CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 20 giugno 2010 (ZENIT.org).- Tre milioni. Tante sono le donne rifugiate a lungo termine nel mondo, ha ricordato la Caritas in questa domenica in cui si celebra la Giornata Mondiale del Rifugiato.
Le donne rifugiate, spiega l’organizzazione, “sono particolarmente vulnerabili ad abusi dei diritti umani nel caso in cui siano costrette ad abbandonare le proprie case per lunghi periodi”.
Di fronte a questo, la comunità internazionale “può fare di meglio per difenderle dalla violenza”.
“La comunità internazionale deve mostrare la volontà politica di assicurare una difesa come garantita nei trattati internazionali”, ha dichiarato Martina Liebsch, direttore delle Politiche di Caritas Internationalis.
Attualmente nel mondo ci sono più di 10 milioni di rifugiati. Circa i due terzi sono vittime di crisi di 5 anni o più lunghe.
Le donne fuggono spesso da conflitti in Paesi come la Colombia, il Sudan, l’Iraq e l’Afghanistan, vivendo il più delle volte in luoghi insicuri come campi improvvisati senza protezione.
“In questi campi le donne possono diventare vittime di violenza”, ha detto Martina Liebsch. “Sono più vulnerabili agli attacchi perché devono spesso uscire dal campo per far fronte alle necessità fondamentali delle famiglie, come procurarsi legna per il fuoco e acqua”.
Per questo motivo, per la Caritas è essenziale garantire una migliore sicurezza nei campi e favorire le donne al momento di riferire atti di violenza per avere accesso alle procedure giudiziarie.
“I programmi di sussistenza per le donne sono un fattore chiave”, ha aggiunto la Liebsch. “Se si dà a una donna la capacità di provvedere a sé e alla propria famiglia in un ambiente sicuro, non sarà costretta a correre rischi fuori dal campo”.
L’esperienza pratica della Caritas nei campi di rifugiati del Benin, nell’Africa occidentale, mostra che fornire ruoli di leadership alle donne migliora la loro sicurezza.
“Il modo migliore per fornire sicurezza è risolvere le crisi perché i rifugiati possano tornare a casa”, ha concluso la Liebsch. “Le alternative sono sostenere l’integrazione nella comunità ospite o il reinserimento in un altro Paese”, favorendo l’acquisizione di capacità “perché la gente possa crearsi una nuova vita”.