Pasolini sulla via del Vangelo

ROMA, sabato, 17 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo a firma di padre Virgilio Fantuzzi, S.I., apparso su “La Civiltà Cattolica”.

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Da quando lo studio del cinema è entrato a pieno titolo nelle aule universitarie, la critica cinematografica, la cui superficialità e imprecisione era stata più volte stigmatizzata da Pier Paolo Pasolini, si è dotata di strumenti che le consentono di uscire dall’«impressionismo» giornalistico e di misurarsi ad armi pari con le discipline alle quali fanno capo la critica letteraria e quella che si occupa delle cosiddette arti maggiori (1). Che il gap di un tempo sia stato felicemente colmato ne danno prova, fra l’altro, due libri dovuti a due docenti universitari (Stefania Parigi e Tomaso Subini) che analizzano due film degli esordi di Pasolini (Accattone e La ricotta) con un’attenzione, riservata ai testi audiovisivi, alle loro fonti e alle loro possibili interpretazioni, che può essere definita ineccepibile sotto ogni punto di vista (2).

«Accattone»

Giunto a Roma dal Friuli nel 1950, Pasolini «scopre» il mondo delle borgate. È l’ambiente nel quale è costretto a vivere negli anni di povertà. Due romanzi, Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), ripropongono quell’ambiente con fedeltà quasi fotografica. Dopo aver collaborato con registi cinematografici come Federico Fellini, Mauro Bolognini, Franco Rossi, Carlo Lizzani e altri, Pasolini realizza con Accattone (1961) il suo primo film. Ambiente e personaggi sono gli stessi dei due romanzi. «Sporchi crocefissi senza spine», come li chiamava lui (3). Giovani e meno giovani senza arte né parte, figli per lo più di immigrati dal Meridione, che vivono di espedienti nella desolata periferia della capitale, non proletari, come gli operai che vivono del proprio lavoro nelle zone industriali del Nord, ma sottoproletari, gli «invisibili» sui quali il suo occhio indagatore si sofferma.

La tecnica cinematografica di Pasolini assomiglia a quella adottata dai maestri del dopoguerra italiano: Roberto Rossellini, Luchino Visconti e la coppia Cesare Zavattini – Vittorio De Sica. Ambienti naturali, attori non professionisti, l’uso del dialetto, la forza di una denuncia sociale, la mancanza di qualsiasi intento evasivo o spettacolare. Se si osservano però con attenzione somiglianze e differenze tra il film di Pasolini e quelli ascrivibili al neorealismo, ci si accorge che, soprattutto per quanto riguarda lo stile, le differenze prevalgono sulle somiglianze. «In Accattone — dice Pasolini — non c’è mai un’inquadratura in cui si veda una persona di spalle o di quinta; non c’è mai un personaggio che entri in campo e poi esca di campo […]. Il mio gusto cinematografico non è di origine cinematografica, ma figurativa. Quello che io ho in testa come campo visivo, sono gli affreschi di Massaccio, di Giotto, che sono i pittori che amo di più, assieme a certi manieristi (ad esempio, il Pontormo). E non riesco a concepire immagini, paesaggi, composizioni di figure al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica, trecentesca, che ha l’uomo come centro di ogni prospettiva» (4).

La trama di Accattone è presto narrata. Vittorio Cataldi, soprannominato Accattone (Franco Citti), è uno sfruttatore di prostitute che vive in una borgata romana. Conduce un’esistenza scioperata, ruota intorno a un baretto dove siede a conversare con gli amici. Quando la sua donna, Maddalena (Silvana Corsini), viene arrestata dalla polizia, ne adesca un’altra, Stella (Franca Pasut), con l’intento di avviarla alla prostituzione. Stella è l’immagine stessa dell’innocenza e Accattone se ne innamora. Non se la sente pertanto di mandarla a «lavorare». Tenta di adattarsi lui stesso a un lavoro faticoso e mal retribuito, ma non ce la fa. Decide allora di mettersi in società con due ladruncoli. I tre rubano alcuni salumi, ma sono sorpresi dalla polizia. Mentre i due compari vengono ammanettati, Accattone inforca una motocicletta e va a sbattere contro un camion. «Aaah… Mo’ sto bene!», sono le ultime parole che pronuncia prima di morire.

Al termine dei titoli di testa, prima che il racconto per immagini abbia inizio, appare sullo schermo una citazione dalla Divina Commedia:

«…l’angel di Dio mi prese e quel d’inferno

gridava: “O tu del Ciel, perché mi privi?

Tu te ne porti di costui l’eterno

per una lacrimetta che ’l mi toglie”…»

(Dante, Purgatorio, Canto V).

Non è fuori di logica vedere in questa citazione l’indicazione del senso nel quale Pasolini vuole che sia letta la vicenda di Accattone: la morte improvvisa di un peccatore, il pentimento in extremis (la lacrimetta, in corsivo nel testo della citazione), la contesa tra l’angelo e il diavolo, la salvezza dell’anima… Dante, come è noto, incontra nel purgatorio Bonconte da Montefeltro, che fu tra i suoi nemici nella battaglia tra fiorentini e aretini, combattuta a Campaldino l’11 giugno 1289, alla quale il poeta prese parte di persona. Di Bonconte, morto sul campo, non fu mai ritrovato il cadavere. Il condottiero racconta come la sua anima e il suo corpo, disgiunti dopo la sua morte, finirono l’una nelle mani dell’Angelo, l’altro in quelle del Diavolo. Quest’ultimo, come si è inteso, protesta perché una lacrima di pentimento, versata in punto di morte, è bastata da sola a cancellare i peccati di tutta una vita. Se questo è il senso nel quale l’intero film dovrebbe essere interpretato, ci si può chiedere in che cosa consista la salvezza di Accattone. È vano cercare sul suo volto una traccia della lacrimetta di cui parla Dante, e che Pasolini sottolinea nell’esergo del film. Accattone non si pente perché, pur essendo un peccatore, non ha consapevolezza dei peccati che commette.

Più che nella consapevolezza incerta e confusa che Accattone ha di se stesso, la possibilità di salvezza, che gli viene offerta, è nella sensibilità con la quale Pasolini lo osserva. «La mia visione del mondo — diceva il regista — è sempre nel suo fondo di tipo epico-religioso; quindi anche in personaggi miserabili, personaggi che sono al di fuori di una coscienza storica […], questi elementi epico-religiosi giocano un ruolo molto importante. La miseria è sempre, per sua intima caratteristica, epica, e gli elementi che giocano nella psicologia di un miserabile, di un povero, di un sottoproletario, sono sempre in un certo qual modo puri perché privi di coscienza e quindi essenziali» (5). Questo modo di vedere il mondo dei poveri risulta, come osserva lo stesso Pasolini, dallo stile dei suoi film. «Un modo di girare, di vedere le cose, sentire i personaggi, modo che si realizza nella fissità, in un certo senso, ieratica delle mie inquadrature […], nella frontalità delle inquadrature, nella semplicità quasi austera, quasi solenne delle panoramiche ecc.» (6).

La Parigi nel suo libro analizza Accattone sequenza per sequenza, inquadratura per inquadratura. Non si limita a commentare le singole frasi dei dialoghi e le singole azioni dei personaggi, ma va alla ricerca del senso complessivo dell’opera, che le appare come una sorta di «sacra rappresentazione» trasposta. Non le sfugge la cadenza quasi liturgica delle parole con le quali gli amici di Accattone, seduti al bar di via Fanfulla da Lodi, chiosano e talvolta anticipano le diverse fasi della sua progressiva disfatta scandendole come se fossero «stazioni» di una via crucis.

Quando Accattone fin dalla prima scena del film lancia una sfida alla morte, la Parigi lo segue sul Ciriola, un gall
eggiante ancorato sul Tevere a pochi metri dal ponte di Castel Sant’Angelo. Assiste al suo pasto con gli amici come se si trattasse di una sorta di «ultima cena». Descrive il suo tuffo dal ponte come se fosse la caduta di un angelo cacciato dal paradiso. «Accattone mezzo nudo sulla spalletta del ponte ha dietro di sé la statua dell’angelo berniniano che tiene in braccio una croce. Il cielo è lo sfondo su cui si stagliano la sagoma del suo corpo e della scultura bianca, risplendente al sole» (p. 138). Questa scena, sempre secondo la Parigi, trova un corrispondente simmetrico e al tempo stesso contrario nella conclusione della sequenza della balera, che segna l’avvio di Stella alla prostituzione. Questa volta la voluttà di morte, che caratterizza il personaggio di Accattone, non si realizza nel tuffo in acqua, ma nell’interramento. «Il suo volto affondato nella sabbia appare come una maschera funebre e diabolica insieme. Se prima è un angelo caduto dal cuore del cielo, scaraventato dal paradiso all’inferno, ora è un demone imbrattato di fango, sprofondato in un inferno senza uscita» (p. 139 s).

Il film è costellato di sguardi verso l’alto, soprattutto da parte del protagonista, e di invocazioni a Dio, alla Madonna, ai santi. A questi gesti e a queste parole si associano diversi segni di croce. Non si tratta di atti di devozione in senso stretto. La religiosità dei sottoproletari infatti mescola cattolicesimo e paganesimo sotto il segno di una inveterata superstizione. I riferimenti al cristianesimo sono legati al tema della morte, che percorre da un capo all’altro la pellicola. «Accattone ha le sembianze di un morto: le sue occhiaie sono scavate, il volto è solcato da chiaroscuri tragici; il corpo si muove come in trance, continuamente tramortito, quasi febbricitante, in preda a uno stordimento prolungato, in bilico tra la veglia e il sonno, l’essere e il nulla. Parla da solo, gettando le frasi nel vuoto, in faccia allo spettatore. I suoi ripetuti monologhi sono invocazioni dirette alla morte o confessioni di un moribondo» (p. 183).

Si giunge così alla sequenza finale, che si svolge nei pressi del monte Testaccio. «La sagoma del monte viene mostrata in otto inquadrature: nelle prime sei essa si staglia sullo sfondo della via in cui Accattone, Cartagine e Balilla [i tre ladri] si fermano per riposarsi e in cui, dopo il furto, riprendono a camminare e vengono arrestati dalla polizia. Nelle altre due inquadrature, invece, è mutata la prospettiva: il monte Testaccio è ripreso dalla strada che costeggia il Tevere e sulla sua cima è visibile una croce» (p. 184). Dopo la morte di Accattone, Balilla (Mario Cipriani), impacciato dalle manette che gli stringono i polsi, si fa il segno di croce. È l’ultima inquadratura del film. Dietro le spalle del ladro, appare la sagoma del monte Testaccio sul quale si staglia una croce. «Riproponendo la figura del Golgota — conclude la Parigi — Pasolini raddoppia e intensifica, quasi di sfuggita e senza sottolineature o indugi retorici, il simbolo del Calvario» (p. 146).

«La ricotta»

I simboli della Passione, che appaiono con insistenza anche se in maniera velata nelle immagini di Accattone, tornano con maggiore incisività nel successivo film di Pasolini, Mamma Roma (1962), anche se, in questo caso, non è esclusa l’intenzione, da parte del regista, di fare di quei simboli un uso «rovesciato» simile a quello che, nello stesso periodo, veniva proposto da Luis Buñuel nel film Viridiana (1961). Ma è nel terzo film, La ricotta, episodio di Rogopag (1963), che Pasolini prende di petto il proprio rapporto, complesso e non privo di contraddizioni, con l’iconografia della Passione (7).

Nella prima parte del volume dedicato a questo film, della durata di 53 minuti, Subini ricostruisce sulla base di documenti di archivio le diverse fasi dell’elaborazione del progetto e della sua realizzazione; ripercorre l’itinerario delle disavventure giudiziarie nelle quali il film è incappato in occasione di un clamoroso processo che si concluse con la condanna del suo autore a quattro mesi di reclusione, con la condizionale, per il reato di vilipendio alla religione dello Stato; si sofferma in particolare sulla requisitoria del Pubblico Ministero Giuseppe Di Gennaro, in occasione della quale fu installata nell’aula del tribunale una moviola per consentire l’esame dettagliato delle sequenze incriminate. Secondo Subini, la lettura proposta da Di Gennaro si dimostra capace di svelare alcune delle più complicate trame significanti del film (cfr p. 50). Nonostante questo, però, non possono essere condivise le conclusioni alle quali il magistrato giunge circa le intenzioni «vilipendiose» dell’imputato (8). La prima parte del volume si conclude con una serie di precisazioni sui 14 tagli o varianti introdotti nel film per iniziativa del produttore Alfredo Bini allo scopo di ottenere il dissequestro.

La seconda parte entra nel merito dell’analisi del film a partire dalla sua trama. Alla periferia di Roma, in un terreno incolto, disseminato di montarozzi irregolari e attraversato da un rigagnolo d’acqua putrida (la marrana della Caffarella) si sta girando un film in costume sulla passione di Gesù. Siamo nella zona compresa tra l’Appia Antica e l’Appia Nuova, denominata Acqua Santa. Tra le irregolarità del terreno spuntano qua e là antichi ruderi avvolti da una vegetazione selvatica. L’orizzonte è chiuso dai «casermoni» dell’edilizia popolare che si allarga a macchia d’olio oltre le mura della città. Mentre il regista (interpretato da Orson Welles) impartisce dalla sua sedia gli ordini per le riprese, Stracci (Mario Cipriani, già visto in Accattone nei panni di Balilla), un sottoproletario ingaggiato per interpretare il ruolo del ladrone buono, cerca disperatamente di sfamarsi tra una pausa e l’altra, avendo ceduto alla propria famiglia il cestino del pranzo a cui aveva diritto. Dopo essersi rimpinzato di ricotta e di ogni altra sorta di cibo che la troupe si è divertita a mettergli davanti, muore per congestione sulla croce durante le riprese.

Tra la stesura del copione de La ricotta, nella primavera del 1962, e le riprese, effettuate nell’autunno dello stesso anno, si colloca il soggiorno di Pasolini presso la Pro Civitate Christiana di Assisi, un’associazione cattolica laicale fondata da don Giovanni Rossi nel 1939, durante il quale il regista ebbe l’idea di girare un film sul Vangelo secondo Matteo. Pasolini aveva dunque un doppio motivo per identificarsi con il personaggio interpretato da Welles: primo perché, come regista, poteva vedere se stesso proiettato nella figura di un altro regista, secondo perché il regista nel quale si vedeva proiettato stava facendo un film di argomento simile a quello che lui aveva in mente di realizzare.

L’aspetto che si impone con maggiore evidenza ne La ricotta è il rapporto di affinità e allo stesso tempo di contrasto tra la vicenda di Stracci, sottoproletario affamato che muore per indigestione su una croce, e il «film nel film»: la passione di Cristo che il regista interpretato da Welles sta traducendo in immagini spettacolari traendo ispirazione dalle composizioni raffinate e dai colori preziosi di due pale d’altare, rappresentanti entrambe la Deposizione, eseguite da due maestri del manierismo toscano, Jacopo Pontormo e il Rosso Fiorentino (9). Il parallelismo tra le traversie del «povero cristo» e quelle del Modello al quale, sia pure indirettamente e implicitamente, esse si riferiscono, è qui più stringente di quanto non apparisse nei due film precedenti: Accattone e Mamma Roma. A renderlo tale è, fra l’altro, la presenza degli oggetti inerenti alla passione di Gesù, e in particolare la corona di spine e la croce, dotati di una valenza simbolica
che li rende oggetti di culto nell’ambito della liturgia cristiana e della devozione popolare.

Alla corona di spine, ripresa in dettaglio, è dedicata una delle immagini più intense del film. La doppia valenza che l’oggetto assume in questo caso (inteso come attrezzo di scena e come simbolo religioso) consente a Pasolini di mettere in atto una serie di rinvii tra i due piani sui quali si sta simultaneamente muovendo. Il personaggio del regista richiede la corona per le esigenze sceniche del momento. Come osserva Subini, la richiesta viene sempre più degradata da uno stuolo di servi che ironicamente rilanciano l’ordine con moto discendente finché (e siamo al dettaglio) due mani prelevano da una piccola discarica, piena dei rifiuti del boom economico, l’oggetto che è stato appena irriso e lo innalzano al cielo, restituendogli sacralità, con un movimento contrario a quello descritto nelle inquadrature immediatamente precedenti (cfr p. 107 s). L’incrocio tra i due movimenti contrari, quello discendente e quello ascendente, domina l’intero film. Il movimento discendente è presente tutte le volte che il personaggio del regista esegue il suo lavoro, che consiste nel trasferire sullo schermo, con immagini che assomigliano alle riproduzioni di un libro d’arte in edizione di lusso, la passione di Gesù. Il movimento ascendente è adottato quando viene presentata sullo schermo l’umile figura del «morto de fame» o quella dei suoi familiari.

Nel riproporre con mezzi cinematografici i due quadri di Pontormo e del Rosso in sequenze a colori che si inseriscono a contrasto nel bianco e nero del film, Pasolini ne esalta l’eleganza che caratterizza il loro stile. Nel contempo però ne sminuisce l’ostentata e non del tutto sincera sacralità inserendo nelle riprese «raddoppiate» (nel senso di ripresa di un’altra ripresa) una serie di elementi di disturbo, che funzionano come vere e proprie gag, in palese contrasto con l’argomento religioso del soggetto. Qua il fotografo è sorpreso mentre misura la luce sul volto della Maddalena, là una sarta indugia nell’aggiustare le pieghe al costume di una comparsa. La testa di un «negro» entra in campo quando non dovrebbe. Un figurante è sorpreso nell’atto di scaccolarsi. Nel quadro del Rosso l’interprete di Cristo si mette improvvisamente a ridere. In quello di Pontormo, coloro che sorreggono il corpo che viene deposto dalla croce perdono l’equilibrio e lo fanno ruzzolare per terra.

La passione di Cristo e la morte di Stracci, una trascinata verso il basso, l’altra sospinta verso l’alto, sembrano contrapporsi dentro il film in maniera reciprocamente incompatibile. In realtà, trattandosi in entrambi i casi di rappresentazioni cinematografiche, le due storie, non soltanto sono più vicine di quanto possa sembrare a prima vista, ma, a pensarci bene, sono la stessa storia raccontata in due modi diversi.

Il contrasto tra la passione di Cristo e la passione di Stracci, che non può non apparire stridente ne La ricotta, non riguarda la sostanza dei due racconti, ma il modo in cui essi vengono rappresentati con il cinema. Era questo il problema che in quel momento angustiava Pasolini. Volendo passare dalla rappresentazione indiretta o allusiva della Passione alla rappresentazione diretta, si chiedeva in che modo avrebbe dovuto comportarsi. Riteneva di non essere credente. Non poteva pertanto far leva su un’ispirazione religiosa intesa nel senso tradizionale del termine. Il pericolo che gli si presentava davanti era quello di fare un’opera insincera. Per questo, nel girare La ricotta, attribuisce al personaggio del regista i tratti tipici di un intellettuale del XX secolo, arido e cinico, che non crede in quello che fa. Pasolini fa compiere al personaggio di Welles gli errori che non avrebbe voluto fare lui quando si sarebbe trovato sul set del suo Vangelo.

Il richiamo di Assisi

Nello scorrere i due libri della Parigi e di Subini, ricchi di osservazioni acute e di indicazioni preziose, ci è tornata in mente una conversazione avuta non molto tempo fa con Lucio Settimio Caruso, il volontario della Pro Civitate Christiana che fu amico di Pasolini e fece da tramite tra il regista e don Giovanni Rossi in occasione della preparazione e della realizzazione del film Il Vangelo secondo Matteo. Anziano, ma perfettamente lucido, il dott. Caruso trascorre i suoi giorni presso la Cittadella di Assisi. Seguiamo il suo racconto.

«Come tutti i registi italiani — egli dice — anche Pasolini riceveva ogni anno una lettera d’invito al convegno dei cineasti che si svolgeva ad Assisi per iniziativa di don Giovanni Rossi e dei volontari della Pro Civitate Christiana. Le lettere erano inviate indistintamente a tutte le personalità dell’ambiente cinematografico e, pro forma, anche a Pasolini. Ma chi mandava quell’invito sperava in realtà che Pasolini non lo accettasse perché, nel clima che si respirava in quegli anni (prima del Concilio Vaticano II), una sua eventuale presenza ad Assisi era ritenuta imbarazzante. Io ero incaricato di tenere i contatti con il mondo del cinema. Un giorno don Giovanni mi chiede: “Chi è, secondo te, il cineasta più lontano dalla fede e dalla morale cristiana?”. Risposi senza esitazione: “Pasolini”. Mi disse: “Va’ a cercarlo e convincilo a venire qui”.

«Andai prima di tutto a vedere i film di Pasolini, di cui conoscevo soltanto l’opera letteraria. Vedo Accattone e mi comuovo. Vedo Mamma Roma e mi entusiasmo. Cerco di mettermi in contatto con lui e mi accorgo che i primi approcci non sono facili. Era diffidente nei confronti dell’ambiente cattolico. Dopo molta insistenza da parte mia, accettò di venire ad Assisi per partecipare al convegno che ci sarebbe stato ai primi di ottobre del 1962. Venne, ma non partecipò ai lavori del convegno. Rimase chiuso in camera dicendo che aveva un forte mal di testa. Avrebbe dovuto tornare a casa la sera stessa, ma io riuscii a trattenerlo dicendogli che dopo cena ci sarebbe stata nella nostra comunità una lettura di suoi versi tratti dalla raccolta La religione del mio tempo. Il mio amico Paolo Scappucci, che aveva una dizione perfetta, lesse i versi che fecero una bellissima impressione in comunità. Pasolini si sentì circondato da una grande stima e un grande affetto. Rimase allo stesso tempo sconvolto e contento. Così nacque la nostra amicizia.

«Il giorno dopo, il traffico in città era bloccato perché era in visita il papa Giovanni XXIII. La mattina passeggiammo per Assisi tenendoci fuori dalle rotte del corteo papale. Volle che lo portassi nella basilica di San Francesco per vedere gli affreschi di Giotto. Abbiamo visitato la cappella del pellegrino e altri monumenti dell’Assisi minore. Nel primo pomeriggio lo portai al santuario di San Damiano, dove fu colpito dalla semplicità del luogo, tanto più che io avevo incominciato a parlargli del rapporto di san Francesco con la povertà. Rimase letteralmente scioccato quando non lontano da San Damiano visitammo una comunità di piccole sorelle di Gesù (la congregazione fondata da Charles de Foucauld). C’era una suora italiana e lui cominciò a farle delle domande. La suora parlò degli emarginati; disse che non si può fare apostolato se non si assume la stessa condizione umana delle persone alle quali ci si rivolge eccetera.

«Sulla via del ritorno, non so in che modo, il discorso cadde sulle rappresentazioni cinematografiche della vita di Gesù. Disse che, secondo lui, tutti i film su Gesù che erano stati fatti fino ad allora erano blasfemi e osceni. Quasi senza pensarci, gli dissi: “Soltanto il regista di Accattone sarebbe capace di fare un film sul figlio di un povero falegname di Nazaret”. Ricordo che a queste mie parole seguì una lunga pausa di silenzio.

«Nelle settimane successive i rapporti tra Pasolini e la Cittadella si raffreddarono. Cercai di riprendere il dialogo, ma senza riuscirci. Dopo un paio di mesi lo vidi tornare ad Assisi come un cane bastonato. Ci disse: “Io non posso vivere senza fare un film su Gesù Cristo. La colp
a è vostra perché, quando sono venuto qui, mi avete messo in camera il libro dei Vangeli che ho letto avidamente”. Gli dicemmo che in tutte le camere della Cittadella c’è una copia dei Vangeli e che pertanto non avevamo voluto tirarlo dalla nostra parte ricorrendo a questo stratagemma. Ci disse che il suo film su Gesù non avrebbe dovuto offendere la sensibilità dei cattolici e per questo motivo aveva bisogno della nostra collaborazione. Disse così: “Vi chiedo di aiutarmi perché, non essendo io credente, non mi capiti di offendere senza volerlo la fede di chi crede”.

«Successivamente venne ad Assisi con il produttore Bini e con mons. Francesco Angelicchio, un sacerdote molto zelante e di larghe vedute, che allora dirigeva il Centro Cattolico Cinematografico. In quell’occasione c’era anche un fotografo (chiamato evidentemente da Bini), il quale “immortalò” l’abbraccio di don Giovanni con Pasolini. Uscirono articoli e foto su molti giornali, compreso il Borghese, che pubblicò un attacco velenoso nei nostri confronti. Poi Pasolini ci mandò un abbozzo delle prime pagine della sceneggiatura, che non era una sceneggiatura vera e propria, ma il testo del Vangelo di Matteo intercalato con alcune note di regia. L’impostazione del lavoro ci piacque e decidemmo di andare avanti.

«Quando il lavoro della sceneggiatura fu completato, chiedemmo a Bini di farne ciclostilare diverse copie, che inviammo a rappresentanti autorevoli della cultura cattolica, per avere un parere. Ricordo che Romano Guardini, interpellato, disse che la vita di Cristo non può essere tradotta in immagini e pertanto il film era assolutamente da non farsi. Nel frattempo era esploso il caso La ricotta con il processo e tutto quello che ne seguì. Quando Pasolini mi fece vedere in una proiezione privata La ricotta rimasi sconcertato. Gli dissi che quel film metteva in cristi tutti i miei parametri di cattolico. Don Giovanni insistette perché prima delle riprese del Vangelo Pasolini facesse un viaggio in Terra Santa assieme con me e don Andrea Carraro, il biblista della Pro Civitate, che avrebbe dovuto fornire al regista la consulenza esegetica. Per Pasolini quel viaggio aveva un carattere tecnico: vedere i luoghi dove Gesù era vissuto per poter poi trovare altrove luoghi analoghi. Nelle intenzioni di don Giovanni quel viaggio era un vero e proprio pellegrinaggio. Un atto di devozione che avrebbe messo il regista e i suoi collaboratori sulla buona strada».

Caruso prosegue ricordando il senso dei colloqui  che ha avuto con Pasolini durante la lavorazione del Vangelo. «Don Andrea e io — egli dice — ci astenemmo di proposito dal partecipare alle riprese del film. Avevamo avuto da don Giovanni la consegna di non tentare in nessun modo di condizionare il lavoro del regista. Dovevamo tenerci semplicemente a disposizione per rispondere alle sue domande. Queste consultazioni avvenivano per telefono, con conversazioni che a volte superavano la mezzora, oppure a Roma, nel laboratorio Catalucci, dove Pasolini ci faceva vedere il materiale girato e premontato. Le domande che Pasolini rivolgeva a don Andrea erano in prevalenza di carattere esegetico. Con me parlava piuttosto del significato globale del film. Ricordo che una volta ci telefonò per chiederci se i soldati che arrestarono Gesù erano alle dipendenze del Sinedrio oppure soldati romani. Gli dicemmo che erano guardie del Sinedrio. Non ricordo quanti altri problemi di questo genere si presentarono durante la lavorazione, ma ricordo che ci furono discussioni molto vivaci a proposito dei miracoli.

«La scena con Gesù che cammina sulle acque, da un punto di vista della resa cinematografica, era tra le più deboli del film. Pasolini avrebbe voluto tagliarla. Diceva che i miracoli non sono essenziali alla figura del Cristo. Io replicavo che la rappresentazione dei miracoli era una questione di fedeltà al testo di Matteo che lui aveva deciso di rispettare alla lettera.

«Il problema grosso arrivò, verso la fine della realizzazione del film, quando ci mettemmo a discutere sul modo in cui doveva essere rappresentata la risurrezione di Gesù. Pasolini cominciò con il dire che non se la sentiva di girare questa scena perché lui non era credente eccetera. Avrebbe preferito chiudere il film con la morte e il seppellimento di Gesù. Questo suo atteggiamento allarmò moltissimo noi della Pro Civitate. Pasolini si rese conto del  nostro imbarazzo e cominciò a sviluppare una serie di ipotesi. La risurrezione avrebbe potuto essere rappresentata come una soggettiva mentale degli apostoli che ricordano Gesù come era prima della sua morte, oppure come l’apparizione di un fantasma, una figura incorporea.

«A questo punto intervenne don Giovanni con tutto il peso della sua autorità. Ricordo che parlando con Pasolini al telefono gli disse: “Se tu non fai il Cristo risorto, non fai il Cristo di Matteo e noi non potremo avallare il film come corrispondente allo spirito del Vangelo”». Pasolini era molto combattuto su questo argomento. A un certo punto ricordo di essermi accorto, con grande sollievo, che stava cambiando opinione o, per lo meno, cambiava il suo atteggiamento nei confronti del film.

«Ciò accadde a partire dal taglio della scena della corruzione dei soldati. Dopo il ritrovamento della tomba vuota si vedevano, come dice Matteo, i sacerdoti che davano soldi ai soldati posti a guardia della tomba per indurli a rilasciare una falsa testimonianza circa il furto del corpo di Gesù avvenuto mentre dormivano. Pasolini aveva girato questa scena e, facendomela vedere, mi chiese cosa ne pensavo. Gli dissi che in quel momento, dopo tutto quello che era accaduto sul Golgota, la presenza dei sacerdoti risultava a mio avviso ingombrante. Erano figure già viste, che appartenevano al passato e che, secondo me, erano morte. “Allora lei mi autorizza a togliere questa scena”, disse Pasolini. “Non solo autorizzo il taglio — risposi —, ma lo auspico”.

«Pasolini rimase contento di questa mia risposta e, dopo di allora cominciò a pensare che il film non avrebbe dovuto finire come una tragedia, ma… “come un western”. Diceva proprio così. Lui era un appassionato di film western che amava vedere nelle sale cinematografiche di periferia, dove i giovani all’arrivo dei “nostri” si alzavano in piedi e applaudivano. Voleva per il suo film un finale liberatorio di questo genere. Io penso che quando ha girato la scena della risurrezione, alla fine del film, lui ci credesse veramente, non nel senso di una fede religiosa, ma ci credeva poeticamente, come conclusione giusta del lavoro che stava facendo».

Pasolini ha dunque cambiato parere, come spesso gli accadeva, durante la lavorazione di un film. Le parole di Caruso suggeriscono l’ipotesi, che trova riscontro nella visione del film, che Il Vangelo secondo Matteo sia stato fatto da un uomo che, ritenendo di non avere la fede, cerca di appropriarsi, mediante un’ardita operazione di stile, del punto di vista di un ipotetico credente. È forse nell’intera storia del cinema l’unico film che rechi nello scorrere delle sue immagini la traccia di un problema di questo genere vissuto nel corso della realizzazione della pellicola: la tensione tra la difficoltà di credere e la consapevolezza dell’impossibilità di riuscire a fare un film poeticamente valido mantenendosi estraneo a un’ottica di fede.

1 Pasolini diceva che «il più grave difetto della critica cinematografica è quello di mancare di gusto filologico. Essa è una critica tutta sensibilità, di fondo idealistico […]. Le fonti cinematografiche sono viste come qualcosa di mitico, mai di storico. Direi che per una critica filologica alla saggistica cinematografica manca addirittura la terminologia» (P. P. PASOLINI, «Diario al registratore», in Romanzi e racconti, vol. 2°, a cura di W. SITI e S. DE LAUDE, Milano, Mondadori, 1998, 1.845).

2 S. PARIGI, Pier Paolo Pasolini. Accattone, Torino, Lindau, 2008, 233, € 18,00; T. SUBINI, Pier Paolo Pasolini. La ricotta, ivi, 2009, 221, € 18,
00. La Parigi insegna Storia del cinema italiano al Dams di Roma Tre. Subini è ricercatore presso l’Università degli Studi di Milano, dove insegna Storia e critica del cinema.

3 Cfr «La religione del mio tempo», poemetto inserito nella omonima raccolta di versi, ora in P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, a cura di W. SITI, vol. 1°, Milano, Mondadori, 2003, 978.

4 Cfr «Diario al registratore», cit., 1.845 s.

5 P. P. PASOLINI, «Una visione del mondo epico-religiosa», dibattito con gli studenti del Centro Sperimentale di Cinematografia, Roma, 9 marzo 1964, pubblicato in Bianco e nero, giugno 1964, ora in Per il cinema, a cura di W. SITI – F. ZABAGLI, t. 2°, Milano, Mondadori, 2001, 2.846.

6 Ivi.

7 Il titolo del film, Rogopag, è composto dalle prime sillabe dei nomi dei quattro autori degli episodi che compongono l’opera collettiva: Rossellini, Jean-Luc Godard, Pasolini e Ugo Gregoretti.

8 Tra le voci che si levarono in difesa de La ricotta e del suo autore ci fu quella del gesuita Domenico Grasso, professore di Teologia pastorale presso la Pontificia Università Gregoriana, il quale così scriveva a Pasolini: «La purezza delle sue intenzioni per me non lascia dubbi. Dalla stessa realizzazione [del film] credo sinceramente che non si possa tirare la conclusione di un voluto vilipendio alla religione. Le sue spiegazioni e, in particolare, il contatto avuto con lei mi fanno escludere il dolo nella maniera più evidente» (cfr p. 63).

9 La pala del Pontormo si trova nella chiesa di Santa Felicita a Firenze, quella del Rosso è custodita nel museo civico di Volterra.

© La Civiltà Cattolica 2009 III 504-516        quaderno 3822

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ZENIT Staff

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