di Alexandre Ribeiro
APARECIDA, mercoledì, 17 novembre 2010 (ZENIT.org).- La biografia di monsignor Raymundo Damasceno Assis sorprende. Cardinale nominato da Benedetto XVI per il concistoro del 20 novembre, l’Arcivescovo di Aparecida, di 73 anni, ha visto il suo percorso intrecciarsi con momenti significativi della vita della Chiesa e della società negli ultimi decenni.
Unico latinoamericano in attività nominato Cardinale da Benedetto XVI in questa occasione, l’attuale Presidente del Consiglio Episcopale Latinoamericano (CELAM) ha studiato Teologia a Roma negli anni del Concilio Vaticano II, è stato un giovane sacerdote a Brasilia nel periodo più repressivo della dittatura militare, ha aiutato a coordinare i lavori della Conferenza di Santo Domingo e ha ospitato la Conferenza di Aparecida.
Monsignor Damasceno ha ricevuto ZENIT nella sua residenza, ad Aparecida, l’8 novembre per raccontare il proprio percorso.
Oggi è Cardinale nominato, ma tutto è iniziato a Capela Nova, nello Stato di Minas Gerais. Come sono stati la sua infanzia e il risveglio della vocazione sacerdotale?
Monsignor Damasceno: Capela Nova è una cittadina di 5.000 abitanti, e ha già offerto quasi 30 sacerdoti. E’ una città piccola, in una regione di piccoli proprietari rurali. E’ molto devota, e ha tradizioni religiose particolarmente forti. Io sono nato in una piccola proprietà a due chilometri dalla città, dove mio padre ha allevato tutta la famiglia. Eravamo 10 figli. Aveva il suo piccolo gregge e coltivava ciò che bastava al nostro mantenimento. Vivevamo in modo molto modesto, ma senza essere bisognosi. Ho iniziato presto a frequentare il catechismo, ad aiutare come accolito. Da lì, da quell’ambiente religioso in famiglia e nella città, e molto vicino alla chiesa, aiutando nelle Messe ho provato la gioia di servire la Chiesa.
Nel 1948 è passato di lì un fratello marista, la cui funzione era quella di promuovere le vocazioni. E’ passato nella nostra scuola facendo un po’ di catechesi e interrogando i bambini. Io ero molto interessato alle sue domande, rispondevo. A un certo punto chiese chi voleva andare con lui. Alzai subito la mano, senza sapere esattamente ciò che significava o le conseguenze. Avevo 10-11 anni. Credo che il fratello non mi abbia creduto molto quando ho alzato la mano. Mi disse che sarebbe andato in una città vicina a cercare un candidato e che al ritorno sarebbe passato per la stazione ferroviaria, a Carandaí. Se fossi stato lì mi avrebbe portato con sé, ma senza impegno nel caso in cui non ci fossi andato. Secondo me credeva che avrei desistito, che si fosse trattato solo di un momento di entusiasmo. Parlai con i miei genitori dicendo che volevo andare. Nel giorno e nell’ora che aveva stabilito ero lì.
Arrivammo al Juvenato São José, nella città di Mendes, nello Stato di Rio de Janeiro, una fazenda nella foresta atlantica oggi trasformata in hotel-fazenda. I primi due giorni piangevo e volevo tornare a casa. Poi arrivarono gli amici e mi chiamarono per andare a giocare a pallone. Con il passare dei giorni ci si adatta, e lo sport, lo studio e la vita di comunità occupano il tempo facendo passare la nostalgia.
Lì terminai la scuola primaria e quella fondamentale [15 anni di età] e capii che la mia vocazione non era quella di diventare fratello. Emergeva in modo sempre più chiaro come il mio destino fosse il sacerdozio ordinato. Parlai con il mio direttore e uscii dai Fratelli Maristi. Tornai a casa a Conselheiro Lafaiete, dove la mia famiglia si era trasferita, nella stessa Arcidiocesi, quella di Mariana. In quella città parlai con il Vescovo ausiliare, chiedendogli di incamminarmi al seminario, perché il mio desiderio era diventare sacerdote. Favorì il mio ingresso al seminario di Mariana, dove completai le scuole medie [18 anni di età]. Poi passai al seminario maggiore, dove studiai Filosofia.
Alla fine di questa tappa, l’Arcivescovo di Mariana, monsignor Oscar de Oliveira, aveva promesso a monsignor José Newton, Arcivescovo di Brasilia, capitale appena inaugurata, nell’aprile 1960, di inviare un seminarista maggiore per collaborare nella nuova Arcidiocesi. I superiori del seminario mi dissero di aver scelto me. Accettai. Dal maggio 1960 passai ad appartenere ufficialmente all’Arcidiocesi di Brasilia. Terminato il corso di Filosofia in quell’anno, ma quando ero ancora a Mariana, monsignor Newton mi chiamò a Brasilia.
Da Brasilia ha proseguito per Roma, proprio negli anni del Concilio Vaticano II. Com’è stata quella tappa?
Monsignor Damasceno: Monsignor Newton mi chiese se volevo seguire Teologia a Roma, visto che Brasilia non aveva ancora un seminario maggiore. Accettai. Seguii il corso di Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana, abitando nel Collegio Pio Brasiliano. Quel corso ha coinciso esattamente con l’apertura del Concilio Vaticano II da parte di Papa Giovanni XXIII e con la sua chiusura, nel 1965, da parte di Papa Paolo VI. E’ stato un periodo molto ricco. Abbiamo vissuto l’esperienza di vedere i pastori della Chiesa riuniti a Roma, attorno a Pietro, per trattare temi importantissimi per tutta la Chiesa. Tutto ciò aveva un’incidenza molto grande su di noi, in primo luogo perché eravamo giovani. Eravamo idealisti, come se dovessimo rinnovare la Chiesa. C’era ansia durante le lezioni, inquietudine, il desiderio di rispettare ciò che il Concilio avrebbe deciso, anziché accettare solo ciò che era scritto nei libri o che veniva esposto dal docente. “Sarà che ciò che dice oggi cambierà domani?”, pensavamo. E’ stato un momento molto speciale, di forte contatto con i grandi teologi dell’epoca, di desiderio di ascoltarli, di conoscerli. Erano nomi citati nei libri e nelle aule lì a Roma.
Terminato il corso di Teologia a Roma sono andato in Germania, a Monaco, per seguire un corso superiore di catechesi. Era un corso aperto dalla Conferenza Episcopale Tedesca e destinato soprattutto a formare catechisti nei Paesi in via di sviluppo. E’ stato un altro periodo molto ricco.
Il suo ritorno in Brasile è avvenuto nel periodo più repressivo della dittatura militare. Com’è andata?
Monsignor Damasceno: Sono stato ordinato nel 1968, nel periodo critico del governo militare, quando è stato promulgato l’Atto Istituzionale numero 5, che ha reso il regime molto più duro. Ciò ha avuto come conseguenza una censura molto rigorosa dei mezzi di comunicazione e una dura lotta contro ogni tipo di opposizione. Io sono arrivato in questo contesto. Giungendo dall’esterno, come giovane sacerdote, nella capitale federale, si capiva di essere sotto controllo. Si voleva informare su chi era una persona e quali fossero le sue posizioni teologiche, politiche. Non ho avuto alcun problema diretto, di confronto, ma sentivo che c’era un controllo, sia delle parole che delle azioni. C’erano, ad esempio, infiltrazioni di elementi militari in organizzazioni della Chiesa, nei movimenti giovanili, nei corsi per i laici, per riportare le informazioni agli ufficiali. In quel periodo c’erano parole tabù, che non si potevano usare; ad esempio, la parola “tortura”. Era praticamente proibito usare quella parola. Quando ho insegnato all’Università di Brasilia, soprattutto negli anni Settanta c’era un forte controllo delle lezioni. Era un periodo in cui c’era molta vigilanza, con i telefoni intercettati, e le prediche, in base alla chiesa e al sacerdote, venivano registrate.
A Brasilia sono stato coordinatore della catechesi, collaboratore diretto dell’Arcivescovo nella Curia, poi parroco per sei anni, e infine inviato a fondare il Seminario Maggiore di Brasilia, che fino al 1976 non esisteva. Sono rimasto nel seminario e nell’università per 14 anni, come professore e amministratore del seminario, fino all’elezione a Vescovo ausiliare di Brasilia nel 1986. Un po’ più tardi, nel 1991, sono stato eletto segretario generale del Consiglio Episcopale Latinoamericano (CELAM). Da quel momento sono andato a vivere a Bogotà (Colombia). Il Cardinal
e Freire Falcão, di Brasilia, permise che vivessi a Bogotà, dipensandomi dai servizi come Vescovo ausiliare dell’Arcidiocesi.
In quel momento lei ha assunto un compito difficile alla vigilia della Conferenza di Santo Domingo (1992), sulla quale ci sono state molte polemiche, non è così?
Monsignor Damasceno: Ho vissuto quattro anni a Bogotà. Quasi tutti i primi due sono stati praticamente dedicati alla preparazione della Quarta Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano, la Conferenza di Santo Domingo. E’ stato un incontro molto difficile: in primo luogo perché quando sono arrivato la preparazione era già a metà, e allo stesso tempo si trattava di una preparazione non molto gradita alle Conferenze Episcopali dell’America Latina e del Caribe. Abbiamo quindi dovuto portare avanti i lavori ma quasi ricominciando daccapo. Abbiamo dovuto riprendere i lavori in modo diverso, compiendo una storia del processo di preparazione fino a quel momento e pubblicando questa storia perché i Vescovi prendessero coscienza di ciò che stava avvenendo o di ciò che era avvenuto fino a quel momento.
Abbiamo dovuto riprendere tutte le relazioni delle 22 Conferenze Episcopali, raccogliere tutto ciò che c’era in quei rapporti e pubblicare una sintesi di quel materiale, per poter iniziare – partendo da quelle informazioni – il processo di preparazione più immediato della Quarta Conferenza, cioè elaborare partendo da lì il cosiddetto Documento di Lavoro. Lo abbiamo fatto con un gruppo di teologi di varie parti dell’America Latina. Ci siamo chiusi per due mesi nel CELAM a Bogotà e abbiamo preparato il Documento di Lavoro, che è stato accolto molto positivamente dalle Conferenze Episcopali e ha risvegliato sentimenti molto positivi. Oltre a ciò, abbiamo pubblicato i rapporti di tutte le Conferenze Episcopali e li abbiamo diffusi, perché c’era una certa sfiducia sulla preparazione nel senso che si pensava che non si stessero seguendo i rapporti delle Conferenze Episcopali.
La seconda parte dell’intervista verrà pubblicata questo giovedì.
[Traduzione dal portoghese di Roberta Sciamplicotti]