Cominciata la consultazione popolare nel Sud Sudan

Al via da domenica le operazioni di voto per il referendum sull’indipendenza dal Sudan

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di Paul De Maeyer

ROMA, martedì, 11 gennaio 2011 (ZENIT.org).- Per la popolazione del Sud Sudan è scattato domenica 9 gennaio il tanto atteso “grande giorno”, ovvero l’inizio delle operazioni di voto per il referendum che deciderà sul futuro della regione, grande più o meno quanto Francia e Germania messe insieme. Le quasi 4 milioni di persone che si sono registrate per partecipare al voto, dovranno decidere se vogliono l’indipendenza dal Sudan o invece continuare l’unità, scegliendo sulla loro scheda il simbolo di una mano che saluta o invece quello costituito da due mani unite in una stretta.

Il referendum fa parte del “Comprehensive Peace Agreement” (CPA o Accordo Comprensivo di Pace), siglato il 9 gennaio del 2005 nella capitale del Kenya, Nairobi, fra il regime del presidente sudanese Omar el-Bashir e i ribelli del Movimento/Esercito Popolare per la Liberazione del Sudan (SPLA/M). Per essere valida, la consultazione popolare deve raggiungere il quorum del 60% delle persone registrate. Mentre le operazioni di voto si concluderanno sabato 15 gennaio, il risultato finale si conoscerà tra circa un mese, il 6 febbraio (il 14 febbraio, quando ci sono ricorsi).

In caso di vittoria dei sostenitori della separazione dal Sudan, la regione dovrebbe diventare il 54° paese africano già il 9 luglio prossimo, esattamente a 6 anni di distanza dall’entrata in vigore dell’accordo di pace, che portò termine ad una sanguinosa guerra civile (almeno due milioni di vittime) tra il Nord musulmano e il Sud cristiano ed animista scoppiata nel 1959 e durata – tranne una lunga pausa dal 1972 al 1983 – fino al 2005. Non si sa ancora come si chiamerà il nuovo paese, che avrà Juba come capitale, ma fra le varie possibilità spiccano nomi come Nuovo Sudan, Repubblica del Nilo e persino Kush (o Cush, già menzionato nella Bibbia).

Tutti sono d’accordo che la vera sfida inizierà dopo la probabile indipendenza. Alla domanda “Il Sudan del Sud è pronto per l’indipendenza?” il sito della BBC risponde il 4 gennaio in una Q&A (Domanda e riposta) “Per essere brutalmente onesto, no”. Dopo decenni di guerra, al Sud manca infatti tutto. “Passata l’euforia dell’indipendenza si dovranno poi fare i conti con la dura realtà delle migliaia e migliaia di sud sudanesi che sono rientrati nel sud e che non hanno nulla”, dichiara all’agenzia Fides (8 gennaio) il vescovo di El Obeid, monsignor Macram Max Gassis. “Non vi sono scuole né ospedali, né case e manca persino l’acqua potabile”, così continua il presule, che teme un disastro umanitario se tutti i sud sudanesi – circa 4 milioni nella sola area di Khartoum – decidessero di far ritorno nella parte meridionale. Secondo il Sudan Household Health Survey 2006, la mortalità neonatale nel primo anno di vita supera in alcune zone del Sud Sudan i 110 decessi ogni mille nati vivi. Per fare un confronto: in Italia questo tasso nel 2006 era di 3,4 morti (dati Istat).

Un altro pericolo che incombe sul futuro di Juba è lo spettro di nuovi conflitti armati, specialmente negli Stati petroliferi. Il greggio è infatti la chiave per capire il referendum. Grazie agli investimenti cinesi – Pechino ha costruito non solo strade ma anche il Grande Oleodotto del Nilo, che parte dallo Stato meridionale di Unità (al-Wahda in arabo),-, il Sudan è diventato il terzo produttore di greggio dell’Africa nera (dopo la Nigeria e l’Angola). Il problema di Khartoum è molto semplice: i principali giacimenti petroliferi si concentrano nel Sud e in caso di indipendenza il Nord perderebbe dunque il controllo sui pozzi e quindi sulla produzione. Ma anche il Sud ha il suo “problema petrolifero”: ha bisogno delle infrastrutture del Nord e dell’oleodotto “made in Cina” per poter esportare l’oro nero.

A confermare certi timori sono le notizie che provengono dalla contestata regione di Abyei, a cavallo tra il Nord e il Sud, molto ricca di petrolio ma anche di acqua. Come riferisce l’agenzia Reuters, almeno 36 persone hanno trovato la morte in scontri con allevatori nomadi arabi, in cerca di acqua e pascoli. Mentre altri attacchi sono stati registrati nello Stato petrolifero di Unità e alla frontiera fra gli Stati del Kordofan del Sud (Nord) e del Bahr al-Ghazal Settentrionale (Sud), Abyei costituisce secondo Reuters una sorta di “microcosmo” dei conflitti che per decenni hanno spaccato il Sudan: un “mix esplosivo” di tensioni etniche, confini ambigui, petrolio e rivalità di vecchia data. Esponenti dell’etnia sud sudanese Dinka Ngok accusano apertamente il regime di Khartoum di fornire armi ai miliziani dei pastori arabi Misseriya presenti nella regione di Abyei, che gode d’altronde di uno statuto speciale ed è attualmente governata da un’amministrazione mista, composta da funzionari dell’SPLA/M e del Partito Nazionale del Congresso.

Molto dipenderà dall’attuale presidente sudanese Bashir, il quale ha rassicurato che rispetterà l’esito del referendum, anche se è convinto che Juba non “è in grado di provvedere ai suoi cittadini o di formare né uno Stato né l’autorità” (Al Jazeera, 8 gennaio). Le promesse di Bashir, sul cui capo pende ancora un mandato di cattura internazionale emesso dalla Corte Penale Internazionale (ICC) per crimini contro l’umanità nel Darfour, non convincono gli osservatori, che temono un ricorso alla vecchia tattica della guerra “per procura”. In un editoriale d’opinione pubblicato dal New York Times (8 gennaio), il presidente americano Barack Obama ha avvertito le parti coinvolte nel conflitto di non ricorrere “in alcun caso” a “forze proxy”.

Una cosa è certa: il referendum non piace a Khartoum. Per l’ex presidente sudanese Sadiq al-Mahdi – fautore negli anni ’80 di una delle fasi più brutali della guerra civile – con il referendum si è aperto “il vaso di Pandora”, perché cancella i confini di epoca coloniale. Così rivela sempre il New York Times (idem). Anche esperti internazionali come Phil Clark, della School of Oriental and African Studies di Londra, temono l’“effetto domino”. “L’Africa non ha bisogno di una nuova mappa”, ha detto sempre secondo il New York Times.

Per padre Sean O’Leary, direttore del Denis Hurley Peace Institute (DHPI), con sede a Pretoria (Sud Africa), il referendum sudanese è invece un punto di partenza per tutto il Continente nero. “Questo voto è un voto importante, non solo per il popolo del Sud Sudan, ma come potenziale punto d’avvio per la riscrittura di diversi confini artificiali creati in Africa durante la conferenza di Berlino del 1884-85”, così ribadisce (Agenzia Fides, 7 gennaio). “Potremmo vedere l’inizio di una nuova ondata di indipendenze. Come in Sudafrica nel 1994, quello cui stiamo assistendo è la nascita di una nuova nazione”.

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ZENIT Staff

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