Benedetto XVI e l’economia di comunione (parte I)

Intervista all’imprenditore John Mundell

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di Genevieve Pollock

INDIANAPOLIS, Indiana (USA), giovedì, 22 ottobre 2009 (ZENIT.org).- La gente cerca di dare senso al proprio lavoro, cerca di fare profitti pur aiutando le persone e l’ambiente, e Benedetto XVI ne indica la strada. Ne è convinto un esponente dell’economia di comunione, John Mundell, presidente e fondatore di Mundell and Associates, una società di consulenza ambientale con sede a Indianapolis.

In questa intervista rilasciata a ZENIT spiega perché Benedetto XVI ha incluso l’economia di comunione, una rete mondiale di imprese in crescita, nella sua ultima enciclica “Caritas in veritate”.

Quali sono i principali elementi dell’economia di comunione?

Mudell: Per comprendere l’economia di comunione si deve iniziare a comprendere il significato della parola “comunione” nel vocabolario della Chiesa cattolica e capire le implicazioni di una spiritualità di comunione.

Cosa significa vivere come “Chiesa”, come popolo unito? Come si inquadra questo nel messaggio e nella missione di Gesù?

Se si inizia a comprendere queste, che sono le basi fondamentali dell’economia di comunione, il resto segue in modo naturale.

L’economia di comunione è nata da un’idea sorta nell’ambito del Movimento dei Focolari e della sua fondatrice, Chiara Lubich, nel 1991, mentre era in visita alla comunità dei focolarini in Brasile.

La settimana precedente Chiara aveva letto l’enciclica di Giovanni Paolo II “Centesimus annus”, una riflessione sui cento anni trascorsi dalla prima enciclica sociale della Chiesa di Papa Leone XIII.

Chiara era particolarmente interessata al tema del coinvolgimento della Chiesa nella sfera sociale del mondo. Inoltre, al suo arrivo in Brasile, aveva appreso delle necessità dei poveri presenti nella locale comunità dei Focolari. Della nostra comunità locale facevano parte persone benestanti, ma anche persone che soffrivano per mancanza di cibo, educazione e abitazione.

Ciò che Chiara vide, nonostante i Focolari praticassero la comunione dei beni da oltre 50 anni della loro storia, e nonostante gli sforzi delle persone per condividere e aiutare i bisognosi della comunità, era che ci sentivamo ancora inadeguati e che qualcos’altro andava fatto.

Da qui nacque l’idea di avviare imprese che potessero lavorare, condividere i profitti e aiutare i bisognosi della comunità.

Dal 1991, questo movimento si è diffuso in tutto il mondo dei Focolari e dopo 18 anni possiamo contare su più di 750 imprese impegnate nell’economia di comunione.

È un qualcosa di radicato nell’esperienza dei primi cristiani, che vivevano in una comunità che viene descritta come unita nel cuore e nella mente, in cui non vi erano persone bisognose. L’idea di rifarsi a quell’esperienza dei primi cristiani diede vita a questo modo di fare impresa.

La missione è quella di promuovere una cultura del dare e della giustizia sociale, attraverso queste imprese che sono animate dal valore della fraternità universale.

Queste imprese sono a scopo di lucro e sono presenti su ogni continente; credo si trovino in 50 Paesi. Circa la metà delle organizzazioni sono società di servizi, un quarto sono manifatturiere, mentre le altre sono di vendita al dettaglio.

I profitti di queste attività sono messe in comune. Una parte dei profitti viene reinvestita nell’impresa stessa, perché senza capitale le società non vanno avanti.

Un’altra parte dei profitti è destinata a promuovere la cultura del dare, secondo questa forma dell’economia di comunione. Organizziamo seminari, conferenze e incontri per diffondere queste idee.

L’ultima parte dei profitti viene data direttamente ai poveri, per aiutarli nei loro bisogni fondamentali: cibo, casa, educazione e salute. Ma è un pò diverso da un mero aiuto filantropico.

Intratteniamo rapporti con i poveri in ogni area geografica e conosciamo la loro vita personale. I poveri sono visti come partner egualitari in questa economia di comunione. In questo senso, quando esprimono delle loro necessità, le richieste vengono considerate di eguale valore, nella nostra condivisione delle risorse economiche.

Qualcuno l’ha posta in questo modo: non dare un pesce a una persona, né insegnargli a pescare, ma pesca con lui. Nell’economia di comunione noi peschiamo con loro. Non è qualcosa che facciamo separatamente da loro; è un qualcosa che facciamo insieme.

Si tratta di un vero cambiamento di mentalità nel concetto di responsabilità sociale delle imprese e nella nozione classica d’impresa, che sta aiutando i poveri.

Molti vedono l’etica delle imprese contrapposta ai valori cristiani della carità e della giustizia sociale. Come è riuscito a mettere insieme queste due visioni?

Mundell: Credo che i tempi siano maturi per l’affermazione di questa idea di incorporare la missione sociale nell’ambito dell’impresa e ne abbiamo visti molti esempi negli ultimi tre o quattro anni. Abbiamo visto un interesse crescente per l’idea della responsabilità sociale delle imprese.

Molte organizzazioni, che magari figurano anche tra le Fortune 500, si stanno rendendo sempre più conto delle loro responsabilità sociali come imprese.

Si parla del triplice fondamento: persone, pianeta, profitti. Persone, perché rappresentano i problemi sociali di interesse dell’impresa; pianeta, per non essere indifferenti al problema ambientale; profitto, perché è necessario per mantenere viva l’impresa.

Questa idea di responsabilità sociale è presente e operante nel mondo imprenditoriale laico. I manager si rendono conto che devono corrispondere ai loro investitori i giusti interessi, ma si rendono anche conto che un atteggiamento responsabile produce un ritorno anche per la stessa impresa.

Si potrebbe sostenere che il loro essere socialmente responsabili risponda solo ad un vantaggio economico. Ma a mio avviso, in ogni caso, quali che siano le motivazioni, è comunque una cosa positiva.

L’economia di comunione può essere considerata come una parte del complesso movimento della responsabilizzazione sociale delle imprese, ma in realtà va al di là di quello.

È un modello diverso, perché la tendenza di oggi è quella di una miriade di singole imprese che cercano di operare in modo responsabile, ma che non sono collegate tra loro.

Nell’economia di comunione noi adottiamo il modello delle prime comunità cristiane e operiamo con 750 imprese che formano una rete con rapporti planetari. Restiamo in contatto l’una con l’altra e cerchiamo di operare nella stessa maniera.

In questo modo possiamo far circolare le necessità e muovere le risorse nei diversi luoghi del mondo dove più sono necessarie, grazie ad una mentalità collettiva.

L’economia di comunione è espressione di ciò che potremmo definire un “modo collettivo di vivere la spiritualità”, la spiritualità focolarina dell’unità, di cui parla Giovanni Paolo II nelle sue encicliche.

La spiritualità di comunione influenza il modo in cui noi operiamo come proprietari d’impresa, perché si incentra sui rapporti e sulla persona umana come punto focale per l’azienda.

Secondo la visione cristiana, noi abbiamo la potenzialità per sviluppare questi rapporti verso l’ideale dell’amore reciproco. E come ha detto Cristo: “dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. In questo senso possiamo effettivamente avere la presenza di Dio, di Cristo, in questi rapporti.

Quindi, il nostro modello è un po’ diverso, ma rientra nell’ambito di questo discorso sulle imprese sociali, sugli imprenditori sociali o sulla responsabilità sociale delle imprese. Noi siamo coinvolti in questo discorso, soprattutto ora che il Papa ha citato l’economia di comunione nella sua enciclica.

Ritiene che quanto scritto dal Papa nell’enciclica sull’economia di comunione confermi i principi del progetto o gett
i nuova luce all’argomento?

Mundell: Credo che siano vere entrambe le cose. L’enciclica è un’opera meravigliosa e dovrà prendere un po’ del tempo di ciascuno di noi per poter cogliere tutte le sfumature che il Papa ha espresso.

Essa certamente conferma e sostiene i nostri sforzi compiuti negli ultimi 18 anni. Per esempio, nei capitoli tre e quattro si parla della necessità di creare spazio nei mercati per questo nuovo tipo di operazioni, basate non solo sulla ricerca del profitto, ma anche sulla promozione dei principi di reciprocità e delle finalità sociali.

Si riconosce questa nuova forma di impresa che si pone a metà strada fra quella a scopo di lucro e quella non profit. Il Papa considera queste imprese che coniugano lo scopo di lucro con una missione sociale, come una realtà promettente, una realtà da incoraggiare e sostenere nei diversi contesti, strutture e Paesi del mondo.

Egli considera questo modo di operare, questa economia di comunione, come un modo per guidare la globalizzazione dell’umanità in termini relazionali, in termini di comunione e di condivisione dei beni.

Il Papa ci ha anche lanciato una sfida: spiegare ciò che stiamo facendo, essere più aperti e cercare di avere le imprese migliori e di rappresentare i modelli migliori, perché gli altri possano vedere che le aziende possono essere amministrate con successo in questo modo.

Alcuni non pensano che così si possa fare impresa a scopo di lucro ed avere anche successo. Ma noi abbiamo 750 aziende che dicono che invece è possibile.

Noi riusciamo ad avere risultati positivi, ma il successo può essere misurato in modi diversi. Può essere calcolato a seconda di quanto aiutiamo le persone bisognose, a seconda dell’impatto che ne deriva sulle comunità locali, a seconda dei rapporti che si sono sviluppati, e anche a seconda di quanto siano diventate modello, per altre e più grandi aziende, di un modo più civile di fare impresa.

[La seconda parte sarà pubblicata venerdì 23 ottobre]

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ZENIT Staff

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