Che cosa ha a che fare l’art. 1 del c.c. con la legge sull’aborto? (I)


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di Carlo Casini*
 

ROMA, domenica, 7 novembre 2010 (ZENIT.org).- L’art. 1 del c.c. inserito sotto il titolo I “Delle persone fisiche” recita: “la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita. I diritti che la legge attribuisce al concepito sono subordinati al momento della nascita”. La proposta di legge di cui sono promotore, e che ha ricevuto l’appoggio dell’UDC e del gruppo dei Senatori del PdL è la seguente: “la capacità giuridica si acquista dal momento del concepimento. I diritti patrimoniali che la legge attribuisce al concepito sono subordinati all’evento della nascita”. Chi non ha dimestichezza con il linguaggio tecnico-giuridico può domandare: che cosa ha a che fare l’art. 1 del c.c. con  la legge sull’aborto? Non è qui il caso di soffermarsi su discussioni giuridiche che già hanno dato luogo ad approfondimenti nel 1995 quando fu presentata la proposta di iniziativa popolare che chiedeva esattamente quanto sopra riportato, la quale – ricordiamolo – raccolse le prime 400 firme tra docenti universitari, tra i quali 18 rettori di università e molti ordinari di diritto costituzionale e civile, e successivamente ebbe la pubblica difesa di Giuliano Amato.

Basti chiarire che la capacità giuridica indica l’attitudine ad essere titolari di diritti e perciò la sua attribuzione ad una entità è il biglietto di ingresso nell’ordinamento giuridico come soggetto. Per il nascituro essere riconosciuto dotato di capacità giuridica ed essere riconosciuto titolare del diritto alla vita è la stessa cosa.

Segue un elenco di riflessioni che sono maturate nel corso degli anni fino a determinare la piena convinzione che il formale riconoscimento della capacità giuridica è la soluzione decisiva della “questione antropologica, l’unico punto da cui dipendono gran parte dei piú importanti problemi bioetici e, contemporaneamente la tesi che, pur in mezzo alle persistenti notevoli difficoltà, ha le maggiori possibilità  di successo.

L’esperienza dei C.A.V. (Centri di Aiuto alla Vita) ci dice che in un numero rilevante di casi la spinta verso l’aborto è data dalla insistita affermazione nell’ambiente circostante la donna in difficoltà che, in definitiva, non c’è di mezzo un bambino, un figlio, ma “un grumo di cellule”. Quest’affermazione è un’implicita istigazione all’aborto. Se la legge dichiara che il concepito è un essere umano come ogni altro essere umano, tale implicita istigazione è neutralizzata o almeno è fortemente depotenziata.

L’ultima e più consistente difesa della vita nascente sta nella coscienza dei genitori, in modo particolarmente decisivo in quella della madre. Nonostante ogni azione di contrasto in futuro diventerà sempre più facile superare i limiti delle leggi, anche quelli larghi delle leggi abortiste, usando prodotti chimici sempre più sofisticati e sempre più ridotti ad una pillola da inghiottire. Questo già avviene oggi con la “pillola del giorno dopo” e si diffonderà inevitabilmente con la pillola dei cinque giorni e più tardi chissà con quante altre pillole. La loro eventuale proibizione in Italia non impedirà la loro acquisizione all’estero e il commercio clandestino sarà molto facile. Solo la coscienza individuale è l’antidoto. La coscienza collettiva dà forza alla coscienza individuale. L’una e l’altra sono motivate in favore della vita se riconoscono un uomo nel concepito. Tale riconoscimento sociale e individuale è più facile se la legge – che è “guida all’azione” e “espressione di razionalità collettiva” dichiara la soggettività giuridica fin dal momento in cui il nuovo essere compare nel mondo dell’esistenza.

L’ingresso dell’aborto legale in Italia è stato favorito dalla sentenza n. 27 pronunciata dalla Corte Costituzionale il 18/02/1975, che ha motivato la breccia aperta nel precedente generalizzato divieto di aborto con l’affermazione che “non vi è equivalenza tra la donna che è già persona e l’embrione, che persona deve ancora diventare”. In un testo giuridico qual è una sentenza, il riferimento non può che essere l’art. 1 del c.c. L’attribuzione della capacità giuridica qualifica la “persona” in senso giuridico. La modifica dell’art. 1 c.c. distruggerebbe, perciò, la principale motivazione che giustifica l’aborto.

Sono note le discussioni sul concetto di persona in senso filosofico. Personalmente penso che si debba usare il termine “persona” come l’altro nome dell’uomo. Il principio di eguaglianza non permette che la parola sia usata come strumento di discriminazione tra esseri umani. Comunque, come nel mondo economico vi sono i consumatori, nella nazione i cittadini; così nel diritto vi sono i soggetti di diritto che vengono chiamati dal diritto stesso “persone”.

Già l’art. 1 della Legge 40 riconosce al concepito la qualità di soggetto titolare di diritti. Ma questa disposizione, che è certamente una grande conquista, è stata totalmente ignorata, come criterio interpretativo fondamentale di ogni parte della legge, dalla Corte Costituzionale quando ha annullato la norma quanto mai significativa che esigeva un minimo di speranza di vita per ogni embrione generato in provetta e cioè il suo immediato trasferimento in utero con il conseguente divieto di produzione soprannumeraria. Questa obliterazione è foriera di molte altre demolizioni. La modifica dell’art. 1 del c.c. nel senso qui proposto renderebbe impossibile la dimenticanza ulteriore dei giudici della Consulta.

L’obiezione di coscienza del personale sanitario, farmacisti compresi, diviene molto più robustamente motivabile se essa non è considerata uno scrupolo religioso, quasi equiparabile ad un atto di culto. Se l’embrione è un “grumo di cellule” finiranno per prevalere gli atteggiamenti restrittivi e persino punitivi nei confronti degli obiettori, ma se la legge dichiara i concepiti soggetti dotati di capacità giuridica , le aggressioni contro l’obiezione sono più facilmente contrastabili.

L’art. 22 della nostra Costituzione stabilisce che “nessuno può essere privato della capacità giuridica”. Gli artt. 6 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (10 dicembre 1948) e l’art. 16 del Patto internazionale sui diritti civili politici (16 dicembre 1966) ratificato anche dall’Italia, attribuiscono a “tutti” il diritto al riconoscimento della capacità giuridica. Vi é dunque una consistente base giuridica per modificare l’art. 1 del codice civile.

La parola d’ordine della cultura moderna è “diritti umani” ed “eguaglianza”. La stessa cultura, però, attribuisce una posizione centrale ad un concetto corrotto di libertà, intesa soltanto come “autodeterminazione”. Anche per questo vi è una generalizzata ripulsa dei precetti negativi (“non fare…”), tanto più se essi sono accompagnati da una minaccia penale. Nel caso dell’aborto questo atteggiamento è rafforzato dalla invisibilità della vittima (il bambino concepito), dalla grande visibilità, invece, della giovane donna gestante, che suscita compassione e comprensione, da una visione banalizzata della sessualità che rifiuta ogni responsabilità, e che, quindi, cancella mentalmente, prima che fisicamente, anche la presenza del figlio nel seno della madre. È opportuno, perciò, proporre alla cultura moderna la questione del soggetto titolare dei diritti umani, più che – in prima battuta, – la questione dell’aborto da proibire e punire. La questione del “soggetto” è di straordinario e affascinante peso culturale. La dichiarazione della piena umanità e della eguaglianza degli schiavi, degli indios e dei neri ha preceduto la loro liberazione. Perciò la riforma dell’art. 1 c.c. può essere proposta sul terreno di una crescita positiva della civiltà, sviluppando un pensiero già formulato dalla Corte Costituzionale ung
herese in una sentenza del 17/12/91: “La questione si pone nel senso che la posizione giuridica dell’uomo dovrebbe essere aggiornata… e cioè anche il concetto giuridico di uomo si dovrebbe estendere alla fase prenatale, fino al concepimento… la natura e la portata di tale estensione potrebbero essere paragonate soltanto alla abolizione della schiavitù, perché la soggettività giuridica dell’uomo raggiungerebbe il suo limite estremo e la sua perfezione: i vari concetti di uomo potrebbero coincidere”.

* Carlo Casini è presidente del Movimento per la Vita (MpV)

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ZENIT Staff

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