Quale futuro per la nostra eredità mistico-profetica?

ROMA, sabato, 15 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la relazione pronunciata il 9 maggio scorso a Roma, in occasione dell’assemblea plenaria dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali (Uisg), da padre Bruno Secondin, O.Carm., docente di Teologia spirituale e Spiritualità moderna alla Pontificia Università Gregoriana, e animatore di incontri di Lectio divina presso la Chiesa di Santa Maria in Traspontina (www.lectiodivina.it).

 

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Il ramo di mandorlo e la pentola bollente”

(Ger 1,11-13)

Quale futuro per la nostra eredità mistico-profetica?

Mistica e profezia appartengono al codice genetico della nostra identità ecclesiale e della nostra missione per il Regno di Dio: lo hanno ripetuto tutti i relatori, e a loro mi associo anch’io. Il vero profeta sorge e resta autentico attraverso una speciale esperienza mistica di Dio che lo segna e lo invia, lo sostiene e lo consola nelle crisi. Una mistica autentica, come incontro con il Dio vivente e amante della vita, non può che alimentare – ed esprimersi in – una azione profetica audace e liberatrice.

Così le nostre famiglie religiose: sono nate da una intuizione mistica che ha nutrito e provocato una risposta evangelica dentro la situazione storica, e sono state guidate sempre da una passione operativa per il bene vero di uomini e donne tribolati e umiliati. Questa intuizione e questa passione si sono alimentate nel dialogo cuore a cuore con il Dio della vita e della speranza e nella familiarità con i contemporanei.


PRIMA PARTE: Giro di orizzonti

Hanno scritto i padri sinodali a conclusione della IX Assemblea dei Vescovi dedicata alla vita consacrata: “La vita consacrata è stata, lungo la storia della Chiesa, una presenza viva dell’azione dello Spirito, come spazio privilegiato di amore assoluto a Dio e al prossimo, testimone del progetto divino di fare di tutta l’umanità, all’interno della civiltà dell’amore, la grande famiglia dei figli di Dio” (Messaggio finale, 27 ottobre 1994).

E Giovanni Paolo II nell’esortazione postsinodale Vita Consecrata ha riconosciuto: “Il carattere profetico della vita consacrata è stato messo in forte risalto dai Padri sinodali. Esso si configura come una speciale forma di partecipazione alla funzione profetica di Cristo, comunicata dallo Spirito a tutto il popolo di Dio. È un profetismo inerente alla vita consacrata come tale, per il radicalismo della sequela di Cristo e della conseguente dedizione alla missione che la caratterizza” (VC 84)[1].


1. Facile verifica, ma con precauzione

Se analizziamo la nascita e le periodiche rinascite della vita consacrata o cerchiamo all’interno di ogni nostra famiglia religiosa di capire la vicenda spirituale, ecclesiale e storica dei fondatori e delle fondatrici: sempre troviamo questi due elementi[2]. Da dove derivano la creatività, l’inventiva, l’audacia di iniziative e diaconie delle nostre famiglie, la fedeltà fino al martirio, se non dalla mistica più inesprimibile e dalla profezia più incandescente?

Abbiamo parlato di mistica e di profezia non per elevarci al di sopra dei nostri reali problemi, o per navigare nei mondi virtuali dei principi essenziali e degli orizzonti senza confini. Ma al contrario, per ritrovare in queste due dinamiche la giusta ermeneutica che renda il carisma ereditato un vero impulso trans-generazionale. Essa sarà premessa e sorgente di una nuova storia tutta da inventare e da vivere.

Vogliamo capire come proseguire in una sequela Christi autentica e per la causa del Regno, affidandoci all’impulso dello Spirito, suscitatore e guida dei nostri carismi. Gesù ha assicurato che il compito dello Spirito è quello di essere ermeneuta della memoria e guida “verso la verità tutta intera” (cf. Gv 16,13).

Dobbiamo aprirci un varco verso il futuro, in compagnia di questa umanità: come una volta si aprivano delle radure in mezzo alle foreste, per fondarvi una nuova civitas. Ci sono dei semi di futuro che ancora possono germogliare dalle nostre radici così antiche, c’è una creatività che ci appartiene e va ritrovata ed esercitata con nuova arte carismatica e profetica (VC 37). Ci sono urgenze e chances che ci interpellano e ci sfidano dentro la storia attuale e le sue angosce. Ci sono utopie e speranze che dobbiamo intercettare ed evangelizzare, grazie alla sapienza orientatrice e terapeutica dei nostri carismi (VC 103).

Fecondità e creatività non possono essere inventate per teorema sociologico o per malcontento religioso: ma provengono dai piani alti dei progetti di Dio, che vuole redimere e fecondare anche questa nostra fase storica, trasformandola. Dio lavora nel nostro presente per condurlo oltre ogni paralisi e ogni fatalismo, verso una fraternità universale. Noi siamo chiamati ad esserne interpreti e servitori, abitati dalla utopia di Dio.


2. Imparando dall’esperienza del profeta Geremia

Geremia è stato un profeta in tempi difficili, quando stava maturando una grande catastrofe sul destino del popolo. Il suo è un linguaggio carico di partecipazione, ardore, forza, di immagini e simboli. Sono parte viva della sua profezia la sua stessa persona, la sua sofferenza, le sue crisi frequenti[3].

I due simboli del ramo di mandorlo e della pentola bollente, si trovano in apertura dei suoi oracoli: è la memoria della sua vocazione (avvenuta circa l’anno 627 a.C.). Questa pagina è stata scritta intorno al 604 avanti Cristo, cioè da un quarantenne, a oltre vent’anni dalla esperienza originaria. Per ventitre anni quella esperienza era rimasta non tematizzata, ma certo vivida e sorgente di coraggio. Ora ritorna in luce, di fronte al gesto sacrilego del re Ioiakim, che con totale disprezzo aveva tagliuzzato e bruciato il rotolo che conteneva tutto quanto Geremia, con l’aiuto di Baruc lo scriba, aveva fatto scrivere di tutte le cose dette dal Signore (Ger 36,1-32).

Perciò la scrive non “un giovane pieno di entusiasmo per l’incontro con la Parola, pieno di illusioni per la missione che dovrà svolgere, ma un uomo deluso, che ha esperimentato molti insuccessi e però è stato fedele alla vocazione iniziale”[4]. Il ricordo della grazia iniziale – possiamo dire del carisma profetico di origine – serve a dargli forza, a riconoscere che, nonostante tutto, lui ha solo obbedito a Dio. A quel momento “originante” si aggrappa Geremia, per restare ancora fedele, per superare lo shock di quella profanazione.

Teniamo avere presente l’intero primo capitolo di Geremia. La prima parte (vv. 4-10), è quella fondamentale della vocazione costitutiva: c’è un dialogo tra Dio che ha fatto la sua scelta e il giovane Geremia, che proclama la propria impreparazione. È la coscienza di una scelta imposta che proviene dalla volontà di Dio libera e assoluta: “sono io con te” (vv. 8.19); “metto le mie parole sulla tua bocca” (v. 9). Il profeta non possiederà che la sola parola allo stato “incandescente”, e dovrà prenderla con mani nude. Essa sarà fuoco e terrore, ma anche poesia e intuizione, canto e pianto, più forte di tutti.

Seguono poi quattro immagini: fermiamoci alle due prime immagini: non sono immagini suggerite da Dio, ma sono visioni di Geremia, lo interpellano, e devono essere spiegate. Dio stesso offre la sua spiegazione.

a. Il ramo di mandorlo: si tratta non di un albero, ma di un ramo (maqqēl) che fiorisce. Una immagine agricola, una produttività vitale che Dio garantisce, e che segnala l’arrivo della nuova stagione. Il mandorlo è il primo a fiorire all’arrivo della primavera. Il termine mandorlo (šāqēd) suona simile al termine vigilante/guardiano (šōqēd), e perciò si presta a un gioco di parole, che Dio stesso dà spiegando l’immagine vista. “Io vigilo sulla mia parola per realizzarla” (v. 12).

Sarà come la fioritura precoce del mandorlo: la Parola di Dio segnala in anticipo l’azione di Dio, e il profeta ne è annunciatore, stando di sentinella. Geremia annuncerà una primavera di disgrazia, di condanna e distruzione, per la infedeltà del popolo. Ma non con il gusto di vedere andare
tutto in rovina, di assistere impotente alla distruzione della speranza. Dio “vigila” sulla “realizzazione” della sua Parola: non ci si può prendere gioco di Dio.

Il profeta deve essere custode di questa vigilanza di Dio, di questa presenza esigente, di questa purificazione che sarà medicinale e non vendetta. In questa situazione Geremia si fa anche profeta di intercessione: si porrà in mezzo, confessando la propria delusione e fatica, ma anche la fiducia in Dio. In mezzo a situazioni tragiche la voce interpellante di Geremia e le sue “confessioni” saranno testimonianza che c’è ancora speranza, c’è ancora rugiada feconda sulla terra.

b. La pentola bollente: rappresenta una scena casalinga. Del liquido bollente esce da una caldaia che si rovescia. È il “dilagare di una sventura” (v. 14) che scenderà dal valico storico del Nord – ecco il senso della pentola “inclinata da settentrione” – e travolgerà tutto. Non è Dio che fa disastri, e non sono neppure i popoli i veri devastatori, ma è il popolo stesso, guidato da capi inetti, a portare a realizzazione il disastro, con la sua idolatrica perversa. Perderà per sempre la sua identità e la sua autonomia, perché ha dimenticato le sue radici e la sua alleanza con Dio, cercando altri padroni a cui assoggettarsi.

Anche se all’apparenza tutto è catastrofe, la stagione della speranza germoglia insieme a quella del disastro, e germoglia da dentro: grazie alla “vigilanza” di Dio, grazie alla tenace resistenza del profeta. Il profeta è “vigilante” insieme a Dio della verità della Parola, ma anche testimone della fatica del popolo di credere ad un futuro migliore e di agire per un futuro migliore. Il profeta deve saper discernere le tracce di Dio e della sua Parola feconda ed efficace nella situazione complessa, caotica, globale, segnalando sentieri nuovi. Ma ha un carattere timido, cade spesso in depressione, e si sente violentato da Dio stesso, più che protetto (cf. Ger 20,7).


3. Applicando alla nostra eredità

Abbiamo detto che questa pagina è stata scritta nel contesto di una crisi profonda del profeta Geremia. Ripensa la sua vocazione: la scelta è stata di Dio, solo di Dio: ed è consacrazione e missione, tenerezza e fuoco insieme, illusione e violenza. Facile applicare questa prospettiva alla nostra situazione, quando le illusioni svaniscono.

Anche noi come Geremia possiamo moltiplicare le “confessioni” disperate, cariche di amarezza e di ribellione impotente. Oppure possiamo – appunto come Geremia resistente – ripensare le radici di questa nostra avventura, l’esperienza fondativa che a tutto ha dato inizio. Sì, non ci siamo inventati noi il carisma, non ci siamo inventati noi la missione di edificare e sradicare, distruggere e piantare, gridare e intercedere.

Il Signore ha donato e consacrato all’origine – prima nei padri e madri fondatori, e poi in ciascuno di noi – questa identità, questa missione, questa avventura a rischio. Ci ha chiesto di mettere in gioco tutto, la sua Parola e la sua presenza, la sua fedeltà incrollabile e la nostra fragilità, le pentole bollenti della malvagità planetaria e i segni fragili dell’invisibile sua presenza affidabile. Seppure una parte degli Istituti religiosi conoscono la fatica della sopravvivenza, o la fragilità di una primavera non ancora stabilizzata, non possiamo perdere la speranza.

Certo abbiamo vissuto anche di illusioni: ci siamo illusi che i nostri templi sacri, le nostre alleanze strategiche, i nostri granai ripieni, le nostre statistiche in progresso, fossero benedizioni di Dio, premio acquisito e consolatore. E non era così, oggi lo vediamo bene. Già per conto suo anche la società postmoderna ha dilapidato il patrimonio dei valori ereditati e vive danzando irresponsabile sull’orlo dell’abisso ecologico, finanziario, culturale, antropologico[5]. Non precipitiamo insieme nel buco nero del catastrofismo! Ritroviamo le ragioni di una speranza teologale che ci appartiene, ed è ancora ispiratrice.

Noi dobbiamo riscoprire l’incandescenza dell’esperienza originante: quando eravamo fragili come un ramo di mandorlo fiorito, ma anche audaci come una pentola in ebollizione. Solo così possiamo diventare di nuovo interlocutori sapienti e non sbadati, audaci e non paralizzati, fiduciosi in Dio in maniera nuova e mistica. Ma anche esploratori di sentieri intravvisti appena e subito interrotti, intercessori solidali e protagonisti critici. E apriamo nuovi sentieri di diaconia e fiducia in una Chiesa che pare abbia paura della profezia e manca di coraggio per attraversare le notti oscure di una postmodernità delle passioni tristi[6]. Diamo nuovo linguaggio e nuova forma alla nostra funzione simbolica, critica, trasformatrice nella chiesa e nella società[7].

Non riduciamo l’identità a un feticcio, a un santuario taumaturgico. La crisi in atto assomiglia alla caldaia bollente che tutto devasta. Impegniamoci ad essere come quel ramo di mandrolo che fiorisce e annuncia nuove stagioni. Dobbiamo abitare gli orizzonti, amare gli orizzonti, percorrere nuovi orizzonti, non vivere a cespuglio[8].


SECONDA PARTE: Raccogliere le perle preziose

Le relazioni che hanno ritmato fino qui le nostre giornate, ci hanno mostrato il calore bianco della mistica unitiva e illuminativa, che ci porta sui sentieri alti e misteriosi del Dio vivente – l’Essere, come ci ha ben specificato Rabbi Arthur Green – al quale ci si avvicina con empatia e stupore.

Ma c’è stato in questi giorni anche il fuoco divorante della profezia, che come un fuoco irrompe e tutto travolge, tutto movimenta, proprio come forza inquieta e liberante della Parola. Le relazioni di Sr. Judette Gallares e di Sr. Liliane Sweko sono state proprio questo fuoco che fa esplodere il cuore (Ger 4,19; 20,9) La ouverture di p. Ciro Garcia ha offerto la chiarificazione serena e sapiente dei concetti guida e delle possibili applicazioni. Ascoltando l’invito di Geremia: “Pianta dei cippi, metti pali indicatori, sta’ bene attento alla strada, alla via che hai percorso” (Gr 31,21), tentiamo di raccogliere alcune indicazioni.


1. I sentieri dell’empatia e un cuore in ascolto

Con un argomentare tipico della tradizione rabbinica più genuina – ravvivata dalla tradizione chassidica, rivisitata con una esperienza aperta a nuove “scintille di santità” – Rabbi Arthur Green ci ha introdotto ad un misterioso “giardino interiore”. La proposta di traduzione del noto tetragramma (YHWH) come “Essere” ci ha avvicinato al mistero ineffabile dell’Unico, il Santo, di cui siamo tutti immagine: da riconoscere e da custodire con empatia, inclusione e vigilanza.

La mistica non è oggetto di assalto o di scalata vertiginosa, ma anzitutto dono e incontro da riconoscere e amare, anche attraverso passaggi di lotta e di terrore. Bella quella scoperta del monoteismo da parte di Abramo – nella esclamazione “Ah!” – dopo aver frantumato gli idoli del padre Terach! “La trascendenza risiede all’interno dell’immanenza… La trascendenza significa che Dio è qui”. Siamo prossimi alla grande mistica cristiana, alla tradizione dell’immensità pervasiva della presenza di Dio. Questa è la mistica.

Col suo commento, intenso e sfidante, attorno all’icona di Lidia di Tiatira (At 16,11-15), sr. Judette Gallares ci ha esposto al rischio e alla sorpresa di una Parola dalle risonanze misteriose e capaci di accompagnare il percorso di conversione secondo il paradigma proposto da Lonergan. E quindi ha dato al tema della conversione una dinamica esploratrice e liberatrice nuova: che si accosta ai percorsi vertiginosi dell’avventura mistica, e insieme mostra la fonte incandescente da cui nasce la profezia. Il processo di conversione fa scoprire i dinamismi di una vera conversione, che conosce momenti di oscurità, passaggi
di risveglio, esplosioni di entusiasmo che tutto travolge, condivisione quieta e calda delle nuove convinzioni. Ma si , e completa infine col movimento di integrazione trasformatrice e solidale con l’ambiente.

Sappiamo che in seguito Paolo verso la comunità domestica di Filippi ha avuto una particolare predilezione: ne ha conservato una memoria carica di premura e dedizione, interessandosi del suo sviluppo: e proprio nella lettera a quella chiesa Paolo donerà il gioiello dell’inno cristologico (Fil 2,5-11). La semplicità di quegli inizi e la fragilità della situazione, viene dall’apostolo così riletta alla luce della icona del Figlio di Dio fattosi servo, annientato fino alla morte, ma vittorioso e sovrano del cosmo.


2. Come scintille di profezia

Il ruolo di sr. Liliane Sweko, lo paragonerei a quello di una rabdomante di scintille perdute – per citare una leggenda ebraica sull’incompiuto della creazione. Ella ha scavato nelle viscere dalla nostra storia presente, per incontrare e segnalare scintille di profezia che scorrono fra le stoppie (cf. Sap 3,7) delle nostre paure e le incendiano. Ha citato nomi di uomini e donne a tutti familiari – da mons. Romero a Teresa di Calcutta, da Etty Hillesum a Dorothy Stang, da Madeleine Delbrêl al vescovo Munzihirwa, alle centinaia di suore africane assassinate – e da queste figure ha estratto molteplici scintille, sempre uniche e originali, che devono permanere vive e capaci di suscitare ancora tra noi una schiera di “ministri come fiamma di fuoco” (Ebr 1,7).

La loro memoria deve restare come quel ramo fiorito di mandorlo, cioè come un segnale fragile ma efficace, che rischiara le notti epocali. Possono assomigliare a quella pentola bollente del profeta: come profezia che non si esaurisce, come torrente impetuoso di carità e generosità, che rivela quanto è capace di fare una vita donata ed esposta al rischio per seguire Cristo (cf. VC 86).

Alle tre grandi categorie profetiche della denuncia, dell’annuncio e della rinuncia, Sr. Liliane ha aggiunto la funzione ispiratrice della fraternità e fatto appello a una nuova formazione in processo, che renda capaci di discernere e districarsi, con competenza e strategia adeguata. Cioè ci vuole sempre una strategia intelligente che affianca la profezia generosa.


3. Una sapienza orientatrice

La densa e precisa conferenza di p. Ciro Gracia, posta in apertura delle nostre riflessioni, può anche essere ripresa ora a lavoro ampliato, e servirci come griglia e crogiolo. Perché ha anticipato gli orientamenti chiarificatori che era opportuno seguire, ed ha posto le premesse utili per raccogliere e fondere insieme gli orizzonti che si sono aperti. Egli ci ha avvertito subito che bisogna collocare il nostro discorso sulla mistica e la profezia nel contesto di un risveglio evidente (talora selvaggio e confuso), di tipo culturale e religioso, che alimenta un mercato di nostalgie e di evasioni consolatorie, dentro le quali ci possono essere degli aneliti legittimi.

Con molti riferimenti a settori vitali, padre Ciro ci ha fatto capire che tocca a noi farci interlocutori sapienti e pazienti di attese e sfide: solo presenze coscienti, critiche e trasformatrici indicheranno nuovi percorsi. Dobbiamo essere mistici e profeti, cuori nuovi e appassionati, e occhi penetranti che intuiscano da che parte sorgerà il sole, mentre tutti sono tristi per lo spegnersi della luce della sera. Noi abbiamo nella memoria ereditata un alto tasso di mistica e di profezia: tocca a noi sapere rimettere in gioco questa eredità. Questo è il tempo degli eredi!

La scuola della profezia sta nell’ascolto obbediente e assiduo della Parola: da lì germoglierà sia l’incontro con il cuore di Dio, che attira a sé e stringe in un abbraccio di unità trasformante, e sia l’ardore di una profezia si fa strumento di consolazione e liberazione. Dobbiamo aprire pozzi nuovi che dissetino la nuova sete di valori puliti e generosi, dobbiamo aprire nuovi cantieri per “riparare brecce” (Is 58,12) di case in rovina, per riabitarle insieme, come esperti e aperti all’ospitalità e alla comunione. Dobbiamo ridare splendore alla logica della gratuità e del dono, riscoprire il valore delle risorse povere e dei piccoli segni: “La ‘città dell’uomo’ non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione” (Benedetto XVI, Caritas in Veritate, 6).


TERZA PARTE: Profeti, poeti,
pragmatici

Cosa si deve fare allora? Come rimanere simili al ramo di mandorlo che fiorisce e annuncia una nuova stagione, e come conservare l’incandescenza, l’irruenza e la creatività delle origini? Cerchiamo qualche segnale che ci aiuti ad abitare gli orizzonti aperti e che consenta e favorisca ai nostri carismi un percorso e un impatto diretto, efficace, critico e trasformatore allo stesso tempo.

Profezia è parola liquida, versatile, polisemica. Altrettanto la parola mistica è evasiva, impalpabile, acategoriale, inesprimibile e oggi anche sontuosa. Nessuna delle due è nata allo stato puro: sono nate già rivestite di stracci e sensi, secondo luoghi e culture. E quindi nel nostro uso, dobbiamo fare attenzione perché non siano usate come innocenti e nudi strumenti: occorre fare attenzione ai percorsi semantici che le hanno rivestite [9]. Padre Ciro ce lo ha accennato; ma anche Rabbi Arthur ci ha segnalato questi filamenti. Sr. Judette fin dall’inizio ci ha invitato – con una citazione di M. Buber – a riconoscere che l’ esperienza religiosa di Dio è vera quando implica un messaggio di trasformazione, una audacia profetica generata dall’interno dell’incontro misterioso con Dio. Sr. Liliane ha esemplificato la pluralità di esperienze originali e significative, seppure in contesti ecclesiali e sociali differenti.

Non dobbiamo parlare del nostro tema partendo da troppo lontano. Nonostante fatiche e incubi, “la lampada di Dio non è ancora spenta” (1Sam 3,3). Sotto certi aspetti forse non rimane molto olio, forse c’è poco vigore (cf. Ap 3,2), in particolare in alcuni istituti dell’emisfero Nord, che certamente conoscono riduzioni numeriche e forze indebolite. Ma la storia e la memoria hanno ancora un vigore nascosto, ma rovente, come le brace sotto la cenere[10]. E Dio conosce questo fuoco segreto: “Dio infatti non è ingiusto tanto da dimenticare il vostro lavoro e la carità che avete dimostrato verso il suo nome, con i servizi che avete reso e che tuttora rendete ai santi” (Ebr 6,10). E perciò parliamo perché “desideriamo soltanto che ciascuno di voi dimostri il medesimo zelo perché la sua speranza abbia compimento sino alla fine, perché non diventiate pigri, ma piuttosto imitatori di coloro che, con la fede e la costanza, divengono eredi delle promesse” (Ebr 6,12).


1. A partire dallo Spirito di profezia

Noi tutti siamo eredi e fruitori attivi di una esperienza fondativa, che chiamiamo carisma: ogni carisma ha nella sua fase sorgiva sia la peculiarità della mistica che quella della profezia. Il carisma della vita consacrata ha per protagonista generatore e orientatore lo Spirito Santo: egli ha reso possibile in noi l’incontro vitale con la salvezza operata attraverso Gesù Cristo. Per riprendere l’analogia con l’episodio di Lidia (At 16,11-17), il Signore (che in questo caso è lo Spirito) ci ha segnati e disegnati per una avventura evangelica che fosse ricevuta come dono gratuito di compiacenza e vissuta come missione/impegno che consacra e trasfigura valori e mete, orientando la vita in maniera chiara e determinata.

Parlare di profezia, è parlare anzitutto della specialità dello Spirito, che “ha parlato per mezzo dei profeti”, come diciamo nel Credo. E continua a parlare per mezzo dei profeti: e questo “parlare” – come le vocazioni profetiche ci insegna
no – è avvenuto all’inizio per mezzo di una esperienza forte, mistica, travolgente, che non ha lasciato scampo a fughe o rifiuti. “Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso” (Ger 20,7). E da quel giorno nel cuore del fondatore e della fondatrice “c’era come un fuoco ardente” (Ger 20,9) che stritolava le ossa e la vita. E questa esperienza ci è stata trasmessa per conoscerla e custodirla, per viverla e svilupparla in sintonia con il Corpo di Cristo in perenne crescita (cf. Mutuae Relationes 11).

Il carisma è appunto un dono di profezia, che nasce però da dentro la coscienza di essere chiamati ad assumerci il dono della salvezza, e contribuire al suo impatto storico, come impegno e sfida, e non come deposito chiuso. Non vi è esperienza di unione e fusione con il Dio vivente se non tramite e grazie allo Spirito, che apre la porta della fede e dell’amore. Come non vi è profezia se non nell’orizzonte dello stesso Spirito: egli conosce i “disegni del Padre” (Rom 8,27) e si interpone perché ce ne facciamo coscienti e responsabili. Li interpreta “appellandoci” ad una scelta responsabile, perché ci mettiamo in gioco e ci lasciamo condurre verso la loro piena realizzazione.

Il carisma non va trascinato stancamente, né interpretato con tristezza. È stato donato e trasmesso con un ardore che ha bruciato ostacoli e resistenze, non si può trasmettere nella manutenzione, nella routine della fede sterile e fasulla, nella carità di facciata, in un senso ecclesiale meschino e vago. Il carisma sarà fecondo solo se possediamo “un cuore pensante” (Hetty Hillesum) e innamorato, e se riportiamo il carisma alla motivazione generante, per cui ci è stato dato. Senza riletture e senza rifondazioni creative i carismi diventano sterili: la loro fecondità si misura sul moltiplicarsi delle interpretazioni innovative, e non su letteralismi rigidi. È questa l’esperienza che si incontra – e genera meraviglia e sorpresa – quando i nostri carismi sono comunicati ai giovani di culture diverse da quella occidentale: vi trovano significati, sapori e valenze che a noi sembravano inesistenti, si offrono di viverli e rinnovarli da protagonisti. È questa sorpresa che tante volte abbiamo nel dialogo con le giovani dell’Africa, dell’America latina, dell’Asia: non solo sono giovani di età, ma hanno un approccio nuovo e rigeneratore ai carismi che noi avevamo catalogato in schemi e forme sacralizzate.


2. In Cristo e con Cristo la nostra eredità mistica e profetica

“Per restare fedele a Cristo e al Regno di Dio veniente, la Chiesa, che sovente si adatta alla mondanità, ha bisogno di comunità che seguano radicalmente Gesù e mostrino la libertà di Cristo”[11]. In questo cristocentrismo radicale ha senso e fecondità sia la passione per Dio che la passione per la storia umana. Lo Spirito lavora in noi – con tutti i mezzi che conosciamo – per una adesione conformativa e totalizzante ai “sentimenti di amore e di compassione” che furono in Cristo Gesù (Fil 2,1.5). Non ha altro scopo e altro modello l’attività dello Spirito se non di “formare il Cristo in noi” (Gal 4,19). ”La vita consacrata costituisce memoria vivente del modo di esistere e di agire di Gesù come Verbo incarnato di fronte al Padre e di fronte ai fratelli” (VC 22).

Ripartire da Cristo è stata la proposta sintetica ed efficace di Giovanni Paolo II a conclusione del grande Giubileo, per contemplare il suo volto di Figlio di Dio, il volto del Sofferente, il volto del Risorto. Ma anche per seguirlo nella vita della santità e del servizio, della dedizione al Regno e della solidarietà con i poveri e gli ultimi[12]. Riconcentrarci in Cristo deve essere una sfida sempre aperta per noi stessi, se vogliamo accostarci alle soglie della mistica e della santità, e tracciare sentieri di profezia. “Non c’è dubbio che questo primato della santità e della preghiera non è concepibile che a partire da un rinnovato ascolto della Parola di Dio (NMI 39).

Carisma, profezia e mistica da questa porta passano: il carisma non è che una parola evangelica “abbreviata”, ma abbraccia l’intera ricchezza della rivelazione e, per così dire, focalizzandola la dinamicizza. Perchè orienta l’intero spectrum dell’esistenza umana e cristiana verso uno “stile” che parli e incida, come dice il teologo Christoph Theobald. Il tema della concordanza fra contenuto e forma nella cultura attuale ha generato tutto un altro modus vivendi, che è una vera accozzaglia di esperienze frammentate, come osserva il sociologo Z. Bauman. Viviamo progetti a breve termine ed episodi giustapposti che non consentono orientamenti verticali (cioè stabili), ma solo laterali, cioè fughe e diversioni (divertissement, alla Pascal), mosse strategiche per sottrarsi e accelerazioni pàniche per non rimanere incastrati[13].

Nella nostra sequela Christi dobbiamo introdurre in maniera coerente e vivibile le nuove cristologie: esse hanno da offrire numerosi impulsi al nostro carisma, per rigenerarlo e arricchirlo nella prassi. La cristologia che viene riflessa nelle teologie della vita religiosa a volte appare lontana dai progressi attuali, dalla rilettura “pneumatologica” della identità e della missione di Cristo, dalla contestualizzazione nella esperienza delle vittime della violenza e della nuova coscienza femminile, dal dialogo leale con le grandi tradizioni religiose dell’Africa e dell’Asia. La nostra è una stagione di originale riflessione teologica su Cristo e di prassi innovative: possiamo paragonarle alla grande stagione dei Padri (IV-V secolo). Come sarebbe più efficace e significativa una sequela Christi in categorie e simboli africani, asiatici, latinoamericani! In tutti questi contesti sia esperienze ecclesiali che lavori dei teologi hanno aperto a nuovi modelli e nuove mistagogie. Spesso si tratta di esperienze guidate e tematizzate da religiose e religiosi: e dietro spesso vi è una capacità profetica che proviene da una vera storia mistica, che non manca del collaudo martiriale. È proprio questo carattere mistico-profetico-martiriale che rende queste vie degne di accoglienza e di integrazione. Ammoniva Lutero: “Non legendo vel studendo, sed patendo immo et moriendo fit theologus”.

Non si tratta di qualche cosa che deve rimanere relegato a quel continente o a quel contesto culturale: può e deve essere offerto (e deve venire assunto) anche in altri continenti e contesti. Può essere introdotto nel linguaggio universale, nelle grandi sintesi teologiche, nella forma pratica di vivere e testimoniare, di formare e governare, di pregare e discernere. Perché dovrebbero prevalere solo il linguaggio e lo schema mentale e culturale della tradizione europea? Penso che se riuscissimo davvero a intrecciare queste nuove ricchezze, se lavorassimo di più per la convivialità delle differenze, per uno scambio di doni, ritroveremmo un ruolo ecclesiale nuovo e originale, costruttivo e ispirativo. In fondo tutto è frutto dello Spirito, e “chi siamo noi per porre impedimento a Dio”? (At 11,17).


3. In cammino con il popolo

Oggi siamo molto più coscienti della dimensione ecclesiale della nostra consacrazione: in passato si dava più enfasi sullo sforzo religioso individuale e isolato. E la Chiesa era come una specie di scenario esterno, o deposito di cose utili e sante. E non era anzitutto il popolo protagonista del progetto di Dio e in cammino con tutta l’umanità verso orizzonti di giustizia e libertà, di fraternità e di redenzione piena. La teologia ci ha avvertito, con più lucidità che in passato, che non solo la Chiesa, ma anche Gesù Cristo stesso è al servizio del Regno, è impegnato a dargli forma. Nelle sue parabole egli segnalava esigenze e urgenze per l’avvento del Regno, e non realizzazioni già fissate.

Assumere questa coscienza di una Chiesa rela
tiva
e protesa al Regno, con Cristo primizia e servitore del Regno, implica anche riportare qui, a questa soglia, tutti gli aspetti trattati in precedenza. A cominciare dalla funzione profetica, che non è monopolio o esclusività nostra, ma è una qualità intrinseca di Cristo e comunicata a tutto il popolo di Dio, mediante lo Spirito (cf. Gl 3,1-5 e At 2,17-18). La vita consacrata ha un suo modo peculiare di vivere questo comune compito, mediante la speciale consacrazione e la professione secondo i consigli evangelici. Si tratta di “tensione totalizzante” (VC 6), che non si eleva semplicemente in verticale, ma è il lievito che fermenta, è la memoria inquieta e sovversiva che agita il sottosuolo dell’umanità, è risorsa tipica con cui abitare tra la gente, con cui mettere in crisi ogni altra attesa e progettualità.

La nostra deve essere una vita credibile e affidabile, non solo per l’onestà con cui viviamo in coerenza con gli impegni assunti pubblicamente. Ma anche per la capacità di essere interpreti del desiderio di salvezza e di felicità, specie per chi ha subito violenza e torto, ma anche per chi li ha prodotti. Viene qui opportuno richiamare il cuore del profetismo, il rîb profetico. Si tratta di una particolare “procedura giuridica” biblica, di tipo bilaterale[14], nella quale colui che ha subito un torto ed è stato vittima di un reato, si rivolge direttamente al colpevole, accusandolo del male fatto. Ma questa accusa è fatta non con l’intento di punire e umiliare, ma perché il colpevole si ravveda, prenda coscienza e sperimenti che “fare il male” “fa male”, e quindi si incammini verso il bene, e si lasci ricondurre all’amicizia.

Applicando alla storia della salvezza, vediamo bene che proprio questo è l’atteggiamento di Dio davanti alle nostre colpe: ci accusa e ci richiama, per ristabilire l’alleanza e la fedeltà. Al servizio del rîb divino, il profeta mette in opera diversi linguaggi e stili di appello e denuncia, per raggiungere la coscienza del popolo, e abbattere le barriere e gli alibi difensivi. In questa nostra società rissosa e terrorizzata, fanatica e impaurita, giustizialista e vendicativa, la profezia dei religiosi potrebbe essere proprio al servizio del rîb divino, non come minacciosa denuncia fine a se stessa, ma come “interpellazione”, terapia di guarigione, inter-cessione che sveglia le coscienze. E si esercita con la non-violenza, con la scelta di gesti di misericordia e di gratuità, di giustizia intrecciata alla solidarietà, alla compassione, alla empatia[15].

Gli esempi di profezia che sono stati portati nelle relazioni hanno proprio questa caratteristica “empatica”: e potrebbero essere moltiplicati, aggiungendovi anche quelli di tanti mistici e mistiche del dialogo e della ospitalità, della non violenza e della riconciliazione[16], della custodia del creato e del riscatto delle culture oppresse, delle “comunità inserite”.

Non è certo privo l’emisfero Nord di profeti e di mistici, anche se a volte la loro testimonianza sembra l’unica che esiste. La penuria di vocazioni e l’invecchiamento preoccupante dei membri sta provocando in alcuni luoghi degli esercizi di sopravvivenza che lasciano perplessi: l’innesto un po’ improvvisato di vocazioni appartenenti ad altre culture e sensibilità non è privo di problemi e incertezze. Perché non credere anche nella valenza profetica dell’ars carismatica moriendi? Non si tratta del morire in santa pace, senza disturbare, ma di morire sprizzando ancora scintille attorno, “senza lasciarsi cadere le braccia” (cf. Sof 3,16). Scintille di sapienza dolce e mite come tutte le persone anziane donano; trasparente fede che riconosce che solo Dio è il valore e la sostanza di una vita; umile testimonianza fatta di opere e giorni che solo per Dio hanno preso forma e nel grembo di Dio si depositano. Gratitudine per essere stati fatti degni di amarlo e servirlo assieme a tante persone generose e piene di carità.

Sarebbe bello che invece di avventurarsi in nuove aperture pseudomissionarie a scopo di “importare” vocazioni a sostegno di opere e stili di vita che forse non sono proprio icona del “Regno di Dio”, si riuscisse a dare testimonianza di una serenità che non coabita con la nevrosi di perpetuare se stessi. Trasmettere la sensazione che ancora ha senso la vita, che il bilancio non ottura la fonte della fedeltà a Dio e dell’abbandono a lui, dopo aver vissuto e lottato per lui, non sarebbe messaggio profetico e professione di fede in Dio, l’unico che vale? Riuscissimo davvero a sentire la verità di questo canto: “Io conosco bene la fonte che zampilla e scorre, benché sia notte”. E cantarlo nonostante tutto, in una società che ha il mito della giovinezza, dell’efficienza, del vigore ad ogni costo, magari col viagra e accanimenti terapeutici. Anche questo sarebbe messaggio profetico e speranza che apre ad altri orizzonti[17].


4. La mistica del quotidiano

Pare che la nostra epoca religiosa non abbia più grandi mistici scrittori e manchino anche i profeti operatori di grandi imprese. Piuttosto incontriamo mistici e profeti che nel quotidiano sanno intuire e abitare gli interstizi che rendono possibile gettare il seme di una riconciliazione e di una liberazione trasformatrice. Uomini, e soprattutto donne, che riescono a restare aggrappate al reale opaco e povero, immettendovi germi di compassione e di solidarietà, di gratuità e liberazione. Con una tenacia che sfida le resistenze più dure, con una paziente fiducia che scava anche nei pregiudizi più ostinati, con una gratuità che disarma e sconcerta ogni intenzione mercantile e efficientistica. Ecco è qui che si incontrano molte donne consacrate che vogliono essere segno e fermento di quel Regno per il quale siamo consacrati in castità, povertà e obbedienza, pro salute mundi.

Senza una vita gomito a gomito con chi si aggira senza meta e senza radici, o senza speranza e col volto sfigurato dalla violenza e dalla ingiustizia, la profezia è ideologia, la mistica è di plastica. Questa “quotidianità” è la ricca esperienza di sempre nei nostri istituti, ma oggi si fa più rischiosa e anche pericolosa: perché il quotidiano in tante situazioni è davvero pericoloso, il pane di ogni giorno è mescolato con violenze e umiliazioni, i sogni e i diritti di dignità e libertà sono calpestati con impunità scandalosa. Credo che per restare là, continuare a condividere paure e lacrime, sperando e lottando, ci voglia una forza interiore che non si vende al mercato, ma si ottiene nel silenzio dell’implorazione e nel sostegno reciproco.

Sono queste comunità esposte e incerte sul loro futuro, e non solo sul presente, che rappresentano come una grande fioritura di mandorli: segni fragili e gratuiti, indicazione di una primavera che molti implorano, ma pochi sanno anticipare. Rami di mandorlo che “vigilano” e mantengono accesa la speranza e l’attesa, proclamano – a volte proprio in mezzo a una selva di pentole bollenti, che rovesciano rovina e devastazione su popoli e nazioni – che ancora scorre linfa dalle radici, ancora è possibile una novità dove tutto è distruzione. Certo a paragone delle grandi opere del passato, a confronto con la modernità efficiente e il budget sostanzioso di altre situazioni e chiese, sembrano risorse infime, effimere, che in ogni momento potrebbero sparire. Ma la loro forza sta proprio lì: nel radicamento locale che le rende amate da tutti, rispettate anche dai prepotenti, ospitali e fiduciose, libere e capaci di audacia. Gli esempi sono facili da accumulare, e tutte voi potreste portarne.

Mitezza e forza, fragilità e resistenza, sogno e realismo, si mescolano e si alimentano reciprocamente. E sono queste realtà che danno la vera forza ai nostri istituti, la segreta linfa che fa fiorire il carisma e non si lasciano travolgere da idoli falsi. Sono i luoghi dove, raso terra, si coltiva il dialogo autentico e confide
nte in Dio, e si tessono legami con gli ultimi e i flagellati, portando insieme le tenebre del Calvario e la certezza della risurrezione. La loro vita non ha difese o pretese rispetto al vivere degli altri: solo comunione e condivisione, sobrietà serena e orizzontalità immediata. Aveva ragione Romero: “La gloria di Dio è che i poveri siano liberati”.

Forse per la concezione “sacrale” della vita religiosa e l’atteggiamento “distaccato” del nostro stile di vita questo non va bene; ci interessa più la forma che la sostanza dei valori, la differenza più che la somiglianza, la diffidenza più che convivialità. Credo che Dio faccia altri calcoli, come il Vangelo ci mostra (cf. Mc 12,41-44).


Conclusione aperta

Termino con un’ultima provocazione. La nostra capacità profetica non soffre, a volte, di un deficit, quando si tratta di dare risposte profetiche a situazioni difficili? Come mai non riusciamo ad essere convincenti testimoni di una fedeltà mistica, di una esistenza trasfigurata eppure affettivamente sana ed empatica?

Negli ultimi mesi ha turbato la Chiesa e la sua testimonianza lo scandalo della pedofilia dei sacerdoti: la reazione ecclesiale si è basata su richiami a leggi e deplorazione pubbliche. La nostra consacrazione nella verginità e nella castità avrebbe potuto contribuire a mostrare la radice mistica di una fedeltà gioiosa e limpida, e aiutare a realizzare una accoglienza delle vittime più empatica e guaritrice.

Le sofferenze e i disagi causati dalla Visita Apostolica alla vita religiosa femminile negli USA o in altre situazioni difficili e complesse, non dovrebbero privarci di parresia profetica, in nome di una esperienza matura, di una fede che libera energie e diaconie nuove. È più facile far sentire la vostra voce profetica nei disastri naturali piuttosto che nelle problematiche ecclesiali e civili: Haiti e Cile, Darfur e Regione dei Grandi Laghi, Israele e Pakistan e tanti altri luoghi, sono stati areopaghi di inventiva e solidarietà, che avete esercitato in piena autonomia e creatività. Lo stesso avviene ora con rete internazionale Talitha-Kum-Religiose contro la tratta delle persone che avete lanciato con molto coraggio e autonomia.

Queste diverse crisi o iniziative sono un Kairòs di purificazione, ma possono anche essere occasioni per esprimere la creatività e la genialità femminile. Manca, a volte, una lettura empatica e compassionevole, ma sostenuta dalla parresia di parole e opere, che è frutto di una trasfigurazione che avviene per grazia. La donna consacrata ha questa grazia speciale: la deve coltivare nell’intimo, ma anche offrirla profeticamente, a ritmo di donna, proprio nei momenti meno limpidi e nelle tragedie umane più gravi.

E se la donna, e in particolare la consacrata, saprà partecipare da protagonista non solo alla catarsi collettiva per gli sbagli e gli scandali, ma anche alla sfida di una nuova logica del servizio e della gratuità, potremo tornare a cantare il Cantico dei Cantici con cuore pensante, ma anche con occhi limpidi e a passo di danza. Perché amore e tenerezza, sogno e attesa, pianto e canto, mistica e profezia, devono intrecciarsi, per una nuova Chiesa e a beneficio di tutta l’umanità.

 

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1) Sul profetismo nel Sinodo e nell’esortazione postsinodale rimandiamo a: Per una fedeltà creativa. La vita consacrata dopo il Sinodo, Paoline, Milano 2005, 349-373 e Il profumo di Betania. La vita consacrata come mistica, profezia e terapia, Dehoniane, Bologna 2007, 94-106.

2) Una documentazione utile nel libro: J. M. ALDAY (ed.), I religiosi sono ancora profeti?, Ancora, Milano 2008.

3) Per una interpretazione esegetica, ma aperta a significati suggestivi: L. ALONSO SCHÖKEL-J.L. SICRE DIAZ, I profeti, Edizione italiana a cura di G. Ravasi, Borla, Roma 1996, 451-746. Una proposta di lectio divina: C.M. MARTINI, Una voce profetica nella città. Meditazioni sul profeta Geremia, Centro Ambrosiano- Edizioni Piemme, Casale Monferrato 1993.

4) C.M. MARTINI, Una voce profetica, 81.

5) Cf. H. JONAS, Sull’orlo dell’abisso. Conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, Einaudi, Torino 2000.

6) Cf. il felice titolo del libro: M. BENASAYAG-G. SCHMIT, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2005.

7) Una panoramica della situazione attuale: AA.VV. , Dio oggi. Con lui o senza di lui cambia tutto, Cantagalli, Siena 2010.

8) Una prospettiva generale, ma che ci interessa: J.J. TAMAYO-ACOSTA, Nuevo paradigma teológico, Trotta, Madrid 2003.

9) Fra la letteratura infinita che c’è, rimando alle indicazioni date da C. Garcia. Aggiungo: R. ZAS FRIZ DE COL,Teologia della vita cristiana. Contemplazione, vissuto teologale e trasformazione interiore, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010; AA.VV., The Experience of God today and Carmelite Mysticism. Mystagogy and Inter-Religious and Cultural Dialog. Acts of the International Seminar, Zidine, sept. 2007, KIZ, Zagreb 2009. E segnalo anche una rilettura dell’eredità in queste due chiavi: B. SECONDIN (ed.), Profeti di fraternità. Per una visione rinnovata della spiritualità carmelitana, Dehoniane, Bologna 1985.

10) Più volte è stato citato il bel libro di J.D. CHITTISTER, Il fuoco sotto la cenere. Spiritualità della vita religiosa qui e adesso, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998.

11) J. MOLTMANN, La Chiesa nella forza dello Spirito, Queriniana, Brescia 1975, 420.

12) Mi riferisco alla nota enciclica Novo Millennio Ineunte, di Giovanni Paolo II, 2001. Ma si tenga presente anche l’Istruzione della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, Ripartire da Cristo. Un rinnovato impegno nella vita consacrata nel terzo millennio, Libreria Editrice Vaticana 2002.

13) Cf. Z. BAUMANN, Modernità liquida, Laterza, Roma-Bari 2006; ID., La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna 1999.

14) Cf. P. BOVATI, Ristabilire la giustizia. Procedure, vocabolario, orientamenti, Analecta Biblica 110, PIB, Roma 1986, 21-148. Vedere anche B. COSTACURTA, “Ti farò profeta tra le genti” (Ger 1,5). I profeti nella Bibbia, in J.M. ALDAY, I religiosi sono ancora profeti?, 28-32; sulla chiave del pathos e dell’ethos si sviluppa il libro di A. HESCHEL, Il messaggio dei profeti, Borla, Roma 1981.

15) Offre spiegazioni concrete J. RIFKIN, La civiltà dell’empatia, Mondadori, Milano 2010. Vedi anche L. HUNT, La forza dell’empatia. Una storia dei diritti dell’uomo, Laterza, Roma-Bari 2010.

16) Interessante esempio: D. VIALI, Se la pace è donna. Una provocazione a partire dalla “sante paciere”, Dehoniane, Bologna 2005.

17) Ho cercato di allargare il discorso in B. SECONDIN, Abitare gli orizzonti. Simboli, modelli e sfide della vita consacrata, Paoline, Milano 2002.

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ZENIT Staff

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