha solo persone a cui parla in verità. Questo servizio non può non essere colto nel suo intreccio di verità e carità, e rimane vivo e libero da qualsiasi possibile strumentalizzazione di parte. Esso è illuminato dalla luce di Cristo e, nel contempo, dalla consapevolezza che «la ragione e la fede collaborano (…), indica la grandezza dell’uomo, ma anche la sua miseria quando egli disconosce il richiamo della verità morale» (Caritas in veritate, n. 75). D’altro canto, come Vescovi, avvertiamo necessaria una costante e umile verifica della condotta nostra e delle nostre comunità. Dunque, per sua natura, un dialogo serio sulla storia condivisa ci aiuta a praticare un confronto schietto ed a mantenere viva un umile vigilanza anche su noi stessi. Così, esso ci aiuta anche, e non in piccola parte, a praticare e sostanziare quella amicizia cristiana che vuole essere, e storicamente in Italia è stata, soprattutto nei momenti più difficili, cemento di amicizia civile.
Nell’Etica nicomachea Aristotele ci insegnava che è l’amicizia che tiene insieme le città. Ecco, noi, come Chiesa, non ci sentiamo estranei a questa idea ed a questa esperienza. Cerchiamo di viverla, sia come fedeltà che come riforma, ed in ciò proviamo a spendere tutti il nostro amore, che in Gesù è amore a Dio ed amore all’uomo.
Il fare memoria critica della storia non esaurisce certo il nostro impegno, ma contribuisce a predisporci all’opera di un futuro da condividere, che è opera cu la Chiesa è chiamata in quanto segno e strumento, allo stesso tempo, «dell’intima unione con Dio» e «dell’unità del genere umano».
Angelo Card. Bagnasco
Arcivescovo di Genova
Presidente della Conferenza Episcopale Italiana