Una visita guidata al laboratorio papale

L’intervento di Luigi Accattoli alla presentazione di “Luce del Mondo”

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ROMA, martedì, 23 novembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervento pronunciato questo martedì dal giornalista Luigi Accattoli in occasione della presentazione nella Sala Stampa della Santa Sede del libro: “Luce del Mondo. Il Papa, la Chiesa, i segni dei tempi. Una conversazione del Santo Padre Benedetto XVI con Peter Seewald” (Libreria Editrice Vaticana).

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Suggerisco ai colleghi giornalisti di leggere questo volume come una visita guidata al laboratorio papale di Benedetto XVI e al mondo vitale di Joseph Ratzinger. In tale mondo ha un ruolo decisivo la chiamata alla Cattedra di Pietro che lo sorprese quel pomeriggio d’aprile in maglione nero e con quel maglione nero sotto l’abito bianco lo portò sulla loggia della Basilica di San Pietro. La visita guidata ci dice qualcosa sull’uomo in maglione, su quello con l’abito bianco e sul rapporto tra i due. La mia presentazione si appunterà su questo lato umano del suo modo di fare il Papa.

Vedremo Joseph-Benedetto che dubita e si interroga, o che – a seconda dell’argomento che affronta – è sicuro di sé e della sua parola; che ci informa su come è arrivato a una decisione, che ammette errori e ripensamenti o lascia intravvedere qualche futuro orientamento. Coglieremo per lo più quest’uomo chiamato a fare il Papa nell’atteggiamento con cui viene pubblicando i due volumi su Gesù di Nazaret, che propone non come documenti di magistero ma come attestazioni della propria ricerca del volto del Signore. Anche con queste sei ore di conversazione amicale egli mostra la propria disponibilità a fare di tutto per conquistare in qualche modo qualcuno.

Ci avverte fin dall’inizio che “il Papa può avere opinioni personali sbagliate” e certo dispone della “facoltà della decisione ultima” in materia di fede ma ciò “non significa che possa di continuo produrre infallibilità” (pp. 23s). E’ forse in questa riflessione che va cercata la prima radice del libro-intervista che affronta temi anche ardui in un’attitudine di libertà e di azzardo: azzardo nella testimonianza della fede, si intende.

Egli a più riprese (pp. 28, 135s, 161s, 166, 168) si interroga sui suoi 83 anni e su quanti altri gliene darà il Signore e in nostra presenza – si direbbe – ragiona dell’opportunità delle dimissioni qualora venga a trovarsi nell’impossibilità di adempiere alla sua missione (53). Nella stessa pagina nega di aver pensato a dimettersi per lo scandalo pedofilia: “Non si può scappare proprio nel momento del pericolo“. Sappiamo che tutti i Papi contemporanei – da Pio XII in poi – si sono posti il problema delle dimissioni, ma prima di questa intervista nessuno l’aveva fatto in pubblico.

Con analoga schiettezza chiede a se stesso – e quasi anche a noi – “se sia veramente giusto offrirsi sempre alle folle e farsi acclamare come una star”, ben sapendo che “le persone hanno il grande desiderio di vedere il Papa” (110). Ragiona sull’opportunità di dire “io” o “noi” (124) e si confessa “timoroso” delle decisioni sulle persone (125).

Tratta ampiamente del conflitto della fede cristiana con il nostro tempo, ma in almeno due passi riconosce con parole impegnative “la moralità della modernità” e l’esistenza di una “modernità buona e giusta” (40 e 87). A queste affermazioni in positivo andrebbero uniti i passaggi in cui riconosce le prevaricazioni religiose del passato: dalle “atrocità” commesse “in nome della verità (79) alle “guerre di religione” (84) e ai “rigorismi” nei confronti della corporeità, con i quali “si giunse a impaurire l’uomo” (150). Nel conflitto con il mondo moderno occorrerà dunque chiedersi a ogni passo “in che cosa il secolarismo ha ragione” e dove gli si dovrà invece “opporre resistenza” (88).

All’occasione pronuncia parole polemiche. “Sono state diffuse moltissime stupidaggini, persino da presunti dotti teologi” dice a proposito del ritiro delle scomuniche ai quattro vescovi lefebvriani (42). Qualifica come “avventurosa, sprecata, stramba” l’esistenza di Marcial Maciel Degollado, fondatore dei Legionari di Cristo (65). “E’ una stupidaggine, perché allora il mondo era pieno di sacerdotesse” esclama quando l’intervistatore evoca l’argomento che “duemila anni fa sarebbe stato impensabile” per Gesù “chiamare le donne al sacerdozio” (209).

In una delle pagine più felici usa un’espressione creativa per aiutare a comprendere il mistero della risurrezione: “Nella risurrezione [Dio] ha potuto creare una forma nuova di esistenza; al di là della biosfera e della noosfera ha posto in essere una nuova sfera, nella quale l’uomo e il mondo giungono all’unità con Dio” (232). Altre volte trattò dell’amore come “traccia” della Trinità inscritta nel “genoma” umano (7 giugno 2009), o svolse similitudini inventive tra il mistero eucaristico e la fissione nucleare (21 agosto 2005).

Non teme di usare espressioni come “peccaminosità della Chiesa” e “quanto misera sia la Chiesa” (241). Il termine “sporcizia” per indicare il peccato che è nella Chiesa – tipico già del teologo e del cardinale Ratzinger, da Introduzione al cristianesimo (1968) alla Via Crucis del 2005 – ricorre nel volume almeno tre volte a proposito della pedofilia del clero e dello “shock enorme” che ha provocato (44s e 59).

Sempre per la sporcizia vi è un ripetuto riconoscimento del ruolo positivo dei media, che aveva già espresso in diverse occasioni ma mai così esplicitamente: “Sin tanto che si tratta di portare alla luce la verità, dobbiamo essere riconoscenti” (49 e 61). Su questo tema ci regala uno degli aforismi più efficaci del volume: “Solo perché il male era dentro la Chiesa, gli altri hanno potuto rivolgerlo contro di lei” (49).

Pronuncia dei “sì” e dei “no” asciutti e su questioni di rilievo, proprio quelle risposte che noi giornalisti amiamo quando facciamo interviste: dice che comprende chi “per protesta lascia la Chiesa” a motivo degli scandali (55); assicura che non avrebbe tolto la scomunica al vescovo Williamson senza condurre un’ulteriore istruttoria se avesse saputo delle sue posizioni negazioniste della Shoah (174). Di Williamson dice anche che “non è mai stato cattolico nel senso proprio del termine: era anglicano e dagli anglicani è passato direttamente a Lefebvre” (175).

Spiega l’itinerario che l’ha portato alla decisione sulle scomuniche dei vescovi lefebvriani, facendo presente che si è seguito lo stesso criterio adottato per i vescovi cinesi ordinati senza il mandato papale e che una tale soluzione era stata prevista prima della sua elezione: “Già sotto il Pontificato di Giovanni Paolo II in un incontro dei capi dicastero era stato deciso di revocare la scomunica nel caso fosse giunta una lettera del genere“, attestante cioè il “riconoscimento” del Primato papale (42 e 174).

Motiva e precisa la novità della preghiera per gli ebrei (155). Difende Pio XII indicandolo come “uno dei grandi giusti” e spiega come si sia informato su ciò che contengono gli archivi prima di approvarne le “virtù eroiche” (157ss). Traccia l’itinerario che l’ha condotto a volere – alla comunione – i fedeli inginocchiati a ricevere l’ostia nella bocca (219).

Cerca con cautela e coraggio una via pragmatica attraverso cui i missionari e altri operatori ecclesiali possano aiutare a vincere la pandemia dell’aids senza approvare ma anche senza escludere – in casi particolari – l’uso del profilattico (169ss). Riafferma il carattere “profetico” dell’Humanae Vitae di Paolo VI ma non si nasconde l’esistenza di una vera difficoltà a “trovare strade umanamente percorribili” per dare seguito a quella profezia e riconosce che “in questo campo molte cose debbono essere ripensate ed espresse in modo nuovo” (203-207).

Si mostra fiducioso sui possibili sviluppi del ritorno alla Chiesa Cattolica di gruppi di anglicani, quasi curioso di vedere “fino a che punto possono salvaguardare la propria tradizione e
la forma di vita loro propria” (142), nella quale c’è anche quella dell’ordinazione degli sposati. Il Papa non ne parla, ma in altra pagina del volume, a proposito del celibato afferma di “poter capire” che i vescovi “riflettano” sulla possibilità di ordinare “anche” uomini sposati e aggiunge: “Il difficile viene quando bisogna dire come una simile coesistenza dovrebbe configurarsi” (208).

Si dichiara “molto ottimista rispetto al fatto che il Cristianesimo si trovi di fronte a una dinamica nuova” che forse lo porterà ad assumere “un aspetto culturale diverso” (90s); ma anche “deluso" perché “la tendenza generale del nostro tempo è di ostilità alla Chiesa” (183). Forse la frase più amara del volume riguarda le ostilità sperimentate in patria: “Nella Germania cattolica esiste un numero considerevole di persone che, per così dire, aspetta solo di colpire il Papa” (179).

Sogna il ritrovamento della “semplicità” e “radicalità” del Vangelo e del cristianesimo: queste espressioni ricorrono almeno sei volte e le indico come il maggior dono che egli chiede al suo Signore: “Ora si tratta di portare avanti quanto iniziato [da Giovanni Paolo II: ‘Tessiamo il medesimo pezzo di stoffa’] e di comprendere la drammaticità del nostro tempo, di rimanere saldi nella Parola di Dio come la parola decisiva e al tempo stesso di dare al Cristianesimo quella semplicità e quella profondità senza le quali non può operare” (101; vedi anche 114s, 231s, 242).

La visita guidata al laboratorio papale tocca altre stanze, ma quelle che abbiamo attraversato bastano a darci l’immagine di un Pontificato ricco di invocazioni a Dio e di domande agli uomini. La lettura dell’intervista aiuta a comprendere – e se possibile amare – il mondo di Joseph Ratzinger, il suo singolare destino umano e il suo servizio alla Chiesa.

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ZENIT Staff

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