Sul crocifisso nelle scuole

ROMA, sabato, 19 giugno 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito stralci, riportati da “L’Osservatore Romano”, dell’editoriale dell’ultimo numero de “La Civiltà cattolica” intitolato “Il crocifisso nelle scuole”, dedicato all’esame, il 30 giugno da parte della Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo, del ricorso presentato dal Governo italiano nei confronti della sentenza della Corte di Strasburgo che vieta l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche.

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Il ricorso presentato dal Governo italiano contro la sentenza della Corte di Strasburgo del 3 novembre 2009 critica la decisione della Corte, la quale ha affermato che la presenza del Crocifisso nelle aule scolastiche contrasta con la necessaria neutralità che uno Stato dovrebbe avere nell’esercizio delle proprie funzioni pubbliche. Anzi, ha ritenuto che questo simbolo possa essere una fonte di turbamento emotivo per gli alunni che credono in un’altra religione o che non credono affatto. Insomma, per i giudici di Strasburgo l’esposizione del Crocifisso contrasterebbe con le necessarie garanzie di pluralismo educativo di una società democratica.

Per giustificare la rimozione del Crocifisso dalle aule scolastiche — scrivevamo nel quaderno del 5 gennaio 2002 — in Italia ci si appella alla laicità dello Stato: lo Stato italiano, si dice, non riconosce più la religione cattolica come religione di Stato; la Repubblica è diventata uno Stato laico e, perciò, non può accettare che simboli religiosi siano esposti in un luogo pubblico come la scuola. Che valore ha questo argomento?

Il suo valore dipende dal significato che si attribuisce al termine «Stato laico». Infatti, secondo molti, oggi questo termine significa che lo Stato deve ignorare il fatto religioso, anzi deve positivamente escluderlo; in altri termini deve essere, se non dichiaratamente contro la religione, positivamente areligioso e considerare la religione un fatto privato, senza alcuna rilevanza pubblica. Ma, così inteso, lo Stato non è «laico», ma «laicista».

In realtà, la laicità è cosa diversa dal laicismo. Infatti, a differenza di quest’ultimo, la laicità dello Stato significa che lo Stato non fa propria nessuna religione particolare, in quanto è incompetente in campo religioso e non persegue finalità religiose, ma deve riconoscere e rispettare il fatto religioso, promuovere, favorire la più ampia libertà religiosa e facilitare l’esercizio della loro religione a coloro che lo desiderano, nel rispetto dell’ordine pubblico, della pubblica moralità e della legalità. Agendo in tal modo lo Stato laico riconosce e favorisce il diritto dei cittadini a praticare la propria religione.

Carlo Cardia (cfr. Identità religiosa e culturale europea, 2010, p. 23) riconosce che, «anche in termini giuridici, la sentenza  costituisce un vero e proprio strappo nei confronti dei cardini essenziali sui quali sono nati e si sono sviluppati i processi di integrazione europea. (…) Uno strappo che ha fatto temere a molti l’incrinatura di quegli equilibri tra Stati membri e istituzioni europee che nessuno fino a oggi aveva messo in discussione».

Fra gli altri riprendiamo quanto ebbe a dire il professor Francesco Margiotta Broglio nel 2006. «Non esiste — disse — una definizione comune o univoca di laicità. Ciascuno Stato ha la sua storia di libertà religiosa; ciascun sistema giuridico ha, a modo suo, integrato le religioni nella democrazia e definito la neutralità nello spazio pubblico; ciascun sistema giuridico, infine, ha stabilito la propria specificità nella gestione del pluralismo religioso, nella regolamentazione delle confessioni religiose e delle organizzazioni non confessionali». Perciò in una tale materia è il principio di sussidiarietà che viene messo da parte nella sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Invece, secondo la precedente giurisprudenza della Corte di Strasburgo, agli Stati viene lasciato un ampio margine in tema di libertà religiosa. Citando affermazioni della stessa Corte si può dire: «In ragione del loro diretto e continuo contatto con le forze vitali dei loro Paesi, le autorità degli Stati sono in linea di principio in una posizione avvantaggiata rispetto al giudice internazionale».

Fra l’altro, andando contro la propria giurisprudenza più volte confermata e contro quanto scrivevamo nel quaderno del 5 dicembre 2009, la Corte non ha tenuto nel dovuto conto il principio della rilevanza dell’appartenenza della stragrande maggioranza della popolazione italiana alla religione cattolica. La sentenza in tal modo — nota C. Cardia (cfr. ivi, p. 50 s) — evita di riconoscere (come sarebbe stato doveroso) che la presenza del Crocifisso nelle aule scolastiche ha il valore di un semplice e coerente richiamo a questa realtà sociale tanto antica quanto attuale e che esso quindi non assume alcun carattere di imposizione, ma costituisce il riflesso di uno dei caratteri di identità dell’Italia conosciuto in tutto il mondo.

Nella relazione che accompagna la Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione, elaborata dal ministero dell’Interno italiano, si afferma positivamente: «Il segno, o il simbolo religioso, non è, non può essere mai uno strumento di offesa per chi ha un’altra fede. Esso costituisce un mezzo che esprime le diversità e può arricchire gli altri interlocutori. Se non si afferma questo principio le società multiculturali sono destinate a vivere in un continuo stato di fibrillazione, facile a sfociare in veri conflitti interconfessionali, e rischiano così di ricadere nel passato. Per entrare nel merito, se in un Paese i segni o i simboli della religione tradizionale sono collocati in edifici pubblici non si può chiedere di toglierli per motivi di multiculturalità, perché essi esprimono, secondo le leggi di quell’ordinamento, una identità o una radice storica che meritano rispetto e considerazione. Altrettanto, se in un Paese esistono tradizioni culturali legate a festività religiose — in Italia a festività natalizie, al culto mariano, ad altre ricorrenze — nella scuola, in ambienti giovanili o in altri momenti della vita associativa, volerle eliminare vorrebbe dire proprio intaccare quella ricchezza multiculturale che si vuole invece tutelare e promuovere. D’altronde, nessuno ha mai pensato di eliminare le statue di Buddha nei Paesi nei quali il buddismo vanta una lunga tradizione, o di cancellare festività nazionali che hanno una chiara impronta religiosa riferibile alla religione di maggioranza».

Infine, conclude il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta: «Il simbolo della Croce, esposto nelle scuole italiane e in quelle di moltissimi altri Paesi europei, ma anche nelle bandiere delle nazioni del Nord Europa è qualcosa che non appartiene soltanto alla più gran parte dei cittadini europei, né è espressione esclusiva di un indirizzo confessionale, ma è diventato, per usare le parole di Gandhi, un simbolo universale che parla di fratellanza e di pace a tutti gli uomini di buona volontà. Su questa base si può chiedere una giusta revisione della sentenza di Strasburgo del 2009 per tener ferma la coesione e la solidarietà spirituale dei popoli europei che vogliono camminare insieme mantenendo le proprie identità e tradizioni» (cfr.Identità religiosa, cit.)

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ZENIT Staff

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