La Chiesa è il soggetto della fede

Seminario di ecclesiologia proposto dalla rivista “Communio” sul tema “Credo Ecclesiam”

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VENEZIA, sabato, 22 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervento pronunciato dal Cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, il 19 maggio presso la Caserma Cornoldi di a Venezia dove si è tenuto un seminario di ecclesologia proposto dalla rivista “Communio” (Rivista Internazionale di Teologia e Cultura) sul tema “Credo Ecclesiam”.

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«Credo sanctam ecclesiam, sed non in illam credo, quia non Deus sed convocatio vel congregatio christianorum et domus Dei est»1. Con questa formulazione il vescovo medievale Bruno di Würzburg2 esprime, nell’orizzonte del Credo apostolico, in modo sintetico ed efficace la natura della Chiesa. Essa è il soggetto che consente al cristiano la confessione di fede. Professare nel simbolo la propria fede è possibile solo se si è parte del soggetto adeguato a confessare il Credo. Il singolo credente è tale solo se fa propria ogni volta la fede della Chiesa. Per questo la Chiesa viene proposta, in quanto con-vocatio vel con-gregatio christianorum e domus Dei, come l’organismo vitale che confessa la Trinità, Gesù Cristo, lo Spirito, la vita eterna.

È la prospettiva che mi permetto di suggerire in apertura dei lavori di questo Seminario organizzato in occasione dell’incontro delle redazioni della Rivista Internazionale Communio che verte quest’anno sull’ecclesiologia. Nell’ottica del Credo Ecclesiam si comprende bene la presentazione di questo Seminario. A quasi cinquant’anni dall’apertura dell’ultimo Concilio Ecumenico, si riconosce esplicitamente che «l’ecclesiologia del Vaticano II nasce dalla precedente tradizione della Chiesa, certo rinnovata e ringiovanita per opera dello Spirito, ma in ogni caso in continuità con la precedente vita della Chiesa».

L’affermazione si rifà all’ormai celebre discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana, in occasione degli auguri natalizi, il 22 dicembre 2005. Da allora si sono moltiplicati gli interventi e le pubblicazioni intorno a quello che in modo generico è stato identificato con il binomio rottura/continuità. Certamente il discorso del Papa non è stato il solo fattore che ha favorito una rinnovata riflessione sulla ricezione del Vaticano II. Basti pensare, ad esempio, alla conclusione della pubblicazione della Storia del Concilio Vaticano II, diretta da Giuseppe Alberigo e all’ampio dibattito che essa ha suscitato3. Ma insieme a quest’opera potremmo citarne altre non meno decisive: l’enciclopedico commento a tutti i testi conciliari diretto da Peter Hünerman e da Hilberath, nonché i contributi di autori come Routhier, Theobald, O’Malley e altri ancora.

Vorrei fare cenno al tema della Chiesa come soggetto della fede ed ambito della confessione del credente partendo proprio da una citazione puntuale di quel discorso di Benedetto XVI. Le sue parole, se lette con la dovuta attenzione, superano il binomio continuità-rottura introducendo la categoria più appropriata di ermeneutica della riforma. Benedetto XVI mostra l’insostenibilità della tesi della rottura ma, nello stesso tempo, è ben lontano dal proporre una scontata “continuità” che, tutto sommato, non resisterebbe agli appunti mossi da una critica equilibrata.

«Tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L’una ha causato confusione, l’altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino».

Come dicevo qui il Papa identifica nell’ermeneutica la questione-chiave della riflessione circa la ricezione del Vaticano II. E lo fa contrapponendo due ermeneutiche contrarie.

Tuttavia il primo dato molto significativo è che per citare tali ermeneutiche contrapposte non fa ricorso ad una terminologia che oppone simmetricamente “discontinuità-continuità”, “rottura-continuità”, ma parla di: “ermeneutica della discontinuità e della rottura” da una parte e di “ermeneutica della riforma” dall’altra. Ci troviamo, pertanto, di fronte ad una prima indicazione che impedisce di identificare la proposta del Papa con le “ermeneutiche della continuità” di stampo più o meno marcatamente tradizionalista. La proposta del Papa aiuta a comprendere che “continuità” non può significare che il Concilio Vaticano II debba essere letto e assunto semplicemente ricorrendo al magistero precedente come chiave ermeneutica compiuta.

Ma più interessante ancora è la definizione che Benedetto XVI dà dell’ermeneutica della riforma. Egli la descrive come «rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino».

Questa definizione mi sembra contenere tre nuclei decisivi di pensiero.

Anzitutto dice di chi si deve affermare la continuità: dell’unico soggetto-Chiesa;

con la proposizione relativa «che il Signore ci ha donato» il Papa identifica l’origine di tale soggetto e, pertanto, la ragion d’essere della sua permanenza come soggetto dalla chiara identità nel tempo;

infine specifica il chi è questo soggetto: il Popolo di Dio in cammino.

Continuità e rinnovamento non sono in alternativa proprio perché stiamo parlando della Chiesa, Popolo di Dio, soggetto la cui origine è nel disegno salvifico della Comunione Trinitaria ma che è ancora in cammino verso la patria definitiva.

Mi sembra che queste indicazioni aprano prospettive feconde per il lavoro teologico nei prossimi anni. Ne cito tre: 

a. L’elaborazione di una ecclesiologia del soggetto Chiesa, riprendendo l’indicazione balthasariana sul Chi è la Chiesa? Personalmente sono convinto che questo esiga una doppia concentrazione dell’ecclesiologia in chiave antropologica e sacramentale4.

b. La peregrinatio, e quindi tutta la dimensione storica ed escatologica, come forma della vita della Chiesa, con le relative, talora scottanti implicazioni.

c. La centralità della fede: la Chiesa è il soggetto della fede. Da qui la necessaria attenzione al legame esistente tra Dei Verbum e Lumen gentium, per un’adeguata ermeneutica del corpus dottrinale del Vaticano II. 

Sono semplici suggerimenti per il lavoro comune.

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ZENIT Staff

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