di Mirko Testa
ROMA, venerdì, 23 aprile 2010 (ZENIT.org).- I giornalisti, per poter sopravvivere ai cambiamenti nella comunicazione imposti dall’informazione orizzontale che caratterizza Internet e dalle logiche dei “social network”, dovranno essere sempre più in grado di fornire contesti e chiavi di lettura.
Questi sono solo alcuni dei punti emersi durante la tavola rotonda sul tema “Media, linguaggi e crossmedialità” tenutasi giovedì nella cornice del Convegno “Testimoni digitali”, organizzato a Roma dalla CEI, e che si concluderà questo sabato.
Chiamato a moderare la discussione, mons. Dario Viganò, Preside dell’Istituto Pastorale “Redemptor Hominis” e docente di Semiotica degli Audiovisivi alla Lumsa, ha notato come “a volte nella comunità ecclesiale abbiamo da una parte l’illusione un po’ ingenua di passare subito a una sorta di evangelizzazione mediale, oppure dall’altra parte la richiesta continua di una fedeltà a modalità tradizionali con la patologica deriva dell’adattamento”.
Mons. Viganò si è quindi chiesto se non sia giunto il momento di voltare pagina, “uscire da quell’illusione per cui anche noi abitiamo la Rete per il semplice fatto che gestiamo un sito che funziona un po’ da bacheca e iniziare a partecipare realmente alla Rete”.
Senza territorio, defocalizzate, aistituzionali
Partendo da questo spunto, Ruggero Eugeni, massmediologo dell’Università Cattolica di Milano, ha provato a esplorare le ragioni che si celano dietro il “disagio” nei confronti dei nuovi media diffuso all’interno del mondo cattolico.
La prima ragione, ha spiegato, risiede nel fatto che “le nuove forme di comunicazione non hanno territorio. Il Papa ha parlato a questo proposito di un ‘sesto continente’ ma in realtà parliamo di un continente che non può avere nessuna carta, nessuno strumento che ci dica dove siamo”.
“Questo fa sì che le relazioni comunicative debbano costantemente costituire una piattaforma su cui poggiarsi”; un aspetto che contrasta nettamente con quanto accadeva in passato quando “a ogni luogo era legato un preciso tipo di relazione comunicativa”.
Tra i segnali evidenti di questa impossibilità di ricondurre i linguaggi dei nuovi media a una mappa unitaria in un “continente digitale” in rapido e costante movimento e trasformazione c’è per esempio: “il confine indefinibile tra la serietà e il gioco. Svolgiamo tante attività comunicative rette in base alla modalità del ‘come se’ che è proprio quella del gioco”; inoltre, si è persa la linea di demarcazione tra i vari media, la loro specificità.
Una seconda ragione di disagio è invece “legata al fatto che le relazioni non sono più focalizzate”, che tendono cioè sempre più a mescolare aspetti diversi, mentre un tempo erano “ben distinte: a volte erano cognitive, a volte prevaleva la passione e l’affettività, a volte erano anche relazioni di tipo pratico”.
Infine c’è una terza ragione di disagio, ha detto, che riguarda “la natura aistituzionale delle relazioni comunicative in Rete”. E quindi se un tempo esistevano “i grandi broadcaster che erano una garanzia di credibilità e con i quali noi spettatori avevamo un legame fiduciario”, oggi al contrario “le relazioni comunicative devono ricostruire costantemente questi legami, devono rinegoziare costantemente la fiducia, l’affidabilità”.
“Oggi la Rete e le nuove forme di comunicazione – ha continuato – ci chiedono di vivere in maniera radicale, profonda, quella cittadinanza paradossale, in cui ci sentiamo stranieri ma allo stesso tempo costantemente parte in causa; coinvolti in comunità, gruppi in cui sentiamo che ogni relazione, che ogni storia costituisce la fibra di una rete, di un tessuto più ampio che noi contribuiamo ad alimentare o a far morire”.
In questa prospettiva, ha aggiunto, “noi siamo costretti a ripensare con uno sguardo di conversione il nostro modo di essere Chiesa non in astratto ma in modo vivo, diretto, quotidiano del nostro modo di costruire piccoli nuclei sociali”.
Contesti, per non essere superficiali
La Rete, allo stesso tempo, chiama anche a un ripensamento della professionalità e del lavoro di coloro – come i giornalisti – che narrano, raccontano vicende quotidiane, come ha spiegato Mario Calabresi, Direttore del quotidiano “La Stampa”.
Nel suo discorso Calabresi ha evidenziato come i giornalisti e il giornalismo in generale abbiano cominciato, negli ultimi tempi, a nutrire un certo timore nei confronti della Rete, “per la sensazione che fosse più veloce, che fosse fuori controllo e che facesse vincere la superficialità, il sensazionalismo”.
Partendo poi dai dati emersi da una ricerca pubblicata poche settimane fa dal Centro studi americano Pew Research Center, il Direttore de “La Stampa” ha osservato “che il 95% di tutta l’informazione che c’è oggi arriva dalla carta stampata, cioè è prodotta dal giornalismo tradizionale”. Un dato importante, ha commentato, per rivalutare professionalità e competenze.
Infatti, il mutato ciclo informativo legato spesso alla fascia dei telegiornali si tira dietro diversi pericoli come la “superficialità” e “l’impossibilità di controllare i fatti”, soprattutto quando sono verosimili e quindi plausibili.
“Nel rumore di fondo – ha spiegato –, in questo rumore che si accavalla e che certe volte dà una sensazione di sfinimento per tutti gli stimoli che riceviamo, c’è un maggiore bisogno di chiavi di lettura, cioè c’è maggiore bisogno di verità, di comprensione e soprattutto di contesto”.
“L’informazione oggi è talmente permeabile, gratuita, e disponbile ovunque che è ‘nell’aria’, che la ricevi anche se non la cerchi”. Ma allora che cosa può dare un giornale? “Ti può dare dei punti fermi”, ha risposto Calabresi.
Anche perché, ha notato, “se non ci facciamo carico dei contesti, allora sì che saremo sconfitti perché all’informazione si sostituirà il sensazionalismo, l’illusione che la velocità è l’unico criterio di valore e di giudizio”.
Il giornalista non può essere come “il tassista che segue pedestremente il navigatore satellitare e che di solito è un disastro”, non si può far guidare dalla Rete, perché altrimenti diventa “cieco”. Deve, al contrario, “avere le sue categorie di lettura della realtà che gli danno le indicazioni fondamentali. Deve consumare le dita ma deve anche consumare le suole delle scarpe”.
Testimoniare in maniera virale
Successivamente è intervenuto Paolo Peverini, semiologo della Luiss, il quale ha riflettuto sull’efficacia o meno delle teorie e degli strumenti di metodo impiegati quando ci si addentra nel territorio smisurato dei media digitali e sulla correttezza di espressioni entrate ormai nell’uso comune come: multimedialità, intermedialità, crossmedialità, rimediazione, user generated content.
Il semiologo è quindi passatto ad analizzare il funzionamento dei “social network” e le logiche strategiche di costruzione della testimonianza, il cosiddetto passaparola che gli esperti di marketing hanno ribattezzato word of mouth.
A questo proposito, parlando delle campagne di comunicazione virali, e in particolare dei “video tormentoni” capaci di “contagiare il corpo sociale rappresentato ad esempio dai blogger e di replicarsi in maniera sempre più invasiva”, Peverini ha notato che “l’espressione virale in realtà è tanto accattivante quanto pericolosa, scivolosa, opaca”.
Inoltre, ha osservato, è molto “difficile analizzare le caratteristiche di questo fenomeno”, perché “l’infezione sfugge ad ogni previsione”.
“In realtà – ha commentato – molto spesso si cerca in qualche modo di costruire dei testi che apparentemente dissimulano la loro vera natura. Infatti, molte delle
forme virali che nascono in Internet e che vengono rilanciate nella Rete sono tutto fuorché quello che sono”, in una specie di “esasperata ricerca di trasparenza”.
“Molte di queste forme virali – ha continuato Peverini – sembrano nascere dalla periferia del Web, sembrano completamente lontane dall’industria culturale eppure molto spesso sono progettate consapevolmente da chi si occupa di pubblicità, da chi cerca strategicamente di entrare in contatto con un destinatario”.
“Ci abitueremo a testimoniare in maniera virale?”, ha chiesto il semiologo. “Forse sì, ma una indicazione potrebbe essere quella di sottrarci alle seduzioni delle facili metafore”.
“Forse – ha concluso – sarebbe meglio evitare tassonomie, modelli in un momento in cui è molto complicato definire le caratteristiche dei fenomeni che sono sfuggenti e ripartire dall’analisi dei casi specifici, rimettere al centro lo studio del testo e la responsabilità dei soggetti che tramite un testo entrano in contatto, misurando le proprie competenze ma anche le proprie passioni”.