Come rilanciare la qualità urbana e le economie locali


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di Ettore Maria Mazzola*

ROMA, lunedì, 14 giugno 2010 (ZENIT.org).- «Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità. Impegnarsi per il bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall’altra, di quel complesso di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città» (Benedetto XVI, Caritas in Veritate, 29 giugno 2009, n. 7).

Prefazione

Sarebbe possibile, attraverso la conoscenza delle ragioni del degrado sociale e della mancanza di qualità urbana della città contemporanea, trovare una soluzione “sostenibile” a quei problemi? La risposta è affermativa, ma prevede la necessità di liberarsi dall’ideologia modernista che finora ha impedito una lettura imparziale della realtà.

Infatti, la semplice conoscenza degli studi sociologici applicati alle città, nonché quella della Storia dell’Urbanistica italiana – in particolare di quella post-unitaria – ci consente di immaginare quali miglioramenti sociali, ambientali ed economici potrebbero ottenersi operando un processo di “ri-compattamento della cosiddetta città dispersa” ereditata dall’urbanistica del XX secolo.

Risulta però necessario studiare, storicamente e tecnicamente, questo delicato argomento, operando un’analisi dettagliata di carattere storico, sociologico, politico-economico, legislativo e ambientale, i cui risultati vengono ad essere di fondamentale aiuto per la realizzazione della tanto auspicata “città sostenibile“.

Lo Studio

Una ricerca di questo tipo ci ha condotto a riscoprire le norme e gli strumenti che resero possibile la realizzazione di quei quartieri popolari (e non) della Roma del primo Novecento i quali, pur realizzati nel momento più nero del problema casa generato dalla crescita esponenziale del numero di abitanti – circa 1.000.000 in pochi anni – vennero costruiti in tempi brevi e con qualità tali che oggi li fanno equiparare al valore immobiliare del centro storico. La conoscenza di quelle norme e strategie ci ha consentito di comprendere come fu possibile dare una soluzione al problema lavoro, rinvigorendo la piccola e media imprenditoria locale “minacciata” dall’industria, individuando così la possibile strada da seguire oggi per migliorare le sorti economiche del Paese.

La cosa interessante che è emersa, è data dall’aver compreso come quelle intelligentissime norme e strumenti di un tempo possano convivere, ed aiutarsi vicendevolmente, con una serie di strumenti e norme di oggi (Patti Territoriali, Contratti di Quartiere, Società di Trasformazione Urbana, Project Financing, ecc.).

Uno degli aspetti più interessanti di questa ricerca è quello dato dall’analisi comparativa, tra i costi reali di costruzione – attualizzati utilizzando i coefficienti di rivalutazione ISTAT – di una serie di edifici realizzati dall’Istituto per le Case Popolari di Roma entro il 1930, e quelli dell’edilizia corrente, nonché con quelli relativi alla costruzione del disastroso complesso popolare di “Corviale” realizzato a Roma tra il 1975 e l’82: questa analisi ci ha condotto a risultati sconcertanti circa le verità nascoste delle politiche speculative dell’edilizia del XX secolo, come di quella corrente: l’edilizia tradizionale può arrivare a costare dal 16,35% fino al 40,74% in meno!

Ma un’analisi di questo tipo, specie nell’era della ricerca della presunta sostenibilità, andava estesa anche alle verità nascoste della cosiddetta bio-architettura. È stato pertanto operato un confronto di questa con i principi e le tecniche dell’architettura tradizionale, intendendosi con questa quell’architettura prodotta fino all’avvento dell’industrializzazione del processo edilizio: anche in questo caso si sono evidenziati gli enormi vantaggi, economico-ambientali, dell’architettura tradizionale rispetto a quella industriale.

Ovviamente, un ruolo centrale nella ricerca è stato quello delle problematiche sociologiche della città contemporanea. Il confronto di queste, con situazioni similari di cento anni fa, ci ha consentito di comprendere quanto sarebbe importante far tesoro di quelle esperienze per migliorare la condizione di vita di oggi.

La critica e la proposta

Purtroppo, il modo in cui dalla seconda metà dell’ottocento ad oggi si è intervenuti sulle città, sull’architettura e sulle arti in generale, e soprattutto il modo in cui dopo l’avvento del modernismo è stato condotto l’insegnamento universitario, ha impedito – talvolta inconsciamente – di farci rendere conto delle conseguenze sugli esseri umani, derivanti dall’aver messo la scienza e la macchina al centro di tutto, dimenticandosi delle reali esigenze dell’uomo.

Non v’è più l’idea della città, si procede per zonizzazione delle funzioni, indici di cubatura, standard e distanze di “rispetto”. Non v’è più alcuna attenzione per la creazione del senso di appartenenza, per la scala degli edifici, per il rapporto tra essi e la larghezza degli spazi, per la necessità di luoghi per la socializzazione, per la sicurezza stradale data dalla presenza di attività al di sotto degli edifici, per il senso del bene e del bello comune. Perfino la tipologia degli edifici è stata soppiantata dall’idea di “spazi polivalenti”, risucchiando nel vortice dell’astrazione perfino la progettazione degli edifici di culto, un tempo generatori di urbanità, ed oggi relegati all’interno di lotti protetti da muri e recinti che suggeriscono una volontà di non interfacciarsi più con i fedeli, se non nelle ore di Messa!

Questo studio si propone di riportare le città ad avere dei caratteri nuovamente modulati sull’uomo e l’ambiente, pur rispettando le “regole” della vita moderna, dimostrando che uomo e veicoli, interessi pubblici e privati, costruzione e ambiente naturale possono convivere, addirittura sostenendosi vicendevolmente.

A tal proposito, a conclusione dello studio, è stata indicata una strategia operativa, articolata in 20 punti, per il riassetto urbanistico delle nostre città, partendo dal riconoscimento del fatto che esse risultano prevalentemente costituite da vuoti.

Nel 1907 Giolitti lamentò:

«Se in principio, nel 1870, vi fosse stata un’Amministrazione comunale che, intuendo l’avvenire di Roma, avesse acquistato le aree fino a 5 o 6 km intorno alla città, ed avesse compilato un piano di ingrandimento, studiato con concetti molto elevati, oltre ad avere creato una città con linee molto più grandiose, avrebbe anche fatto un’eccellente speculazione»[1]

Oggi quei terreni pubblici ci sono, e possono essere un tesoro per il rilancio economico del Paese .. volontà permettendo.

1) Per l’edilizia della capitale, Camera dei deputati, tornata 16 giugno 1907, Discorsi, vol. III, p. 969.

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* Il prof. Ettore Maria Mazzola è docente di Architettura e Urbanistica presso la University of Notre Dame School of Architecture Rome Studies.

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ZENIT Staff

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