ROMA, martedì, 11 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Edificante. Quante volte nei vari discorsi che si fanno sulla musica per la liturgia, si sente usare questa parola, “edificante”? Certo è una parola che ha qualche cosa di affascinante ma anche di sfuggente. Anche in questo caso sono preso dalla voglia di andare a verificare l’etimologia del termine. Già, perché è facile riscontrare che tutte le definizioni che andiamo cercando, tutte le parole che impieghiamo, possono essere talvolta lette da varie direzioni. Quindi, cercare di delimitare le possibili interpretazioni, a mio modesto avviso, può aiutare a non debordare.
L’etimologia del nostro termine è in effetti molto affascinante. Viene dal latino aedes, che significa “abitazione” e ficare, “fare”. Ma ciò che è veramente interessante è che nella radice sanscrita di aedes</i> sembra ci sia il significato di “infuocato”. Quindi si passerebbe da fare una casa a fare fuoco. Come possiamo passare questi significati nella musica liturgica? In effetti, il secondo significato è a mio avviso anche più pregnante del primo. Purtroppo, fin dai secoli scorsi ci siamo abituati a dare al termine “edificante” un significato prettamente moralistico, le “letture edificanti”, per esempio. Con questo si denotava un certo tipo di letture che si conformavano ad una legge morale stabilita da un certo potere. In realta’ io credo che il termine “edificare”, anche e soprattutto in chiave cattolica, abbia una valenza lievemente diversa: più che basarsi esclusivamente sulla conferma di qualcosa si basa su un processo di purificazione, che inevitabilmente porta con sé pena e tormento. La musica liturgica è edificante non se ci risponde ma se ci interroga. Interrogare in questo caso ha una valenza quasi socratica, cercare di sollecitare l’uomo interiore a venire fuori (concetto che già abbiamo incontrato quando si è avuto a che fare con altre parole). Come detto in precedenza, non è la musica che conferma la nostra identità (anche se in parte ed indirettamente può svolgere questa funzione) ma è la musica che ci trasporta verso un altrove rispetto all’ambiente sociale in cui ci troviamo ad esistere. Ecco perché penso che la musica pop, che svolge una importante funzione fortemente sociale, non sia adatta alla celebrazione, semplicemente ha un’altra ragione di essere. Io credo che possiamo citare alcuni passaggi dalla Scrittura che vanno nella direzione di quanto vado affermando:
“Certo, come ha passato al crogiuolo costoro non altrimenti che per saggiare il loro cuore, così ora non vuole far vendetta di noi, ma è a fine di correzione che il Signore castiga coloro che gli stanno vicino” (Gdt 8, 27).
Il Signore prova coloro che gli sono vicino, non li gratifica ma li pone al cimento della prova. Io credo la musica liturgica debba essere per noi un supporto ad affrontare questa prova, edificante perché con il suo fuoco prepari in noi l’ambiente adatto a farci coraggiosi nell’affrontare la tempesta. Troppo cattolicesimo degli anni recenti ha cercato di eliminare questo elemento di pena e sofferenza, come se la vita fosse tutta gioia e sorrisi ma io credo questo sia un profondo travisamento della vera dottrina cristiana. Anche nelle liturgie, secondo una certa vulgata recente, bisogna sempre essere in preda ad una specie di gioia perenne perché il Signore è risorto, eliminando l’elemento sacrificale che ha portato a questa resurrezione. Non fanno meglio, si badi bene, coloro che si beano “esteticamente” di musica rinascimentale e canto gregoriano fermandosi al dato puramente sensuale di questa esperienza (come diceva Guardini che abbiamo citato qualche tempo fa). In entrambi i casi, si evita il fuoco. Ecco perché io penso che la musica liturgica debba essere portatrice di questo “fuoco”, e non tranquillizzarci. Se ci deve santificare (gloria di Dio e santificazione dei fedeli è lo scopo della musica liturgica secondo la Sacrosanctum Concilium) dobbiamo ricordare che i santi non erano tanto persone che portavano tranquillità, quanto persone che ci interrogavano e che seguivano in questo l’esempio di Gesù che non scendeva certo a patti con il conformismo del suo tempo. Dio ci scruta e ci conosce:
“Poiché egli conosce la mia condotta, se mi prova al crogiuolo come oro puro io ne esco” (Gb 23, 10).
Ecco cosa significa che Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva. Egli conosce la nostra debolezza e ci è vicino nell’ora della prova. Ci vuole pronti alla conversione ma essa è sofferenza, talvolta fino all’estremo dell’annichilimento di fronte alla sua volontà che non riusciamo a comprendere. Quale esempio più magnificente di quello di Giobbe? E ci sono altri esempi come questo nella Scrittura. La musica liturgica è parte di questo processo di purificazione, ci introduce con la sua pedagogia particolare nel crogiuolo della purificazione che talvolta noi percepiamo come caotico perché non riusciamo a vedere la cosa nella sua interezza. Vediamo la sofferenza ma non ne percepiamo il ruolo. La musica liturgica è veramente liturgica quando ci introduce nel sacro. Vorrei a questo punto citare una interessante riflessione del liturgista Giorgio Bonaccorso:
“Il sacro non ammette costrizioni, restrizioni o definizioni; non ammette regole precostituite né leggi necessarie. Esso è dalla parte del caos. Il profano, anche da questo punto di vista, è il suo opposto. Nell’esistenza quotidiana, retta dalla profanità, vi sono leggi e regole, senza le quali non si potrebbe vivere. Il profano è dalla parte del cosmo. Ma anche il rito è fatto di regole senza le quali non potrebbe esistere. Il rito è cosmo e, in questo senso, appartiene al profano. Si tratta, però, di un cosmo che, per il modo delle sue regole, ossia delle sue azioni e dei suoi simboli, rimanda alle origini precosmiche, caotiche, e, per questo, appartiene al sacro. Il rito è tra il cosmo e il caos, tra il profano e il sacro. Non è possibile all’uomo un rapporto immediato col sacro, né sarebbe, per lui, sopportabile la caduta nel caos. Il rito appare, così, come la mediazione indispensabile grazie alla quale l’uomo può aprirsi all’origine ultima del suo essere, al sacro, senza essere divorato dal vortice di quell’origine. La liturgia, rito cristiano, è la grazia concessa all’umanità di accedere a Dio senza morire per averlo visto.” (Giorgio Bonaccorso, “Il rito e l’altro”, Libreria Editrice Vaticana, pag. 38).
Ecco perché la musica liturgica deve attenersi al dato rituale, perché esso è mediazione che ci permette di accedere ad una dimensione a cui altrimenti non potremmo accedere. Ma questa dimensione non è una risposta, almeno non ancora: essa è una domanda. E questa domanda tormenta la nostra carne associandoci al Sacrificio supremo. In effetti quando si parla di edificazione nella liturgia (e quindi della musica per la stessa, perché le due cose non possono essere separate), viene in mente questo passaggio dalla Sacrosanctum Concilium:
“In tal modo la liturgia, mentre ogni giorno edifica coloro che sono nella Chiesa per farne un tempio santo nel Signore, un’abitazione di Dio nello Spirito, fino a raggiungere misura della pienezza di Cristo, nello stesso tempo e in modo mirabile fortifica le loro energie perché possano predicare il Cristo” (n. 2).
Ci si dice che in modo mirabile la liturgia (e quindi la musica) fortifica le nostre energie, ci rende forti perché ci prepara alla prova. La nostra esistenza vive di notti oscure, come del resto accadeva ai santi. Madre Teresa di Calcutta, l’emblema della santità per molti di noi, diceva in una sua lettera:
“Se mai diventerò una santa, sarò di sicuro una santa dell’oscurità. Sarò continuamente assente dal Paradiso per accendere la luce a coloro che, sulla terra, vivono nell’oscurità” (“Sii la mia luce”, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli,
p. 236).
Una santa dell’oscurità, una santa che viveva quelli che in un mio articolo su di lei per la rivista “L’Emanuele” definivo “i buchi neri dell’anima”. Io fortemente credo che la musica liturgica debba essere edificante in questo senso forte, non semplicemente in un senso estetico moralistico. Quando essa illuminerà lo splendore della nostra miseria ci sentiremo forse più fragili, ma sicuramente più veri.
[Il prossimo articolo della serie le “Dieci parole per la musica liturgica” uscirà il 18 gennaio prossimo]
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*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E’ professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L’Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chiesa. E’ socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell’Associazione Professori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l’ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.