YAMBIO (Sudan), lunedì, 28 giugno 2010 (ZENIT.org).- Essere il pastore di un gregge sudanese è al contempo un onore e un onere, secondo il Vescovo della diocesi di Tombura-Yambio, che ha vissuto in prima persona il dramma dei rifugiati.

Monsignor Edward Hiiboro, il più giovane Vescovo della Chiesa cattolica in Sudan, dirige una diocesi molto grande ma povera, quella di Tombura-Yambio, nella parte meridionale del Sudan.

Secondo l’ultimo censimento la regione è abitata da quasi 2 milioni di persone, 900.000 delle quali sono cattoliche. È una diocesi antica: nel 2011 saranno celebrati i 100 anni dall’arrivo del Cristianesimo.

La regione è isolata dalle principali città e villaggi del Sudan. La comunicazione è molto scarsa, cosa che contribuisce all’arretratezza di questi luoghi, la cui costruzione e ricostruzione pone notevoli problemi.

Il Paese in generale, il più grande del continente africano, è stato martoriato da una lunga guerra civile causato dalle ineguaglianze etniche e culturali.

In questa intervista rilasciata al programma televisivo “Where God Weeps”, realizzato da Catholic Radio and Television Network (CRTN), in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che soffre, il Vescovo parla della sua esperienza di lavoro e di vita nei campi profughi, delle sue speranze e degli obiettivi per i fedeli della sua diocesi.

Lei è originario della parte sud del Sudan?

Mons. Hiiboro: Sì, sono nato nel Sudan meridionale. E appena nato, dopo due mesi, il mio villaggio è stato attaccato e mia madre è rimasta uccisa. Io sono stato cresciuto con mia nonna che è fuggita dalla guerra, rifugiandosi nella Repubblica del Congo.

Ho vissuto lì per nove anni. Sono cresciuto in un campo profughi. Nel 1972 sono rientrato in Sudan, dopo l’accordo di pace di Addis Abeba, e ho proseguito i miei studi che sono stati poi nuovamente interrotti a causa della guerra del 1983. Siamo scappati a Khartoum dove ho finito il seminario.

Sono quindi un rifugiato in tutto e per tutto. Sono stato sfollato e so cosa vuol dire lasciare il proprio Paese senza avere più niente. Quindi quando queste persone tornano a casa, capisco veramente le loro difficoltà perché conosco la situazione in cui si trovano.

Come è riuscito a mantenere la fede lungo questo percorso così difficile?

Mons. Hiiboro: Devo ringraziare mia nonna, che mi ha cresciuto nel Cattolicesimo.

Quando ero piccolo mi ha insegnato a pregare, cosa che per me è diventata un’abitudine.

Mi svegliava sempre chiedendomi se avevo recitato le preghiere. Prima di andare a dormire si pregava insieme e quando mi svegliavo al mattino mi diceva: “adesso devi pregare; devi ringraziare Dio di essere vivo”.

Così ho imparato in tutta la mia vita a vedere Cristo in ogni situazione. Per questo è anche diventato il mio motto come Vescovo.

Qual è il suo motto?

Mons. Hiiboro: “Cristo è definitivamente risorto”. Cristo, in tutte le sue sofferenze e nell’essere inchiodato sulla croce, non è rimasto lì, né è rimasto nella tomba.

Si è svegliato, si è alzato, si è elevato. Quindi, dietro ogni croce c’è la vita. Cristo sta lì; dietro e sotto la tomba, e al di sopra, c’è la vita. Così, credo che le nostre difficoltà in Sudan, i nostri problemi nella diocesi di Tombura-Yambio non finiranno, ma da queste noi risorgeremo.

Verremo alla vita e io vedo la vita alla fine. Questa è la mia speranza, questa è la speranza in cui credo.

È stato un grande cambiamento quello di passare da una vita accademica, improvvisamente, ad essere Vescovo?

Mons. Hiiboro: Sì, certamente. Ho accolto la mia nomina episcopale con sentimenti contrastanti, perché volevo progredire nel campo accademico. A me piace leggere e scrivere e ho appena pubblicato l’ultimo libro: “Human Rights, The Church in Post-war Sudan”.

Avrei voluto approfondire la scrittura, ma ora questo cambiamento, che mi chiama ad essere Vescovo di una diocesi grande e difficile, sconvolge i miei programmi e i miei sforzi indirizzandoli completamente verso la mia diocesi.

Ma io so che è Dio che mi ha chiamato a questo lavoro; è opera sua. E nel suo disegno sono sicuro che non mi lascerà solo. Lui sarà con me. Si prenderà cura di me. E mi ha affidato della gente straordinaria, gente che crede in Dio. E io lavorerò con loro. Mi hanno dimostrato, sin dal primo momento della mia ordinazione, una grande gioia nell’accoglienza, che mi ha dato forza e che mi ha convinto che non sarò solo a sostenere la responsabilità di questa diocesi.

Alla sua ordinazione lei stesso ha detto che è un onore e un onere. Qual è l’onere che ha assunto con il suo ruolo?

Mons. Hiiboro: L’onere è la croce delle persone: lavorare con le persone in situazioni difficili; la vita, la realtà di vita che stanno vivendo, la possibilità di costruire la pace tra loro, la possibilità di avere una vita produttiva con una piena dignità umana, la possibilità di esercitare i loro diritti umani ed essere liberi figli di Dio.

So che non è facile; non è una strada facile. So che la situazione è difficile. Lo posso vedere; lo posso sentire.

Per me questo è l’onere. Soprattutto quello di instaurare la pace in quel Paese, nella mia zona; una pace duratura. Ma è un privilegio perché sono un sacerdote, sono cattolico, sono cristiano.

Perché è un privilegio in tale condizione?

Mons. Hiiboro: È un privilegio perché ho la possibilità di realizzare il progetto di Dio. È un privilegio parlare in nome di Dio.

È un privilegio portare la Buona Novella della salvezza a persone che ne hanno tanto bisogno.

La gente è pronta ad accogliere il messaggio di salvezza?

Mons. Hiiboro: Sì. La cosa interessante della mia diocesi è che prima era una comunità aristocratica. La gente aveva il proprio re e davano ascolto ai regnanti.

Quando sono arrivati i cristiani, 97 anni fa, il Cristianesimo ha sostituito questa tendenza ad allearsi con i re e la gente ha accolto il Cristianesimo. Non si riuscirebbe a trovare una persona su cinque che non menzioni il nome di Dio.

Si vede quindi che la gente ama il proprio Dio; che ha un rapporto con Dio. L’ho potuto constatare anche in occasione della mia consacrazione: era palpabile la grande gioia della gente.

E visitando le parrocchie vedo questa grande gioia che hanno nell’accoglienza. Lo vedo anche alla presenza della Santa Eucaristia, nella frequenza con cui si avvicinano ai sacramenti e nel loro stile di vita. Tutto questo mi incoraggia e mi dimostra che sono aperti alla Buona Novella di Dio. Questo mi dà molta speranza.

È molto il lavoro da fare per costruire una pace duratura?

Mons. Hiiboro: Il lavoro che ho davanti è molto, ma io la vedo così: la prima cosa che devo fare è approfondire il processo di evangelizzazione della mia gente.

Devono conoscere Dio. Devono sentirsi a casa con lui. Devono fare l’esperienza di Dio e che questo diventi la base su cui costruire una pace duratura.

In ogni occasione parlo con la gente perché mettano Cristo al centro e a fondamento di tutto ciò che fanno, perché solo se ci convertiamo a lui che è l’autore della pace, saremo in grado di costruire la pace.

Quali sono le difficoltà?

Mons. Hiiboro: La gente è stata traumatizzata per lunghi anni.

Non hanno esperienza di pace. L’unico modo che conoscono per ottenere qualsiasi cosa è attraverso la violenza; devono farsi largo con la forza.

Quindi l’instaurazione di una cultura della pace sarà un processo graduale. Devo andare avanti lentamente. Sto svolgendo una ricerca per individuare i punti che ancora ostacolano la costruzione della pace.

A causa della guerra, molte persone sono fuggite come profughi in diversi Paesi, e ora stanno rientrando con mentalità differenti. Abbiamo anche molti profughi interni che sono fuggiti in altre zone all’interno del Paese. Tutti rientrano con mentalità differenti. E abbiamo persone che non hanno mai lasciato la propria terra anche in tempo di guerra. Anche queste persone hanno un approccio differente.

Mettendo insieme tutte queste persone, il processo di integrazione diventa molto difficile. Ma dobbiamo avanzare, rispettando i tempi di ciascuno di questi gruppi, cercando di far emergere un obiettivo comune.

Dobbiamo trovare l’equilibrio di una pace giusta tra di noi, in cui ci sia l’accettazione di ciascuno di noi.

Ci può raccontare qualcosa della sua esperienza? Ha lavorato anche con i profughi?

Mons. Hiiboro: Sì, quando ero studente a Khartoum, prima della mia ordinazione, e anche quando ero appena ordinato, ho lavorato con i profughi a Khartoum. Sono stato inviato dall’Arcivescovo in uno dei campi profughi chiamato Jebel Aulia, nella parte nord della città di Khartoum.

Eravamo il primo gruppo di persone ad essere portato nel campo profughi e la vita era piuttosto dura. C'era il deserto. Potevo vedere madri che scavavano nel terreno per mantenere caldi i loro figli. Era inverno. Faceva molto freddo e non c’era molto da mangiare.

La vita era dura ed è stato allora che abbiamo perso dei figli. Mentre la gente veniva a fare la pappa i loro figli venivano rapiti e noi dovevamo denunciarne la scomparsa.

Dopo un anno sono stato mandato nella Repubblica Centrafricana per essere rettore di un seminario minore in un campo profughi. Sono rimasto lì per sette anni e potevo vedere quali fossero le difficoltà della gente che viveva fuori dalla propria terra. La vita era dura e io cercavo di prendermi cura dei seminaristi del campo. Dovevamo fare rattoppi per consentirgli di restare e dovevamo coltivare il cibo per dare da mangiare questi giovani e a tutte le persone dell’area. Quindi ho fatto esperienza della vita dei profughi e degli sfollati.

Qual è il suo appello?

Mons. Hiiboro: Il mio appello è triplice. Chiedo l'amicizia di tutti. Vorrei che veniste a visitare la mia diocesi. Vorrei volontari. Ho bisogno di persone che vegano a tenderci la mano. Venite a visitarci e se ci fosse qualcuno che può restare a lavorare con noi, sarebbe fantastico.

Come secondo appello vorrei che sceglieste alcuni progetti per fronteggiare le emergenze e costruire fiducia e autosufficienza, per consentire alla gente di cavarsela da sola. I campi sono diversi: sanità, istruzione, assistenza sociale.

Il terzo appello è per il consolidamento della pace nel Paese. Non è un progetto facile; è difficile; è delicato e può fallire in qualunque momento. Noi facciamo la nostra parte, ma abbiamo bisogno dell’apporto dei nostri amici che sono stati con noi durante il tempo di guerra e durante i contrasti, così che questa pace sia ancora assicurata e non rischi di fallire.

Vi ringrazio molto e so che accetterete il mio invito a visitarci e la mia richiesta di scegliere alcuni progetti che possano portare all’autosufficienza e al consolidamento del processo di pace nel Paese. Vi ringrazio molto per il grande sostegno che ci avete dato nel passato. Ci avete mantenuti in vita.

In conclusione potremmo dire che Dio piange in Sudan, ma che noi vogliamo farlo sorridere.

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Questa intervista è stata condotta da Marie-Pauline Meyer per "Where God Weeps", un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network in collaborazione con l'organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre.




Per maggiori informazioni: www.WhereGodWeeps.org