Dieci parole per la musica liturgica: “Eccedente”

di Aurelio Porfiri*

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MACAO, martedì, 30 novembre 2010 (ZENIT.org).- Eccedente. Questa parola potrà forse sorprendere ma in realtà è una delle più importanti. Eccedente, che viene ancora una volta dal latino (ex-cedere, andare fuori), è quando si supera una certa quantità di una data cosa. In effetti, nel nostro caso, cosa si chiede di eccedere? Si chiede che la musica liturgica non coincida con la musica, ecceda la musica che ascoltiamo quotidianamente. Eccedente significa qualcosa che si protende oltre. La liturgia è una dimensione altra rispetto a quella della vita quotidiana, quindi dobbiamo fare in modo che la musica liturgica sia in grado di far compiere al fedele quello che viene definito come “scarto simbolico”. Questo ci viene spiegato dallo psicoterapeuta Giuseppe Sovernigo nel suo libro “Il Rito e l’Uomo”:

Altre persone, prese dalla febbre di celebrare ‘Gesù nella vita’, come reazione contro il conservatorismo rituale, vivono un’altra trappola per il rito che sottrae ad esso la possibilità di funzionare. Queste persone presumono di situare il linguaggio, gesti, oggetti, nel quotidiano. Per poter funzionare il rito richiede un minimo di scarto simbolico rispetto al linguaggio, ai gesti, agli atteggiamenti della vita normale”.

E’ chiaro che questo problema dello scarto simbolico non è un problema che si può eludere e non è un problema che si deve chiudere nelle anguste categorie del progressismo o del conservatorismo. Si può far anche riferimento ai testi di don Roberto Tagliaferri sulla “liminalità”, la liturgia come soglia sull’altrove. Insomma, la musica per la liturgia non puo’ essere la musica che si ascolta nel quotidiano. Ciò non vuol dire che non si possa far uso di alcune parti di quei linguaggi più usati nella musica popolare, ma questo va fatto in modo che i linguaggi possano essere trasformati dal contesto di provenienza per essere fruibili nel contesto di arrivo. I musicisti hanno sempre saputo sapientemente attingere da materiali anche profani per le loro produzioni liturgiche ma con la loro perizia sapevano come trasformare elementi del profano ed integrarli nell’ordito liturgico. E’ una operazione che richiede perizia e conoscenza di come i linguaggi funzionano, non può essere data nelle mani di tutti. Solo mani esperte sanno rendere “santo” quello che non lo è di partenza. E c’e’ anche da dire che non tutto lo può essere, se si vuole essere sinceri. Personalmente, non credo ci dovrebbe mai essere spazio per batterie o chitarre elettriche in una celebrazione liturgica (ma mi sembra che anche la Chiesa con il suo Magistero abbia fissato più di un paletto che si e’ poi agilmente dribblato).

A questo punto spunta sempre fuori “l’esperto” che ci informa che anche nel passato i musicisti prendevano musiche profane tout court aggiungendovi un testo sacro. Quindi…Questo sarebbe giusto, ma l’informazione andrebbe fornita completa. In quel passato, la musica che dominava era la musica di chiesa, quindi anche la musica profana era totalmente derivante dalle melodie liturgiche. In questo senso, quando essa tornava ad un uso liturgico, in un certo senso era come se tornasse a casa. Non dico che fosse sempre appropriato e in effetti la Chiesa fece sentire la propria voce anche a questo riguardo, ma non si può fare il paragone con l’oggi, quando la musica che domina è la musica di consumo. Nulla contro quest’ultima, ma ovviamente le sue priorità sono diverse da quelle della musica liturgica. Talvolta può essere usata per l’evangelizzazione extra liturgica, per spettacoli, musical, film e ogni forma artistica che può suscitare sentimenti religiosi nel pubblico usando un genere a loro familiare. Questo lo vedo molto positivamente. Ma la liturgia è un’altra cosa e si muove su un’altra dimensione e per noi è atto supremo di fede.

La musica per la liturgia deve muoversi su un altro piano. Io credo che si dovrebbe enfatizzare la distinzione fra sentimento religioso e azione liturgica per capire il problema della musica nella liturgia. Nessuno nega che anche musica pop, rock o samba possano suscitare sentimenti che avvicinino le persone ad una generica esperienza religiosa, se questo è ciò che le musiche stesse si vanno proponendo. Ma una cosa è la mutevolezza del sentimento religioso, altra è la presenza “liturgica”, una presenza che non si avvera per via di sentimento ma per via di rivelazione. Quindi ciò che ci viene chiesto non è di aumentare la nostra capacità emotiva per raggiungere il soprannaturale ma di arrendere le nostre emozioni ad una bellezza che si svela, che è Cristo. Ora, l’uso delle emozioni è diverso: in un caso le emozioni vengono sollecitate, in un certo senso, dall’interno del mondo quotidiano del ricevente; nell’altro l’emozione si protende all’esterno, nel nuovo mondo creato dalla musica liturgica. Essa non cerca di farci entrare in noi stessi (il noi quotidiano) ma cerca di farci uscire da noi stessi per rientrarci in un modo più adeguato (il noi soprannaturale). Bisogna distinguere tra il naturale e il soprannaturale. In una prospettiva naturale la musica pop in Chiesa va benissimo, ma in una prospettiva soprannaturale essa non compie il suo scopo.

In un bell’articolo su arte e teologia, il famoso teologo Karl Rahner tesseva le lodi dell’arte e della sua importanza anche rispetto alla teologia. Ma ad un certo punto faceva l’affermazione che ogni musica diviene liturgica se il testo è liturgico. Qui credo si sia sbagliato di grosso. Non è il solo. Anche in un testo (che peraltro su altri argomenti è molto ben fatto) di un famoso liturgista italiano ho letto la stessa affermazione: la musica diviene liturgica se il testo è liturgico. Non sono d’accordo. Una marcia militare non diviene un canto per la celebrazione se gli mettiamo il testo liturgico a ricalcare la melodia. Un canto gregoriano non diviene una canzone di protesta se gli metto un testo adeguato a questo genere. Questo è anche contro tutto ciò che le neuroscienze ci sanno dire su come funzioniamo. Quando noi ascoltiamo i suoni dall’esterno il cervello usa un sistema chiamato “categorizzazione”. In un certo senso, detto semplicemente, mette gli stimoli auditori che riceve in certe categorie che già preesistono per cultura o altro. Quindi, pur se una persona ascoltasse per venti anni solo musica liturgica di impronta “pop”, il cervello comunque la leggerebbe anche in paragone con l’uso predominante di questo tipo di musica, che non è quello liturgico. In un certo senso l’uso di questa musica manda un messaggio ambiguo e non è adeguata allo scopo che si prefigge. Ecco perchè penso sempre di più che la musica per la liturgia non sia la musica di consumo. Bisogna comprendere il mondo, ma senza bisogno di esserne sopraffatti.

[Il prossimo articolo della serie le “Dieci parole per la musica liturgica” uscirà il 7 dicembre prossimo]

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*Aurelio Porfiri vive a Macao ed è sposato, con un figlio. E’ professore associato di musica liturgica e direzione di coro e coordinatore per l’intero programma musicale presso la University of Saint Joseph a Macao (Cina). Sempre a Macao collabora con il Polytechnic Institute, la Santa Rosa de Lima e il Fatima School; insegna inoltre allo Shanghai Conservatory of Music (Cina). Da anni scrive per varie riviste tra cui: L’Emanuele, la Nuova Alleanza, Liturgia, La Vita in Cristo e nella Chiesa. E’ socio del Centro Azione Liturgica (CAL) e dell’Associazione Professori di Liturgia (APL). Sta completando un Dottorato in Storia. Come compositore ha al suo attivo Oratori, Messe, Mottetti e canti liturgici in latino, italiano ed inglese. Ha pubblicato al momento quattro libri, l’ultimo edito dalle edizioni san Paolo intitolato “Abisso di Luce”.

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ZENIT Staff

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