Pasqua: la vita in un batter d’occhio

III Domenica di Pasqua, 18 aprile 2010

Share this Entry

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 16 aprile 2010 (ZENIT.org).- “Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. (…) Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: ‘E’ il Signore!’. Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. (…) Gesù disse loro: ‘Venite a mangiare’. E nessuno dei discepoli osava domandargli: ‘Chi sei?’, perché sapevano bene che era il Signore. (…) Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: ‘Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?’. Gli rispose: ‘Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene’. Gli disse: ‘Pasci i miei agnelli’” (Gv 21,1-19).

‘Andate e proclamate al popolo, nel tempio, tutte queste parole di vita’. Udito questo, entrarono nel tempio sul far del giorno e si misero ad insegnare. (…) ‘Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini. Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo a una croce. Dio lo ha innalzato alla sua destra come capo e salvatore, per dare a Israele conversione e perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo che Dio ha dato a coloro che gli obbediscono’” (At 5,20-21;29-32).

Strana osservazione, quella dell’evangelista Giovanni, circa l’imbarazzo dei discepoli a chiedere a Gesù: “Chi sei?”. Di fronte ai “centocinquantatre grossi pesci” miracolosamente pescati; udito il grido dello stesso Giovanni: “è il Signore!”; veduto Pietro buttarsi in mare per la gioia, che bisogno c’era di chiedergli: “Chi sei?”, dato, appunto, che “sapevano bene che era il Signore”? Quando si sa bene una cosa, occorrono forse conferme? Può uno dubitare nella certezza? Viene in primo luogo da rispondere che quando la gioia è troppo grande non si crede né ai propri occhi, né alle proprie orecchie. Inoltre, l’evangelista vuol far entrare il lettore nel clima soprannaturale dell’incontro con Gesù, caratterizzato da un sacro “timor di Dio”. Infine, sappiamo che il Risorto non è più riconoscibile come prima di morire, poiché ora appartiene ad un altro mondo. Tutto vero; ma forse, in profondità, c’è anche un altro messaggio.

Lo fa intuire…il milione e mezzo di persone che si sono prenotate per vedere la Sindone. Per spiegarmi parlando delle mie convinzioni, semplicemente in termini di testimonianza personale. Io sono già assolutamente certo che la Sindone è la fotografia di Gesù morto e risuscitato, e non è per accrescere questa mia convinzione che non vedo l’ora di andare a Torino per rimanere anche solo due minuti a contemplarla. Nemmeno mi paragono ad un innamorato della Gioconda, in partenza per il Louvre di Parigi.

Per me, vedere la Sindone è come incontrare Gesù nel momento in cui lo incontrò Maria di Magdala, il mattino di Pasqua, nel giardino, sapendo bene che “è il Signore” e non un altro. E’ vero che per la fede non è necessario credere nella sua autenticità, tuttavia mi sembra innegabile il riconoscimento della sua “stoffa” soprannaturale da parte della Chiesa, dal momento che se la Sindone non avesse nulla a che fare con il Risorto, il Papa non andrebbe a venerarla ufficialmente, come si appresta a fare. Il fascino misterioso della Sindone per moltissimi è un profumo identificato: è “profumo di Cristo” (2 Cor, 2,15) risorto e vivo in mezzo a noi, un profumo tanto inebriante, da attirare il mondo intero ogni volta che il purissimo Lenzuolo viene esposto. Ora, ciò che è morto, non emana profumo.

Veniamo al Vangelo. Pietro e compagni vanno, come al solito, a pescare…“ma quella notte non presero nulla. Quando già era l’alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù” (Gv 21,4). Di un’altra cosa non si erano accorti i discepoli, mentre rientravano mesti e stanchi dalla pesca mancata: che là sulla riva c’era un uomo..l’uomo della Sindone. Questa semplice parola “riva” è sufficiente ad evocare tutta la straordinaria “verità” impressa nella Sindone, il suo lieto, evangelico annunzio.

Ascoltiamolo: “L’uomo, ciascuno di noi, si trova immerso nella corrente che lo trascina a morte sicura, incapaci come siamo di nuotare. Dio non si è accontentato, dalla riva della sua beata e sicura eternità, di insegnare all’uomo, a ciascuno di noi, come si fa’ a nuotare, quale è la via della salvezza. Nella sua disperazione, l’uomo non aveva né il tempo di sentire questa dottrina, né la forza di metterla in pratica. Dio non si è neppure accontentato di lanciare in acqua una corda di salvataggio: l’uomo, ciascuno di noi, è troppo stanco per aggrapparsi. Dio si è buttato in acqua. Ha condiviso la nostra condizione di disperati e votati alla morte. Ha lasciato la sua riva, beata e ferma, e si è immerso nelle nostre acque infide e travolgenti. Ha stretto l’uomo a sé (“con la sua Incarnazione il Figlio stesso di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”) e lo ha trasportato sulla sua riva: sulla riva della sua eterna beatitudine. “O ammirabile scambio – esclama la Liturgia cristiana – il Creatore ha preso un’anima e un corpo ed è nato da una Vergine; fatto uomo senza opera d’uomo, ci donò la sua divinità” (Ottava di Natale, II Vespri, 1° antifona). Il dono della sua divinità, l’arrivo della “terra ferma” dell’Essere e della Vita, accade precisamente, originariamente nel fatto del suo divenire uomo. Non ci ha insegnato a nuotare; ci ha liberato dalle acque” (Carlo Caffarra, “Vangelo della vita e cultura della morte”, Torino 15 febbraio 1992).

Nella Sindone contempliamo il fatto che “l’Autore della vita” (At 3,15) è divenuto uomo; il fatto che il “Verbo della vita” (1 Gv 1,1) si è fatto nostra carne; il fatto che la vita di ogni uomo non sarà abbandonata negli inferi. Di ciò che è accaduto senza testimoni nella casetta di Nazaret, di ciò che è accaduto senza testimoni nel sepolcro di Gerusalemme, ora noi siamo testimoni, poiché il corpo della Sindone è il corpo concepito in Maria a Nazaret, è il corpo nato da lei a Betlemme, è il corpo risuscitato dai morti a Gerusalemme.

Aggiungo un’osservazione sul verbo “stette”: fa intendere che Gesù si trovava già là, da tutta la notte, ma non era possibile vederlo, finchè i discepoli se ne accorsero all’improvviso “quando era già l’alba”. Giovanni qui passa dalla notte al giorno in un batter d’occhio: d’un tratto, al mattino, ecco Gesù là sulla riva. C’è qui un richiamo simbolico alla notte come assenza di vita (“non presero nulla”), in contrasto con la luce della creazione dalla quale dipende la sovrabbondanza della vita (“centocinquantatre grossi pesci”).

Questo racconto pasquale di Giovanni, lo possiamo mettere in parallelo con l’annuncio che Paolo fa della risurrezione dei nostri corpi: “..tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba.(…) Quando questo corpo corruttibile sarà vestito di incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: la morte è stata inghiottita nella vittoria”(1Cor 15,52-54).

Se ora ci chiediamo qual è il primissimo istante, come in un batter d’occhio, in cui il nostro corpo corruttibile e mortale si veste di incorruttibilità e di immortalità, possiamo rispondere che esso precede il suono dell’ultima tromba di un numero d’anni pari alla nostra età finale, più nove mesi. Infatti,
la creazione dell’anima immortale e incorruttibile avviene al momento del concepimento dell’uomo, quando in un batter d’occhio, dal non essere si passa all’essere, dal nulla alla vita, dal “mai” al “per sempre”. E’ il batter d’occhio della fecondazione, che necessariamente precede quello della risurrezione, dopo il quale, ad occhi eternamente spalancati vedremo il Signore “così come egli è” (1Gv 3,2).

Nel “batter d’occhio” della Sindone, allora, non è “fotografato” solo il corpo del Signore nell’istante della sua risurrezione, ma anche quello di ognuno di noi che siamo e saremo “risorti in Cristo” (Col 3,1) dal momento che “.. solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo. (…) Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito, in certo modo ad ogni uomo” (Costituzione pastorale “Gaudium et spes”, del Concilio Vaticano II, cap. 22, n. 1385-1386).

Come accennavo all’inizio, il messaggio profondo che scaturisce dal silenzioso e timoroso interrogativo dei discepoli di fronte al Signore risorto: “Chi sei?”, mi sembra essere questo: mentre il nostro intelletto intuisce che il mistero della Sindone rimanda ineludibilmente al mistero stesso di Cristo, da una parte ne rimaniamo affascinati, a riprova che la Sindone ha il potere di toccare le corde più profonde della persona umana, dall’altra non osiamo fare l’unica cosa che trasformerebbe lo stupore della mente nella gioia di un autentico incontro con il Signore risorto e vivo, vale a dire rispondere in tutta verità e libertà alla domanda di fondo reale: “chi sei per me?”

E’ stato osservato a ragione, che l’autenticità della Sindone non sarebbe messa in dubbio da nessuno se il corpo avvolto non fosse stato quello del Figlio di Dio. In tal caso, infatti, lo stupore scientifico non interpellerebbe la coscienza. Ma se da quel Lino millenario, a svanire così, è stato il corpo di Gesù, allora esso ci consente non solo uno sguardo certo sulla vita-oltre-la-vita, ma anche sul passato e sul presente, dal momento in esso si può leggere il senso dell’intera esistenza umana, da quando la vita è seminata da Dio nella terra del grembo, a quando finisce nel sepolcro sotto terra. E questo significato è proprio il Signore Gesù.

La Sindone, allora, comincia a suscitare nel cuore le stesse domande che il Risorto pone oggi a Pietro: “Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?(…) mi ami?(…) mi vuoi bene?” (Gv 21,15-16-17). Cioè: a che cosa hai dato il tuo cuore fino ad oggi? Alle creature o al Creatore? Chi ami di più?

In altre parole: quanto tempo dedichi al Signore nella tua giornata? Conosci il suo Vangelo? Quanto tempo dedichi alla preghiera, e quanto a perder tempo? Preferisci aggiornarti sulle notizie di cronaca o sulla Buona Notizia del Vangelo, divulgata abbondantemente dal Magistero del Papa? La risposta sincera è davvero rischiosa, poiché comporta l’obbedienza a quel deciso “Seguimi” che non lascia scampo alla nostra volontà di autosufficienza: “un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21,18-19).

Ma la sorprendente triplice richiesta d’amore a Pietro, da parte di Gesù, ci interpella ancor più in profondità, se, ricordando che: “il rifiuto della vita dell’uomo nelle sue diverse forme, è realmente rifiuto di Cristo“ (Enciclica “Evangelium vitae” n. 104), riconosciamo in essa la voce di un “numero sconfinato di bimbi cui viene impedito di nascere, di poveri cui è reso difficile vivere, di uomini e donne vittime di disumana violenza, di anziani e malati uccisi dall’indifferenza o da una presunta pietà” (id., Preghiera finale a Maria risorta, Aurora di un mondo nuovo).

Oggi la legge consente di uccidere l’uomo, a tutte le età e in molti modi: per azione diretta o per omissione, ma nessuno deve dimenticare le “parole di vita” (At 5,20) che gli saranno ricordate anche al momento del Giudizio universale: “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini” (At 5,29).

——-

* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.

Share this Entry

ZENIT Staff

Sostieni ZENIT

Se questo articolo ti è piaciuto puoi aiutare ZENIT a crescere con una donazione