di padre Angelo del Favero*
ROMA, venerdì, 23 aprile 2010 (ZENIT.org).-“Ricorreva allora a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno. Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone. Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dissero: ‘Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente’. Gesù rispose loro: ‘Ve l’ho detto e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola’. Di nuovo i Giudei raccolsero delle pietre per lapidarlo” (Gv 10,22-31).
“Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. (…) Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: ‘Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello. (…) Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita’ (Ap 7,9.14b-17).
“Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. (…) I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo” (At 13,48.52).
La IV Domenica di Pasqua è detta del “Buon Pastore”, e coincide con la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni di “speciale consacrazione”. Entrambe le cose suonano forse estranee al nostro mondo e alla semplice vita familiare, ma riflettendo sul contesto delle Letture proposte e sul fondamento battesimale di ogni vocazione cristiana, possiamo fare nostro il messaggio della liturgia.
Al tempo di Gesù, i pastori vivevano in una tale intimità di vita con le loro pecore da far pensare al calore di una famiglia, o alla simbiosi di una vera e propria amicizia affettiva, com’è descritto nella meravigliosa parabola raccontata dal profeta Natan al re Davide, reo di essersi iniquamente impossessato della sposa di Uria, paragonata a “una pecorella piccina…vissuta e cresciuta insieme con lui e con i figli, mangiando del suo pane, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno… come una figlia” (2Sam 12,3).
Al di là dell’antica cultura nomade di Israele, una simile, reciproca appartenenza vitale era l’icona di quella, ben più profonda ed essenziale, che legava il popolo al suo Dio, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Tutto ciò non è incomprensibile, ma sembra aver poco o niente da dire al nostro mondo “digitale”, come osservava già più di sessant’anni fa, Romano Guardini: “Vogliamo ammettere che sentiamo addirittura dell’imbarazzo quando i fedeli sono paragonati ad un gregge di pecore” (R. G., “Il Signore”, parte terza, cap II).
E’ perciò opportuno mutuare l’icona pastorale con un’altra più familiare ed universale, anch’essa perfettamente biblica, da Dio stesso rivelata con queste commoventi parole: “A Efraim io insegnavo a camminare tenendolo per mano, ma essi non compresero che avevo cura di loro. Io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore, ero per loro come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi chinavo su di lui per dargli da mangiare” (Osea 11,3-4).
E’ questa la rivelazione della vocazione nativa di ogni essere umano all’intimità divina, ineffabile relazione d’amorosa amicizia con Dio, Padre e Pastore delle nostre anime, nel Figlio suo Gesù Cristo. Ponendo in parallelo i testi di Osea e Giovanni, vediamo scaturire la luce del volto materno di Dio: “insegnavo a camminare tenendolo per mano” || “ascoltano la mia voce e mi seguono”; “ma essi non compresero che avevo cura di loro” || “voi non credete perché non fate parte delle mie pecore”;“io li traevo con legami di bontà, con vincoli d’amore” || “nessuno le strapperà dalla mia mano..e nessuno può strapparle dalla mano del Padre”; “mi chinavo su di lui per dargli da mangiare” || “io do loro la Vita eterna”.
Il dono meraviglioso di questa Vita eterna è contemplato a Patmos dal discepolo che Gesù amava: “Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi” (Ap 7,17). Lo stesso discepolo aveva rivelato a Cafarnao che la beatitudine di una simile sazietà è un “già” possibile fin d’ora, purchè si desideri il vero nutrimento del nostro cuore inquieto: “Gesù disse loro: chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Gv 6,54).
La “moltitudine immensa” descritta da Giovanni in Paradiso è una specie di “Via lattea” stellare, dato che ognuno porta un abito luminosissimo: “vesti candide lavate nel sangue dell’Agnello”. Essa è composta non solo dai martiri cristiani, ma anche da “tutti coloro che hanno dimostrato la loro fedeltà a Cristo nelle piccole scelte di ogni giorno e nel quotidiano martirio che la coerenza di vita sovente esige” (La Bibbia “Via Verità e Vita”, p. 2557).
La menzione del “sangue dell’Agnello”, tuttavia, oltre ad evocare la testimonianza del martiri, vuol significare anche la pienezza sovrabbondante della Vita divina. Per gli Israeliti, infatti, il sangue era portatore di vita, era identificato con la stessa vita fisica (Gen 9,5: “Del sangue vostro, ossia della vostra vita, io domanderò conto”). Oltre a ciò, il sangue “era il segno dell’amicizia e dell’elezione da parte di Dio, del patto come della purificazione e della riconciliazione della comunità; il sangue rinnova la comunione con Dio” (G. Ravasi, “Piccolo dizionario biblico”, p.187).
E’ evidente, da queste ultime parole, il profondo significato di ciò che Gesù dice oggi nel tempio ai Giudei: “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10); parole che sottintendono quel Sangue da lui versato fino all’ultima goccia sulla croce per arricchire eucaristicamente della sua Vita divina le nostre anime.
Vediamo allora il collegamento con il Buon Pastore. Ecco, quando un malato ha bisogno di una trasfusione di sangue, la sua collaborazione è del tutto passiva. Una volta steso il braccio per accogliere l’ago, altro non deve fare che rimanersene immobile fino all’ultima goccia che scende dalla sacca. L’immagine mi serve per similitudine e per contrasto: la Vita divina che il Buon Pastore ci dona mediante l’Eucaristia che è Lui, comporta una fede non certo passiva come un braccio steso, ma attiva: mentre accoglie docilmente il Mistero intende concretamente obbedire alla Parola divina: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”.
Cosa significa anzitutto ascoltare la voce del Pastore? Significa pregare, cioè fargli compagnia: “Credetemi, fate il possibile per non privarvi di un così buon amico. Se vi abituerete a tenervelo vicino, se egli vedrà che lo fate con amore e che vi adoperate a contentarlo, non potrete, come suol dirsi, togliervelo d’attorno” (S. Teresa d’Avila, Cam
mino di perfezione, c. XXVI, 1).
Non è perciò necessario andare alla ricerca di pensieri elevati o aprire il libro delle preghiere. Bastano pensieri e parole semplici, secondo lo stato d’animo: “Se vi sentite disposte alla gioia, contemplatelo risuscitato…Se siete afflitti o tristi pensate a quando si reca per l’orazione nell’Orto degli Ulivi…Parlategli, non con delle preghiere già formulate, ma con la preghiera che sgorga dal vostro cuore..” (ibid., 4-6). Un simile ascolto muove sempre alle opere concrete, poiché l’ovile del Pastore è il mondo intero, ed egli non può da solo accudire tutte le pecore.
Tornando all’icona biblica materna, credo che il silenzioso tu-per-tu tra la donna incinta e il suo invisibile bambino, si presti perfettamente a rappresentare l’incontro orante con il Signore. Nell’intimità del suo raccoglimento ad occhi chiusi, la mamma si rivolge al figlio con la stessa certezza che la fede dona circa la reale presenza di Dio nel cuore del battezzato. Scrive Teresa: “L’anima comprende chiaramente che c’è nel suo intimo Chi…da’ vita a quella nuova vita; che c’è un Sole da cui procede questa grande luce che va a illuminare la persona dall’interno dell’anima..” (VII Mansioni, cap. II, 6).
La nuova vita è la nostra vita rinnovata, trasfigurata, colmata di gioia per l’esperienza soprannaturale della tenerezza materna del Buon Pastore.
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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.