Il volontario aborto che dà la vita

di padre Angelo del Favero*

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ROMA, venerdì, 18 giugno 2010 (ZENIT.org).- “Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. I discepoli erano con lui ed egli pose loro questa domanda: “Le folle, chi dicono che io sia?”. Essi risposero “Giovanni il Battista; altri dicono Elia; altri uno degli antichi profeti che è risorto”. Allora domandò loro: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Pietro rispose: “Il Cristo di Dio”. Egli ordinò loro severamente di non riferirlo ad alcuno. “Il Figlio dell’uomo – disse – deve soffrire molto, essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e degli scribi, venire ucciso e risorgere il terzo giorno”.

Poi, a tutti diceva: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà. Infatti, quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?” (Lc 9,18-25).

Ogni volta che parlava alle folle Gesù insisteva nel far comprendere la necessità di ciò che tutti istintivamente non volevano (e non vogliono) sentirsi dire: rinnegare se stessi.

Sì, il cuore della Lieta Novella è un annuncio che non piace a nessuno: è assolutamente necessario rinunciare a se stessi, se si vuole davvero seguire il Signore. Infatti, la mancata comprensione ed accoglienza di questo “nocciolo duro” del Vangelo, impedisce al seme della Parola di sprigionare la vita di Gesù e compiere le opere del Padre nel mondo intero.

Lo afferma implicitamente Paolo quando scrive: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,19b-20a).

Il messaggio di fondo di quest’affermazione vitale è che Dio non ha bisogno delle nostre qualità per agire, non ha bisogno della nostra efficienza perché venga il suo regno.

In definitiva: Dio non ha bisogno di noi per compiere le sue opere, e se qualcuno pensasse di essere necessario a Dio come il pennello al pittore, sarebbe in un grande errore.

Dio ha bisogno solo di una cosa da noi e in noi: l’unione con il suo Figlio Gesù nell’umiltà.

Dio ha bisogno di strumenti responsabili che vivano la spiritualità della croce, la quale consiste nella lieta certezza della potenza, in Cristo debole e crocifisso, dei mezzi umani difettosi e insufficienti, quelli che un politico, o un direttore di azienda, o anche il semplice buon senso vorrebbe subito scartare.

Dio, evidentemente, non disprezza quell’ingegno e quella forza che dona all’uomo fatto a sua immagine, ma per compiere i Suoi capolavori nel mondo ha bisogno di avere in mano l’immobile pennello di un io crocifisso.

Ciò significa che per far trionfare “l’opera della vita”, Dio ha bisogno di uomini..bambini.

Un uomo adulto certamente non può tornare nel grembo di sua madre, ma il suo io può e deve tornare allo spirito d’infanzia, alla semplicità dei piccoli, all’umiltà del cuore. In altre parole l’uomo deve distruggere l’orgoglio del suo io, affinchè lo Spirito Santo lo ricolmi della vita divina e dei suoi doni.

Solo così si manifesteranno per mezzo nostro le grandi cose che l’Onnipotente desidera fare nel mondo, in particolare per ciò che riguarda la causa della vita.

Diciamo allora che c’è un volontario “aborto” da programmare quanto prima nel grembo dell’anima, per concepire e far crescere in noi la Presenza viva ed efficace dello Spirito: l’aborto dell’io “proprio”. Come deve morire l’amor proprio, così deve morire l’io proprio. Questa è la prima delle grandi cose che Dio vuole fare con noi.

Vediamo di capire quest’affermazione alla luce del Vangelo.

Quando Gesù parla di sé, parla del Padre come del suo stesso io, perché vive nel Padre e la sua autocoscienza, per così dire, è il Padre. L’io di Gesù è il Padre.

Perciò Gesù sa bene di non compiere opere proprie, ma quelle del Padre che lo ha mandato, come dichiara apertamente ai Giudei: “Se non compio le opere del Padre mio non credetemi; ma se le compio, anche se non credete a me, credete alle opere, perché sappiate e conosciate che il Padre è in me, e io nel Padre” (Gv 10,37-38).

L’io di Gesù fin dal principio è totalmente espropriato da sé (Gv 1,1), coincide con i desideri e la volontà del Padre, è puro ascolto ed obbedienza al Padre.

Gesù potrebbe aver detto prima di Paolo “non sono io a vivere, ma vive in me il Padre“. In questa perfetta comunione col Padre sta la gioia inalienabile di Gesù.

L’io dell’uomo, al contrario, è radicato nell’amor proprio a causa del peccato originale, ed è per questo che Dio non può compiere le sue opere in noi. Infatti le facciamo diventare opere nostre.

Quando la mia coscienza sarà in perfetta risonanza con l’io di Gesù in me, allora sarò veramente libero, libero da me stesso per essere veramente me stesso in Cristo, poiché avrò crocifisso quel nemico mortale che è la mia volontà ogni volta che vuole ciò che non vuole Dio.

Questa meravigliosa risonanza è operata silenziosamente dalla croce, se la prendiamo ogni giorno al seguito del Signore.

Ascoltiamo la sapienza di Benedetto: “Voi siete diventati uno in Cristo, dice Paolo (Gal 3,28). Non una cosa sola, ma uno, un unico, un unico soggetto nuovo. Questa liberazione del nostro io dal suo isolamento, questo trovarsi in un nuovo soggetto è un trovarsi nella vastità di Dio e un essere trascinati..inseriti in lui che è la Vita stessa. “Io, ma non più io”: è questa la via della croce, la via che “incrocia” un’esistenza rinchiusa solamente nell’io, aprendo così la strada alla gioia vera e duratura” (Benedetto XVI, Omelia alla Veglia di Pasqua, 2006).

Dicendo “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda ogni giorno la sua croce e mi segua” (Lc 9,23), Gesù non intende la rinuncia in termini meramente volontaristici ed ascetici, ma a partire dalla relazione d’amicizia con lui: “..venire dietro a me..”.

Ora, l’adesione a questo libero invito, evidentemente, è inseparabile dalla risposta personale alla domanda che precede: “Ma voi, chi dite che io sia?” (v. 20).

Se infatti Gesù fosse per noi solamente uno dei profeti redivivo, la sua forza di seduzione non sarebbe tale da afferrarci irresistibilmente, come ha fatto con i discepoli. 

Tale risposta non sta sul piano di una conoscenza “teologica”, ma su quello della scelta esistenziale tra “guadagnare il mondo intero” e “perdere la propria vita” per Gesù, perdita che significa la trinità indicata: rinnegare se stessi, prendere la propria croce ogni giorno e seguirlo.

Quando una mamma ed un papà scelgono di sopprimere la vita del loro bambino, è per “salvare la propria vita“; ma in tal modo essi la perdono immediatamente, come il rimorso segnala inesorabilmente.

Se invece accettano di “perdere la propria vita” accogliendo il figlio come dono di Dio, allora subito sentono di averla salvata e come moltiplicata, e sperimentano con gioia, anche nella difficoltà, di essere amati da Colui che è la Vita.

* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

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ZENIT Staff

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